Finalmente un bell'articolo sulle vicende degli ultimi giorni.
9/1/2009
Alitalia, costano troppo bandiera e geografia
MARIO DEAGLIO
Qualcuno poteva sperare che l’avvio della nuova compagnia aerea nazionale fosse motivo di una sia pur modesta soddisfazione; si poteva provare a stendere un velo su illusioni e disillusioni, errori e sproloqui e prepararsi a stappare furtivamente una bottiglia di buon augurio. E non sarebbero stati pochi gli italiani che, nonostante tutto, avrebbero potuto anche commuoversi alla prospettiva che gli aerei con i colori nazionali continuassero a solcare i cieli del mondo, sia pure su un minor numero di rotte.
Gli avvenimenti degli ultimi due giorni hanno reso tutto ciò più difficile e questo per due motivi. Il primo è un clamoroso dissidio al vertice sulle scelte strategiche (il tira e molla su Air France e Lufthansa, su Fiumicino e Malpensa), il secondo è un parallelo e altrettanto clamoroso conflitto alla base tra lavoratori precari e lavoratori a tempo indeterminato. Tale conflitto è sfociato, al di fuori degli schemi sindacali, nella rivolta delle «tute verdi», ossia degli addetti alla pulizia e ai bagagli che rischiano il lavoro a seguito della riorganizzazione aeroportuale. La bottiglia augurale deve quindi essere rapidamente riposta e occorre invece riflettere sui segnali negativi che da questa deludente vicenda derivano sulla possibilità di tenuta dell’Italia.
Alcuni di questi segnali sono purtroppo di carattere strutturale. Ha ragione Umberto Bossi quando afferma che, se Malpensa non sarà uno hub, ossia uno scalo centrale, al quale faccia capo un gran numero di voli, Alitalia correrà un forte rischio di fallimento; ma è purtroppo anche vero che né la nuova Alitalia né l’Italia hanno le dimensioni necessarie per permettersi due hub. In base a considerazioni puramente economiche, un paese come l’Italia dovrebbe avere un solo grande hub delle dimensioni di Parigi ma, data la geografia, le localizzazioni produttive e quelle turistiche, questo semplicemente non si può fare. Per conseguenza, un sistema aeroportuale che riservi un ruolo importante, a livello europeo e mondiale, sia a Fiumicino sia a Malpensa, non può che operare in perdita: rappresenta quindi un costo aggiuntivo per il «sistema Italia» e per il contribuente italiano che possiamo chiamare il «prezzo della geografia». E non appare corretto da parte leghista invocare da un lato il regionalismo e l’autonomia, ossia il lato vantaggioso della geografia, e dall’altro reclamare che di fatto sia il governo centrale ad accollarsi il più che prevedibile deficit di Fiumicino-Malpensa.
Se dal sistema del trasporto aereo si passa a esaminare la struttura della proprietà della compagnia di bandiera, la situazione non appare molto più rosea. Con il senno di poi, da un mero punto di vista finanziario, sarebbe stato preferibile accettare la prima proposta di Air France, caldeggiata dal governo Prodi, osteggiata dall’attuale presidente del Consiglio in campagna elettorale e respinta di fatto, ai primi di aprile 2008, dal mondo sindacale: la rinuncia a tale progetto fu un grave errore non foss’altro perché da allora le condizioni del trasporto aereo mondiale sono incredibilmente peggiorate.
La nuova Alitalia parte infatti nel pieno di una riduzione storica del traffico mondiale delle merci (a novembre -14,5 per cento) e passeggeri (-4,5 per cento), mentre sono azzerati o fortemente ridotti i profitti di colossi come British Airways e Lufthansa; Air France ha mantenuto il volume passeggeri ma presenta una fortissima riduzione del traffico merci e i suoi aerei cargo, pur ridotti di numero, viaggiano mezzo vuoti. Ovunque sono all’ordine del giorno tagli ai voli, all’occupazione, all’operatività degli aeroporti; con la sua posizione assolutamente tiepida nella vicenda, Lufthansa potrebbe quindi ottenere il massimo dei vantaggi, ossia dirottare sui grandi voli intercontinentali in partenza da Francoforte e Monaco un numero di passeggeri italiani sufficiente a colmare i buchi causati dal calo del numero di passeggeri tedeschi.
Air France impegnerà probabilmente cifre assai inferiori nella nuova compagnia rispetto a quanto era disposta a fare otto mesi fa; a questo si aggiungono i costi pubblici dell’accordo (a cominciare dalle condizioni di assoluto privilegio della cassa integrazione dei dipendenti Alitalia rispetto agli altri lavoratori, fino al danno, non certo lieve, che deriva al turismo italiano da disservizi come quelli di ieri). Il tutto è controbilanciato dall’aver mantenuto il controllo della società in mani italiane e può essere considerato il «prezzo della bandiera».
A questo punto, l’italiano medio potrebbe cominciare a fare qualche conto e concludere che la somma del «prezzo della geografia» e del «prezzo della bandiera» è francamente eccessiva. Anche perché la situazione attuale non pare caratterizzata da una pura e semplice socializzazione delle perdite accompagnata da una privatizzazione degli utili: l’Alitalia non è mai stata un gioiello ma piuttosto un oggetto dal luccichio ingannevole. Gli imprenditori che fanno parte della cordata della nuova compagnia rischiano in proprio e le prospettive di ottenere un profitto su questo investimento si spostano in avanti con l’avanzare della crisi. Anche a seguito della crisi finanziaria, per motivi di costo siamo stretti in una morsa. Se vogliamo due grandi aeroporti, non possiamo permetterci una grande compagnia; se vogliamo invece una compagnia adeguata alle nostre dimensioni economiche dobbiamo rinunciare a uno degli aeroporti.
LaStampa
9/1/2009
Alitalia, costano troppo bandiera e geografia
MARIO DEAGLIO
Qualcuno poteva sperare che l’avvio della nuova compagnia aerea nazionale fosse motivo di una sia pur modesta soddisfazione; si poteva provare a stendere un velo su illusioni e disillusioni, errori e sproloqui e prepararsi a stappare furtivamente una bottiglia di buon augurio. E non sarebbero stati pochi gli italiani che, nonostante tutto, avrebbero potuto anche commuoversi alla prospettiva che gli aerei con i colori nazionali continuassero a solcare i cieli del mondo, sia pure su un minor numero di rotte.
Gli avvenimenti degli ultimi due giorni hanno reso tutto ciò più difficile e questo per due motivi. Il primo è un clamoroso dissidio al vertice sulle scelte strategiche (il tira e molla su Air France e Lufthansa, su Fiumicino e Malpensa), il secondo è un parallelo e altrettanto clamoroso conflitto alla base tra lavoratori precari e lavoratori a tempo indeterminato. Tale conflitto è sfociato, al di fuori degli schemi sindacali, nella rivolta delle «tute verdi», ossia degli addetti alla pulizia e ai bagagli che rischiano il lavoro a seguito della riorganizzazione aeroportