Moai e vicuñas

by 13900

Ci sono viaggi figli del momento: decisi, programmati e pagati in quattro e quattr’otto. E poi ci sono viaggi come questo, nati tanto tempo addietro. Venticinque anni fa per l’esattezza, quando chi vi scrive era un bocia che amava leggere i “Manuali delle Giovani Marmotte”. In uno di quei manuali, o forse era in un numero di “Topolino”, chi se lo ricorda più, c’era una storia sull’Isola di Pasqua, o Rapa Nui secondo il nome che più mi piace e che userò di qui in poi. Con la solennità di un pre-adolescente mi promisi di andarci.

Passano gli anni e le cose iniziano a cambiare. C’è un biglietto, priorità F, da usare. Dopo il 14 di giugno non ci sarà più: in un momento la decisione è presa e il posto prenotato. Altre decisioni, altri passaggi di carta di credito e l’itinerario si completa: LHR-SCL, SCL-IPC e ritorno. Poi il nord. Calama sarebbe l’aeroporto d’obbligo, ma ANF costa meno soprattutto per l’autonoleggio e, dopotutto, suma tuch bieleìs, ossia braccini. Antofagasta sia.

Un breve disclaimer già che ci siamo, alla moda degli assicuratori: questo è un TR lungo, con tanto topic – sia in che off. Cercherò di completarlo il prima possibile, ma ciò dipenderà dalla velocità di upload delle foto che, vi piaccia o meno, vi arriveranno nella bellezza della risoluzione offertami da imgur. Non so cosa sia, ma in casi estremi…

Parte I. LHR-SCL

La partenza è venerdì alle 22. Sbrigata in malo modo la giornata lavorativa ho il tempo di tornare a casa, mangiare qualcosa assieme a 8200 che – continuerà a sembrarvi strano – non mi ha ancora mandato a quel paese e, con colei accompagnato, ritornare a LHR. Check-in, sicurezza e passaggio al T5B sono rapidi e indolori; ci troviamo al complice baretto in men che non si dica.

Fuori la luce si fa calda e le partenze si fanno poche.

Lui va a Mumbai, o così sembra:

Lui invece, chi lo sa:

Il T5C in tutta la sua lineare beltade:

Il nostro volo parte dal gate B48, quello con la jetway talmente che lunga che ancora un po’ si finisce a Southall:

La First si presenta così. Già visto, ma comunque belloccia. Perdonate la qualità infimerrima.

Il crew è in palla, e subito parte la distribuzione delle washbag. Le nuove sono più larghe e chiattone di quelle vecchie, con più roba. Peccato solo per il rivestimento color ratto di quelle da uomo. All’interno ci sono prodotti a marchio Elemis tra cui una schiuma da barba ma non, stranamente, il rasoio (che va chiesto a parte). Avendo da tempo adottato il look alla Barabba la cosa non mi pone un problema, ma è una di quelle meraviglie Health & Safety che rendono questo paese maledetto.

Com’è d’obbligo, champagne e noccioline. Anzi, chiedo scusa, sciambagn e noccioline, servite tiepide.

Uno sguardo al menù. Quello nuovo ha un motivo a lisca di pesce che, in foto, fa un effetto alla TV anni ’80; vi risparmio le foto dei vini che vi riproporrò al ritorno.

Stacchiamo in orario e caracolliamo verso il lato opposto di LHR. In aria il nuovo servizio prevede tre amouse-bouche, che annaffio con una pregiatissima tazzaccia di caffè. Ho già mangiato e sono satollo, ma l’assistente di volo impone che provi almeno quelli.

A seguire mi viene imposto (davvero eh) il tagliere dei formaggi, che abbino a un freschissimo calice di eau de Écosse millesimée mentre lavoro forsennatamente a una cosa che mi è stata chiesta all’indegna ora delle 18.30.

A una certa, lavoro compiuto, mi metto a dormire. Ora, il servizio BA prevede, sia in Club che in First, il letto con materassino, piumino e cuscino. Se già in Club questi sono caldi, in First sono da uso all’aperto durante la ritirata di Russia. Mi tocca impedire al solertissimo assistente di volo di fare il letto e mi doto soltanto della copertina e del cuscino. Fatto ciò cado in stato di morte apparente [cit.] fino più o meno a qui:

Che, mi direte voi, ndo sta? Beh, qui:

Vedendomi sveglio mi viene offerta la colazione. Iniziamo colla frutta; qui, amici e vicini, si vede la mano Do&Co: il mango è mangiabile.

A seguire la full English, come al solito. Una schifezza da guardare, ma non male da magnarsi.

Il resto fila via bevendo tazze su tazze di caffè e guardando Vice, il film biografico su Dick Cheney. Il 789 è il primo dotato di Wi-Fi, disponibile a pagamento, ma l’idea di usarla non mi attira nemmeno un po’. Mentre elucubro di satelliti e cose simili si fa l’alba.

E, in un coro di angeli, arriviamo a Santiago dove ci accolgono i cugini

Cugini che, brutalmente, sorpassiamo per andare ad attraccare per primi, bruciando la fila.

Scendiamo da un volo molto tranquillo e piacevole. Il 789 si conferma un aereo decente seppur non al livello del 380; la scelta di limitare l’alcool al minimo si rivela pagante, tant’è che arriverò ben in forma. Corriamo, in una pura discesa dalle stelle alle stalle, a prendere il bus da barboni per Los Heroes e, di lì, la metro.

Parte Ib – Intermezzo Santiago

Abbiamo una mezza giornata feriale a esser generosi; 8200 è già stata in questi lidi più volte, io solo per un cambio d’aereo, per cui non vale nemmeno la pena di disturbare il Console, cui comunque baciamo rispettosamente le mani. La realtà che subito ci si para davanti è di una città che, seppur benestante – non solo per gli standard latinoamericani, ma in generale – è anche mal tenuta e non necessariamente bella.

Ci troviamo con un amico dei tempi dell’università, spostatosi qui dopo aver conosciuto una ragazza cilena, con cui è sposato. Il suo giudizio sull’estetica della città, che vi riporto, è: “Sembra corso Giulio Cesare, solo che alla fine non si arriva mai in zona piazza Castello”. Se mai v’è capitato di passare per la zona nord di Torino saprete.

Andiamo a visitare il museo di storia precolombiana, che si rivela assai cinematografico in particolar modo nella parte dedicata al Cile “prima del Cile”.

Un quipu, di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai visto prima. In soldoni, il metodo Inca di gestire la contabilità. Ogni linea, ogni nodo, ogni colore ha un significato. Peccato che gli ultimi in grado di leggere questo sistema siano morti nelle miniere dei conquistadores.

Statue lignee dal sud del paese, civiltà Mapuche se non erro.

Terminiamo la visita a Santiago con un brevissimo giro a Belles Artes, tre vie che ricordano, seppur tenuamente, Palermo a Buenos Aires.

 
Parte II – Rapa Nui

Ci sono due modi per andare a Rapa Nui. La nave, o l’aereo. E siccome non siamo auto usate o bombole del gas, aereo sarà.

Il primo ostacolo lo incontriamo appena usciti dall’hotel. Di domenica la metro apre all’urbanissima ora delle 8 antimeridiane. Sono le 6 e qualcosa. Optiamo quindi per un complice Uber, che ci deposita alle partenze del Benito Merinez in poco più di mezz’ora cavalcando onde verdi anche quando diventano gialle o rossicce. Il secondo problema si pone una volta fatto il check-in e liquidato lo zaino; l’ingresso per i voli nazionali non vale anche per Rapa Nui; si deve andare nel retrobottega del secondo piano.

Fatto ciò si è nell’alcova del terminal nazionale, dove la vista è tipo capannone del Leroy Merlin e, dagli altoparlanti, giungono alternativamente musica pre-2005 e annunci in spagnolo.

Sono però felice di annunciarvi che SCL è hub. C’è pure un Briciole bar, segno che Autogrill è arrivata pure qui.

La vista fuori è entusiasmante:

La vista della carta d’imbarco un po’ di più.

Ora, è vero che questo è spagnolo, ma l’immagine di Verdone alla Un sacco bello che ti dice “SE PAGAAAA” alla vista del secondo collo di bagaglio è qualcosa che, in questa mattina, mi riempie di gioia. Sono le piccole cose, lo so.

Un LAN vecchia livrea viene preparato per non so più dove. La mia speranza è che il nostro ferro, un 789, sia ugualmente addobbato nello stesso modo, ma così purtroppo non è, vedere per credere.

L’imbarco viene chiamato per file e viene fatto rispettare con zelo sovietico. Noi siamo in ultima fila, dove la configurazione da 3-3-3 diventa 2-3-2. I sedili da 2, che abbiamo accalappiato durante la prenotazione (stranamente aggratis) sono i crew rest, evidentemente non usati durante voli di questa breve durata. Il pitch è chilometrico.

Partiamo in orario; in taxiing possiamo ammirare un po’ di aerei AA in area tecnica, oltre allo splendido MD-10 Orbis; dopodiché siamo in volo sulla la bella arietta che tira sopra Santiago.

Il volo è praticamente pieno a tappo con un misto di 60% locals e 40% visitatori. Un indigeno su tre sembra avere una scatola-famiglia di ciambelle Dunkin’ Donuts che, a quanto pare, sono il regalo da fare se si va a Rapa Nui (sapevatelo). L’equipaggio è molto buono e rispondono alle dodicimila chiamate con solerzia e gentilezza.

Lasciamo la costa del continente.

Pure l’airshow conferma, in portoghese, che non stiamo facendo la fine del tizio che voleva andare a CAG ma è finito a BRI.

Fuori la vista si mantiene liquida, liquida e liquida.

Nel frattempo, invece, arriva il rancio. Niente di eclatante, ma apprezzabile l’uva come dessert.

Dopo quattro ore e qualcosa di volo parte la chiamata per un dottore a bordo. Si alza prima un omino seduto tre file davanti a noi. Segue una vera e propria turba di infermiere, che però ritornano ai loro posti poco dopo; qualunque sia l’emergenza, sembra fortunatamente rientrare.

Nel frattempo siamo vicini alla meta, ma l’isola continua a latitare.

Dopo un po’, però, eccola. L’emozione, che ve lo dico a fare, è tanta.

L’atmosfera a bordo è gioiosa. I piloti, quando appaiono all’altoparlante per fare lo spiegone di arrivo, non si preoccupano di spegnere la musica che suona in sottofondo; tutti ridono e scherzano, anche se il meteo sembra un po’ incerto. Non appena tocchiamo terra, poi, parte l’applauso ”para el piloto” come grida una signora. A margine di questo festival c’è sempre spazio per un doveroso e servile omaggio ai torristi.

Scendiamo nel migliore dei modi, ossia con la scaletta, in un sole splendido. L’aria è calda, la brezza paradisiaca, i colori saturi come mai lo sono a Londra, il Trent 1000 ha funzionato – miracolo – e scopriamo di essere arrivati qui in compagnia di Mini Me che, come si può vedere nella terza foto qui sotto, è arrivato con una borsa dell’Eurospin come bagaglio a mano.

L’aerostazione è un capanno con annessa una capanna; dentro fanno millemila gradi e ci vuole l’idrante per spostare la gente dal nastro bagagli. Raccolto il sacco, è ora di andare all’hostal. E qui vi lascio, ché deve iniziare l’OT.

 

Parte III – El misterio vive

Sgombro subito il campo dagli equivoci; Rapa Nui era, e rimane, in cima alla mia lista delle cose da fare prima di schiattare. Dico rimane perché voglio ritornarci.

Se vi interessa una vacanza in spiaggia, ci sono posti migliori. Infatti c’è solo una spiaggia, ad Anakena. Se volete barriere coralline, qui non ce ne sono. Se siete tipi da all-inclusive, fatevi – anzi, fatemi – un piacere e girate alla larga. Rapa Nui alle volte sembra quasi la Scozia; in certe altre occasioni sembra il Gorno Badakhshan, specie quando ti dicono Lo siento, no podemos hacer el latte, no tenemos el leche perché ancora non è arrivato.

Però, c’è qualcosa. C’è qualcosa, qui, che non riesco a spiegare ma che ci ha catturati tutti. Io, 8200, il mio collega Alfredo che c’è venuto in luna di miele, gli altri ospiti dell’hostal in cui stavamo, il gestore – un francese che c’è arrivato a 25 anni 25 anni fa e non è mai partito. Pare persino che l’animo duro di Dancrane si sia addolcito, qui. Dicono che l’abbiano trovato in cima al Terevaka, bottiglia di assenzio in mano, che vergava poemi come Pascoli. Divago. Comunque, un legame con Dancrane e Dreamliner c’è. Pare che l’hostal dove stiamo sia lo stesso dove stettero loro; provo a parlarne con una delle cameriere e subito partono storie di feste da ultimi giorni dell’impero, camere incendiate e di come, alla loro partenza, non ci fosse più un’autoradio o ruota di scorta in tutte le macchine dell’isolato. Fingo di non capire l’idioma e cambio subito argomento.

C’è qualcosa, qui, dicevo. Una risposta a qualche domanda che non sono in grado di fare. Una sensazione. Di certo c’è il senso di essere isolati. Duemila km per arrivare a Pitcairn, tremila per la Polinesia francese, tremila e mezzo per il Cile continentale. Il cielo è una poesia, una sinfonia di colori e di giochi di luce e ombra, e chiunque non si fermi almeno due volte al giorno a dirsi ”Mazza quant’è bello” ha, per citare liberamente Gigi Buffon, un foglio Excel al posto del cuore.

Parliamo poi della natura. Ancora, se volete panorami mozzafiato, tropicalismi epici e lagune blu andate da qualche altra parte; non so dove, ma non qui. Qui la natura è dolce, invitante e modestamente brillante. Le colline rotolano fino alle scogliere in uno stile che ricorda la Scozia, i boschi sono per lo più di eucalipto (che rende guidarci o camminarci attraverso un vero e proprio piacere; la mia casa ideale dovrà avere un giardino di rosmarino ed eucalipto). Cavalli girano praticamente liberi.

E le notti… sono troppo capra per fare foto, ma immaginatevi una notte a Tongariki, con la Via Lattea che letteralmente corre da un lato all’altro dell’orizzonte, satelliti che girano silenziosamente e i pianeti che si levano altrettanto mutamente. Ma passiamo oltre, ho rimandato fin troppo il vero pezzo da novanta di quest’isola. I moai.

Akivi, l’unica combo ahu-moai che guarda verso il mare. Si dice che i sette moai rappresentino i sette esploratori che, primi, giunsero a Rapa Nui e portarono al re Hotu Matu’a informazioni circa la sua esistenza.

Tahai, poco più su della cittadina di Hanga Roa, posto migliore per il tramonto e per un aperitivo pane-e-salame (meglio se solo alcol altrimenti arrivano i cani ad annusarti, cosa che a me non spiace ma ad altri potrebbe).

Ad Anakena, la spiaggia dove Hotu Matu’a sarebbe arrivato per la prima volta, ci sono dei moai in un ambiente qui veramente tropicale.

Il pezzo da novanta dei pezzi da novanta, Tongariki. Quindici moai tutti in fila.

Sulla via per Ahu Te Peu, sulla costa nord dell’isola.

Se vi va di leggere un po’ di cose pallose su ecocidio e teorie alternative vi rimando, con pochissimo senso del pudore, qui.

Doverosa, innegabile, dovuta parentesi anche su Ranu Raraku. Visto in una mattinata di controsole terribile, con una “folla” di ben 10 coreani, ma comunque splendido. E non solo per la signora che, maiale al guinzaglio, a momenti non ho investito sulla via del ritorno.

Infine due foto dalla zona di Hanga Roa. Una cittadina calata nel verde con quel tipico ritmo indolente, irresistibile.

E con quest’ultima foto, un sincretismo tra cristianesimo e religione Rapa Nui, con San Pietro e l’uomo-uccello, finisco l’OT di Rapa Nui. Nell’attesa di ritornarci, continua!

Parte IV – Ritorno dall’Isola

”Un gioco dura bello quando dura poco”, diceva l’analfabeta funzionale che ci allenava a calcio da ragazzini (di recente candidatosi per il M5S in un’elezione locale, ça va sans dire). E oggi purtroppo il giuoco dura poco, ché s’ha da tornare a Santiago. Almeno non si deve tornare a Londra, mi dico.

Abbandoniamo l’hostal con transfer di cortesia da parte del nostro anfitrione, a bordo di un pulmino Hyundai scassatissimo. Guidiamo con tutti i finestrini giù, godendoci ancora un’ultima volta la bellezza di quest’isola, e poi siamo, purtroppo, in aeroporto.

Al check-in ringraziamo il cielo di volare commerciale e non standby; le ragazze al banco, seppur gentilissime, parlano solo spagnolo e doverle spiegare di essere standby ma dipendenti non di LATAM bensì di BA, nel mio spagnolo imparato su Narcos, sarebbe troppo. Sia come sia, sbologniamo lo zaino e ci mettiamo in coda per i controlli di sicurezza, non prima di essersi scolati un’ultima Mahina al baretto dell’aerostazione, unico al mondo diviso da un muro di Berlino trasparente tra airside e landside.

In coda scopriamo che il Concorde è arrivato (e partito) da qui. Cosa non male sebbene fosse quello della concorrenza.

Vi risparmio la visuale della stanza che funge da aerostazione. Ci rifugiamo nel giardinetto, che a differenza di quello di Changi ha anche un moai originale. Beccati questo, Singapore.

L’aereo è di nuovo un 789, i posti gli stessi, la differenza è che l’aereo è più sgarruppato, con il recline non funzionante e diversi pezzi un po’ rovinati. Poco male, trovo subito dell’Ottima Musica con cui allietare il mio povero cuore.

Sono tifoso del Toro e quindi abituato a soffrire, per cui mi faccio forza e saluto un’ultima volta questa splendiderrima isola. A presto, tornerò. Non costruire un W hotel. Impedisci a un numero eccessivo di bauscia di venirci. Assolutamente zero visite da parte di Justin Bieber o gente del genere. M’aracumandi.

Il ritorno è serotino. Decolliamo verso sud e, visto per cinque secondi Ranu Kau, è tutto acqua. Come se Rapa Nui non fosse mai esistita. Dopo non molto arriva il carrello del rancio, e andiamo di pollito y arroz. Niente di che, il tutto bagnato da una Cristal che da fuori sembra una lattina di fanta. Per fortuna l’IFE di LATAM non è stato riempito da un diciassettenne di Croydon (a differenza di quello di BA) per cui c’è qualcos’altro, nel settore audio, tolti i grime artists, Lana del Rey e Paloma Faith.

Atterriamo alle 21 e qualcosa; al carosello dei bagagli di Santiago suona qualcosa dei Thake That. Lo zaino – ne abbiamo uno in due – arriva in fretta e poi andiamo a prendere il bus per l’hotel aeroportuale, il primo LaQuinta che vedo senza pensare “Mi domando quanta cristal meth spaccino dietro al parcheggio”. Forse perché non siamo in America, ma la stanza si presenta così.

Parte V – Santiago/Antofagasta/San Pedro de Atacama

La sveglia suona, come dicono da queste parti, a silly o’clock. Saliamo sul complice bus che ci riporta al Merino Benitez. L’aeroporto è tutt’ora un cantiere e tale rimarrà fino a fine 2020, per cui capannone dei voli nazionali sarà. Prima di tutto, uno sguardo all’area check-in, che avrebbe bisogno di una rinfrescata.

Arriviamo al gate e, dopo poco, inizia il boarding. A differenza del volo long-haul, imbarcato per file, qui si imbarca per colonne. Prima i fortunelli in posto finestrino, poi i mentecatti col middle seat, infine quelli corridoio. Come potete vedere sono nella colonna dei mentecatti. Passo il tempo a domandarmi quanti threads di lamentela verrebbero aperti su Flyertalk qualora BA facesse qualcosa del genere. Intorno a noi sono quasi tutti uomini; alcuni vestiti in completo, quasi tutti gli altri con addosso almeno un logo di una qualche compagnia mineraria. Turisti, solo noi.

L’aereo del giorno è un 321 in configurazione All-Y, una latrina davanti e due dietro. Stranamente, a differenza del volo per IPC, qui costa pure cambiare il posto durante l’online check-in. Essendo braccini andiamo con ciò che passa il convento, ossia due sedili in fondo, fila 38. L’aereo credo abbia configurazione massima possibile per un 321, ma senza galley Spaceflex. Prevedo dolore.

E infatti dolori sono.

Ora, non lo dico per aziendalismo, ma io nei sedili SH BA entro. Sul 319, sul 320, sul 321. CEO, CEO con spaceflex, NEO. Anche quelli che hanno i sedili Recaro nuovi stile easyJet. Su questo, no. Proprio sono incollato e, bontà sua, la brava donna davanti a me fa ciò che fanno tutti quelli che si siedono davanti a me, ossia reclinare il sedile. E il tizio di fianco a me, che come sempre è un ex pallanuotista croato che non ha ridotto le calorie dopo la fine dell’attività agonistica, fa un Anschluss del bracciolo. Segue una breve lotta e ci accordiamo da gentiluomini, una spartizione della Polonia che lascia entrambi soddisfatti. Si parte.

Il servizio a bordo è tutto Buy on Board, prezzi decenti e, alla fine, per un’ora e mezza di volo si può anche non bere o mangiare.

La mattina è grigia, grigia come erano le mattine di novembre in Corso Peschiera. Passiamo di nuovo l’area tecnica ed ecco, finalmente, gli aerei AA e quello Orbis.

Il volo corre lungo la costa, che come a Rapa Nui è travagliata e marosa:

L’atterraggio ad Antofagasta è una buona cartolina da visita della città. Non me ne vogliano gli Antofagasteños se ci leggono, ma quella città è una latrina. Se mi dicessero “Scegli: Dushanbe o Antofagasta” sarei già pronto per il Tajikistan. Una città nel deserto, avvolta in una nebbia semiperenne, fatta di sabbia polvere e spazzatura, un’autostrada come promenade vista mare, allietata da lampioni su cui stanno appollaiati decine e decine di avvoltoi enormi. Un quartiere di bidonville grosso q.b. che ospita i nuovi arrivati da paesi disgraziati tipo Venezuela, attirati dalla prosperità e stabilità del Cile. Pubblicità di mezzi minerari e basta.

E allora, mi direte voi, considerando che San Pedro ha un aeroporto a meno di 100 km di distanza, che sono andato a fare ad Antofagasta? La risposta è che, ancora una volta, son biellese e braccino. E siccome son biellese e braccino, noto fatti come questo: AVIS chiede x, a Calama, per una scornacchiatissima Hyundai iQualcosa, una specie di testicolo su ruote. La stessa AVIS chiede x – 200 (e quei 200, badate, sono in GBP, non Pesos cileni) per questo:

Cinque metri di lamieraccia made in Nissan, 2.3 diesel con maschissima trasmissione manuale, 4 ruote motrici, marce ridotte e bollino di approvazione del Mullah Omar nel cruscotto “Ci stanno cinque dei miei nel cassone e anche quattro RPG!” dice il guercio. Aggiungiamoci che il catalogo di bolli, graffi, sbreghi e tagli fa pensare a un’attitudine tutt’altro che zelante da parte di AVIS nei confronti dei danni. E, siccome io ho sempre voluto guidare un auto da talebano, la risposta alla domanda “Ma che ci vai a fare ad Antofagasta?” è presto data.

A presto, spero nel weekend, dove le viste saranno così.

Parte VI. Atacama

Dove eravamo rimasti? Ah si, Antofagasta.

La partenza è facile, con una guidata di circa 4 ore per arrivare a San Pedro via Calama. Il panorama si fa degno di un quadro di Salvador Dalì tra città abbandonate (Pampa Unión contava 30.000 abitanti e un centinaio di bordelli), treni merci infiniti e traffico composto da camion, camion e pick-up rossi come il nostro. Sorpasso un filotto di tre camion carichi di acido solforico e mi rendo conto, con una punta di invidia, che il nostro pick-up, per quanto dotato di roll-bar, integrale e ridotte, non ha la radio con antenna piegata nel vano di carico, luce extra montata sul montante del roll-bar e i tacchi da piazzare quando ci si parcheggia in discesa. La tentazione di tornare ad Antofagasta e far volare i tavoli è forte; ma ho l’attenzione di Homer Simpson e la visione di un campo di pale eoliche, per di più made in ENEL, mi fa dimenticare tutto.

L’approccio finale a San Pedro passa attraverso la Cordillera de la Sal. Se non fosse che la ricezione 4G funziona a “bolla” solo intorno ai paesi, e pure le reti radio smettono di trasmettere cumbia 40 km dopo i limiti urbani, questa è una zona in cui mettere “The Ecstasy of Gold” a ripetizione continua. I saliscendi della strada – perfetta, va detto – sono invitanti, il panorama è marziano tra montagne e costoni rossicci bordati di sale, e all’improvviso ci si trova dinanzi alla Valle de la Luna (piccolo appunto: fate attenzione a parcheggiare, il salto è lungo e non particolarmente segnalato).

Di San Pedro in sé non ho molto da dire, se non che è un incubo guidarci. Il comune, pare per preservarne l’aspetto storico, non ha mai asfaltato le strade. Il risultato è che si avanza ai 10 all’ora su tratturi da gara di Enduro, mangiando polvere e augurandosi di non metter sotto nessuno – cani, astanti, turisti cretini. L’unica stazione di servizio nell’intero deserto di Atacama è all’interno del pueblo, e si raggiunge prendendo una via piena di negozi e altre cose pro-turistame, Toconao. Poi si gira nel cortile di un albergo, si prosegue lungo una specie di passaggio secondario, si trova la pompa, si fa benza, si ritorna da dove si è venuti e si gira a sinistra per allontanarsi dalla zona pedonale. il tutto con curve a 90 gradi di raggio impossibile per un pick-up, con fossati nascosti e, ovviamente, cani randagi. Ho fatto benzina due volte, lì, ed entrambe le volte alle 7 di mattina, quando in giro c’eravamo io e due quadrupedi, e già in quel momento gli zooteologismi si sprecavano.

Detto questo, e considerando che un giretto in città causerà forzosamente silicosi polmonari, abbiamo limitato i nostri giri in città al minimo indispensabile. Avevamo fatto scorta di viveri in un Walmart/Lider ad Antofagasta, inclusa abbondantissima acqua, e l’hostal in cui stavamo (Montepardo) forniva il resto.

Dico anche dell’altro problema di queste zone, così me ne libero subito e non ne parliamo più. È il drive-thru-tourism. Mi spiego meglio: non siamo stati chissà che trekkers in questa vacanza, ma qualcosina abbiamo fatto. La Valle della Luna, almeno dalla duna in poi, ce la siamo fatta appiedi, una decina di km tra andata e ritorno. Il periplo delle lagune Miscanti e Miñiques, pure. La zona di Monjes de la Pacana, idem con patate. Non così gli altri. Tour, auto private, tutti sono arrivati fin sotto alle attrazioni in auto. Sono scesi, foto, selfie, grida di rito, e sono risaliti. Per me, abituato come sono al silenzio in montagna, è stato difficile vedere una turba dopo l’altra di brasiliani urlanti scendere dai bus, fare foto e selfie gridando, e altrettanto rumorosamente ritornarsene a bordo, in una fretta tale che nemmeno hanno visto le vigogne che giravano lì vicino. Un concetto di montagna, di natura, completamente snaturato. Fossi stato su uno di quei tour sarei andato di testa.

Levato questo sasso dalla scarpa, continuiamo. Dicevo della Valle de la Luna.

Parte VIbis – Atacama

Quando viaggiamo, 8200 mi dice cosa vorrebbe fare/vedere e io penso all’organizzazione. ‘Stabbotta il compito è facile e difficile allo stesso tempo: moai (fatto), vulcani (facile), fenicotteri. Ecco, quest’ultimi sono più difficili; è maggio, e questi maledetti sono già emigrati altrove. Ciononostante ci troviamo a fare fuoristrada verso la laguna Cejar, dove si può fare il bagno e, in tempi migliori, vedere i fenicotteri.

La vista è comunque splendida, eh, col vulcano Licancabur in primo piano.

Intorno alle lagune ci sono capanni come questo, in cui piazzarsi per osservare i pennuti senza dar loro fastidio. Fuori stagione servono per far ombra ai piemontesi.

Il sole tramonta, la luce si fa mielata, i turisti se ne vanno con l’eccezione di un gruppo di donne cilene che sono assolutamente estasiate dinanzi alla prospettiva di galleggiare sulle acque come il Nazareno. Ridiamo come dementi al sentirle, erano davvero simpatiche.

Nel bel mezzo di un cambio di lenti… eccolo. Il fenicottero arriva con un atterraggio da A380; percepisce lo starnazzamento delle signore, non lo giudica di suo gradimento e aridecolla. Il meglio che posso fare è questo:

Poco male, ci sono dei ritardatari. Li troveremo. Godiamoci il tramonto nel frattempo.

Il giorno dopo rizompiamo in auto alla volta della Laguna Chaxa. La strada per la laguna è una B-road subito dopo Toconao, a sud di San Pedro. Com’è nello stile delle B-roads in questa zona qui diventa tutto un sentiero per muli dopo cinque minuti. Parlando di muli, asini e animali da soma:

La strada, nel frattempo, da tratturo diventa una soffice pista in costruzione, ammorbidita da un misto di sale, umidità e sabbia. Sembra di essere in un video degl’Imarhan, col pick-up che corre nel Teneré, nuvoloni di polvere e ignoranza a livelli epici, se non fosse che appena dietro di me c’è il camion di movimento terra più grosso del mondo. Dai retrovisori vedo la griglia del radiatore e le lettere M – A – C – K. Facciamo gli 80 su sterrato, col sottoscritto che, quando arriviamo al punto in cui tutto il traffico viene bloccato per far passare i mezzi di costruzione, prova a chiedere in spagnolo “Scusino, qualcuno ha un paio di brache pulite?”.

La vista dalle lagune, però, ripaga di tutto.

Questo è il salar de Atacama. Meno spettacolare di Uyuni ma non meno salato e ricco di litio. Elon Musk ringrazia.

Il cielo è terso, la temperatura gradevole ma il sole, per citare di nuovo Guareschi, picchia martellate in testa. Parlando di martellate sull’encefalo, che sia un miraggio?

No! Sono proprio loro, i dannati pennuti.

Questi protogamberetti sono il motivo della loro presenza qui. La laguna ne è francamente piena, in vere e proprie nuvole che i nostri, coi loro becchi, filtrano dall’acqua salmastra. I gamberetti contengono carotene che, a sua volta, colora di rosso le loro piume.

Si fa il momento di lasciare Chaxa e di andare vero la prossima mèta. Ma è anche il momento di spezzare il post.

Continua!

Parte VIter – Atacama

Per un TR intitolato “Moai e vicuñas” mi rendo conto di non aver messo alcuna vigogna. Anzi, proprio non ho messo un camelide che sia uno. Rettifichiamo subito prima che Dancrane mi banni:

“sono dei llama, cretino!”

Vero, domando scusa. Le vigogne sono più difficili da trovare. Bisogna andare in una zona ben oltre Socaire, ridente paesello che andrebbe gemellato con Murghab, Tajikistan, a 3600 metri. Qui le comunicazioni non sono facili:

Ma la vista… boia faus, la vista. Qui, tra l’altro, non c’è praticamente nessuno. Siamo a 4000 metri oramai.

Qui le cose si fanno meno piacevoli. Saliamo su uno sterrato da trazione integrale in compagnia di altri 4×4 guidati da gente con ancor meno capacità di me, targati Belo Horizonte e Curitiba, più un paio di Peugeot 208 dell’Hertz di Calama. Mi chiedono, e obbedisco, di spingerne una in avanti in un turbinio di polvere e, come ringraziamento, mi urlano di non rovinargli il paraurti. Arriviamo all’ingresso del parco Miscanti e decido di averne abbastanza. Parcheggiamo il pick-up e andiamo a piedi. I 4400 metri si fan sentire, ma siamo praticamente da soli sui sentieri.

Si ma io v’avevo promesso vigogne, e qui non ce ne sono.

Eccole, eccole:

Concludo questo OT con un giro su su, verso la triplice frontiera cileno-boliv-argentina, ai Monjes de la Pacana e al Salar de Tara. La strada è epica, con camion enormi, targati Argentina, che arrancano con carichi pantagruelici. Si prendono 2000 metri di altitudine in meno di 50 km, e in discesa è un suicidio per i freni.

Qualcuno s’è fatto male [cit].

Però che vista.

Arriviamo ai Monjes de la Pacana. Dei monoliti plasmati da sabbia e vento.

Una vigogna è sorpresa quanto noi di trovarci lì. Jatevenn’ afangul sembra dirci, e noi obbediamo. Rivedecci signò.

Cominciamo la discesa, che è veramente assassina. Freno solo in punti strategici e solo per scendere a 80 all’ora in curva, o ai 60 in caso di tornante, ma devo comunque fermarmi una volta per far raffreddare i freni, la cui puzza è ovunque. La strada è intelligentemente costellata di corsie d’emergenza, tutte con la ghiaia sottile solcata nel profondo da camion i cui freni non devono aver retto.

Per qualcuno, purtroppo, non è bastato. Chioschetti del genere, spesso abbelliti con lucine e persino panche, sono ovunque sulla strada.

Il mio bisonte, invece, non ha dato problemi. 1500 km dopo, lo riporterò ad Antofagasta impolverato ma altrimenti intonso. Ma quello deve ancora venire, continua!

Parte VII – Il rientro

Arriva, alfine, il lungo giorno del rientro. Il menu prevede un antipasto di 4 ore di guidata nella notte per Antofagasta, 350km o giu’ di li; a seguire volo ANF-SCL e, come completamento, le 14 ore di volo del BA250 SCL-LHR. Iniziamo con brio all’alba delle 4.30, col Nissan che ronza come un calabrone e i km che volano dietro la luce degli abbaglianti (che qui tutti usano e pochi spengono quando incontrano altre auto). Il passaggio tra le pale eoliche di Calama e’ veramente surreale, decine di lucine rosse che brillano all’unisono nel buio del deserto.

La strada tra Calama e l’innesto della Ruta 5 per Antofagasta era il pezzo che piu’ mi preoccupava: una via a doppia corsia, con traffico per lo piu’ di mezzi pesanti, al buio. Ci sono punti in cui l’asfalto e’ un po’ bruttarello (niente in confronto alla ruta 27 per l’Argentina, in cui m’e’ capitato il guado di cui sotto, o i fuoristrada delle B-rutas), ma comunque.

Fortunatamente i miei timori si mostrano infondati. La stragrande maggioranza dei camionisti dorme ancora e conto i sorpassi sulle dita di una mano. Dall’altro lato, da Antofagasta in direzione per Calama, il traffico e’ invece molto piu’ sostenuto; camion e pick-up ogni 2-3 minuti. L’unica sorpresa la riserva il treno, i cui binari corrono sulla destra. Vedere tre luci gialle a triangolo, sormontate da due lucine blu lampeggianti a mo’ di fuoco di Sant’Elmo e’ abbastanza disorientante. Nella notte, quando e’ difficile capire le distanze e la natura degli oggetti, le pippe mentali si moltiplicano: un camion contromano? Qualche mezzo per la manutenzione stradale? Satana? E’ solo quando mancano 50 metri che si capisce che, li mortacci sua, e’ solo il treno.

Tutto procede bene fino a Sierra Gorda. Qui c’e’ un punto di controllo dei Carabineros, un posto di blocco con due militi verdevestiti nel mezzo della cittadina che ancora se la dorme. Davanti a noi due camion, dietro di noi una marea di autocarri. I militari fermano noialtri. Patente, passaporto e… [i]Donde esta el permiso internacional/[i]. La faccio breve: per uno come me, che ha imparato le due parole di spagnolo che sa guardando Narcos su Netflix, riuscire a spiegare al milite – nella lingua di Julio Iglesias – che, no, ne’ l’Avis ne’ il ministero ne’ mia sorella mi avevan chiesto la patente internazionale e’ una vetta di capacita’ linguistiche. Finisce che evitiamo multe, sequestri di persona e di veicolo e filiamo via da Sierra Gorda dopo una discussione sulle convenzioni di Vienna e Ginevra. Mancava solo la Bessarabia e si poteva fare una delle prove per l’esame di ammissione alla Farnesina.

Antofagasta colpisce ancora con tempemmerda, questa volta nebbia. Nebbia che non la vedevo cosi’ fitta da gennaio di quest’anno dalle parti di Portogruaro, e siamo in uno stramaledetto deserto. Alla fine arriviamo ad Anto, facciamo benzina sotto gli occhi torvi degli avvoltoi e abbandoniamo il Nissan. Grazie mille, sei stato epico.

L’aeroporto di Antofagasta, ce ne rendiamo conto oggi, e’ un capannone. Fate conto di essere nel vecchio showroom Aiazzone sulla strada statale Trossi a Gaglianico, solo con meno segni di incendio e niente zoccole. Ma comunque di capannone si tratta, con un soffitto in tela e zero – ma dico zero – isolamento acustico. Partono gli aerei e si sente tutto, oltre a respirarsi un bel po’ di benzina avio.

Il nostro volo e’ quasi pronto per il boarding quando bruuuuuuuuuuuuuuaaaaaaaaaaammmmmmmm e un F-16 decolla, riportandomi momentaneamente ai tempi in cui vivevo a Torino e sopra la mia crapa passavano i Tornado che andavano a Caselle. Scopro ora che Antofagasta, oltre ad avere una base dell’esercito, ha anche una dell’aeronautica.

L’imbarco e’ ancora una volta per colonne, finestrino-middle-corridoio. A noi finestrati viene data una targhetta ‘prioritaria’, e lo scanning delle carte d’imbarco viene fatto con un lettore mobile. L’imbarco viene fatto rispettare ancora una volta con zelo nordcoreano ed e’ bello vedere la clientela – composta al 20% da nonnine indie, 30% minatori e il resto di facce da galera – che segue gli ordini in maniera perfetta. Il Cile e’ diverso da Brasile e Argentina, rifletto con quella propensione allo stereotipo che vien facile dopo due settimane in un paese.

Gli interni dell’A321 sono gli stessi di quelli del volo prima ma, sembrerebbe, il pitch è leggermente migliore. LF intorno all’80%, il posto in mezzo rimane miracolosamente libero.

Palmiro là fuori si dà da fare per completare i preparativi per la partenza mentre, miracolo, spunta il sole.

Pushback e umili ossequi ai torristi del Norte Grande.

A seguire backtracking sulla pista e inversione a U che sbologna un po’ di polvere, tanto per cambiare, in giro per l’aeroporto.

Ed ecco anche gli F-16 dell’aeronautica cilena.

E poi siamo in cielo, sopra al mare perennemente in burrasca.

Ma già sopra Antofagasta il tempo torna ad essere pauta. Possibile che Fantozzi viva qui?

Dopodiché, complice la stanchezza, cado in un sonno agitato. Mi sveglio di soprassalto e subito capisco il perché del mio turbamento:

Guardiamo fuori, và.

Santiago si appropinqua con la sua bella arietta limpida mentre io, di sicuro a causa del libro di cui sopra, mi canto da solo The Everlasting Gaze degli Smashing Pumpkins, che purtroppo non posso ascoltare dato che – irreparabilmente – la selezione di LATAM Play via WiFi è povera in materia di Ottima Musica (TM).

All’arrivo alla reverenda fabbrica del nuovo Puhadel ci attende una sequela di vecchio e nuovo LATAM: la bella LAN, la cosi cosi TAM, la bleah LATAM. Si vede anche la coda di un A330 Wamos Air che, visti i soliti problemi dei Trent 1000, fa wetlease per LATAM (strano che, a sua volta, LATAM faccia dry-lease di A350 a QR che a sua volta fa dry-lease ad Air Italy…)

Arriviamo ai nastri bagagli e il nostro zainone è già li in attesa, veramente ottima performance. Il sistema audio del Puhadel è andato in botta e trasmette i Deftones, che non sono Ottima Musica ma comunque sono sulla buona strada. Di certo una scelta un po’ strana per un aeroporto, ma tant’é.

Parte VIIbis – Il rientro parte finale, o “I Giacobini avevano ragione”

Arriviamo al piano partenze mentre il ground team apre le danze del check-in. Ammirevole la spiegazione urbi et orbi, in spagnolo e inglese, di come funziona il check-in per gruppi (First, Club, etc etc etc). Liquidiamo di nuovo lo zaino, passiamo di nuovo i controlli di sicurezza e andiamo airside.

L’avione partirà dal gate 5, nella nuova parte definita dal Console, come già dicevo, La Barajas dei poveri. Fuori, nella distanza, si intravedono montagne innevate.

La nuova zona e menzioni di Rapa Nui. Purtroppo sono del prete che convertì i Rapa Nui al Cristianesimo, cancellandone le tradizioni.

Fuori, parcheggiato vicino a noi, c’è questa meraviglia d’un Longreach. E’ passato tanto tempo dall’ultima volta che ho visto un 747 QF, ovviamente per Sydney. Tanta la voglia di salirci, perdonatemi la foto infima.

Si fa l’ora di salire. La cabina non è male in queste luci; il LF in F é 4/8, in tutto l’aereo è pieno al 71%.

La poltrona 1K già dotata di copertina e cuffie. Il duvet, materasso e cuscino sono forniti separatamente, e si vedono pure le nuove cuffie noise-cancelling. A quanto pare l’aver messo delle cuffie in una confezione come quella che si riesce a vedere ha aumentato i furti di non so più quanto %, seriamente. Uno penserebbe che a volare in F si dovrebbe avere un po’ di decenza e invece… More on that later.

L’1K rimarrà vuoto e verrà usato dal Vostro come dependance. Tra l’orario del volo e il caldo a bordo, veramente troppo elevato, dormirò poco e male, soprattutto all’1K.

Io invece sono all’1F. Vista in modalità persona socievole:

E in modalità asociale.

Siccome non l’ho messo tutto all’andata, ecchive il menu.

Vini. Notevole il Tokaji come dessert wine, per il resto ho bevuto solo acqua, l’alcol non mi andava.

Sciambagn, salviettina calda e washbag:

Una volta in aria, canapé. L’altra volta il catering di Santiago m’era parso deboluccio. Ora, malgrado il nuovo servizio pensato dal Dorchester Hotel, è la stessa roba. 8200 mi conferma che SCL è una delle stations peggiori per quanto riguarda il cibo; la differenza con le rotte ex LHR dove Do&Co sta entrando è visibile.

Ma vi domanderete del titolo di questo post. Il titolo, come i veri cultori della Musica sapranno, è preso da una canzone degli Offlaga Disco Pax. Cosa mi porta a dare ragione ai giacobini? Ve lo spiego mentre pranzo, così mi scuserete per essermi dimenticato di fotografare l’antipasto (dimenticabile) e i tortellini (medi). Si salva solo il formaggio, vedi sotto.

Comunque, torniamo ai giacobini. Per spiegarvela devo introdurre il personaggio, definibile come ommemmerda, che dimora al sedile 2A. Ora, in fila 2 ci sono lui, una coppia cilena al 2E/F, 8200 al 2K. Io sono all’1F. L’uomo al 2A è uno di quei classici inglesi posh con la chevalière al mignolo, uno di quelli che avrà studiato a Eton ma per cui le buone maniere o il rispetto per gli altri non figuravano nel curriculum. Classisti e debosciati come il pig fucker che ha avuto la brillante idea di indire un voto su Brexit. Ecco, i francesi avranno tanti difetti, ma quello stock di DNA l’hanno decollato, e non nel senso aeronautico del termine, nel 1793. Di qui gli Offlaga.

Cos’ha fatto di male 2A? Beh, l’inizio è abbastanza normale. Molesto, ma normale. Voce troppo alta di due ottave, la masticazione più rumorosa del mondo (pensate a un cammello che limona con una mucca) e la sbronza più veloce fuori dal Giappone. Tre bicchieri di Cantemerle e il nostro è già söc, come dicono dalle mie parti.

In cabina sono in due a servire, un ragazzo sulla trentina e una ragazza giovane, molto brava e minuta. Di quelle che fanno 50kg vestite e con la valigia. Il nostro al 2A continua a premere il pulsante di chiamata. Tornando dal bagno noto che la ragazza, quando gli si avvicina, non si mette proprio vicino – com’è prassi – ma rimane a un buon metro e mezzo di distanza. Brutto segno.

Finisce il servizio, e il nostro – oramai ubriaco e molesto – continua a dare fastidio. Arriva il capocabina, si accende il segnale di allacciare le cinture, e 2A si mette a russare come un marinaio ucraino dopo sei bocce di vodka. Tutto tranquillo.

Qualche ora dopo, sentendomi caldo come un boiler, mi sveglio e vado in galley in cerca di fresco. Ci trovo la ragazza, da sola, praticamente in un angolo col tipo – sveglio, e leggermente meno sbronzo – vicino. Alla mia vista lui si dilegua; pensando di essere veramente più brutto del solito me ne vado in bagno. All’uscita vedo che la ragazza è abbastanza scossa e le chiedo se tutto va bene. La faccio breve: 2A le stava facendo delle avances molto grafiche e molto dirette. Anche stesse scherzando, immaginerete la situazione: un galley, da sola, con nessuno intorno ma il maniaco. Roba da arresto.

Mi chiede di rimanere con lei, sapendo che sono un collega, e così mi passo un tre-quattro ore a bere caffè in galley dove, almeno, fa fresco. Lei non vorrebbe dire nulla al CSM, ma alla fine si decide. Esce anche un capitano e, insieme, vanno a dire a 2A che se dovesse esserci anche solo un’altra chiamata, all’arrivo verrà incontrato dalla polizia. Patetiche rimostranze alla Weinstein del nostro, che ovviamente sentono anche i morti. Uno dei piloti rimane in galley fino alla fine del break del secondo crew e io, fatta la mia buona azione, torno al mio posto. Il CSM mi conferma che farà rapporto sul cretino in questione, anche se dubito che ci saranno ripercussioni. Di ‘sti tempi per farti bannare da BA devi sgozzare capretti in cabina.

Comunque, si fa ora di colazione. L’eccitazione del momento mi fa passare la fame, per cui solo smoothie e frutta.

La tazza mi piace troppo e la ruberei pure se non facessi ancor di più la figura da barbone.

Diamoci all’arte:

Atterriamo dopo poco e, così, si chiude l’ultima vacanza da impiegato BA. Ci sarà ancora un volo, per lavoro, long haul. Ma questo periodo è oramai finito, e anche se un po’ mi spiace meglio così. Al nastro bagagli riappare 2A, di un colorito grigiolino, doppiomento con barba da rifare e occhiaie Samsonite. Ovviamente niente sbirri per lui. A gente del genere vanno tutte bene. Purtroppo.

Vi lascio con un’ultima chicca del pub vicino a casa dove andiamo per un brunch tardivo. Grazie per leggere e a presto, spero.

 

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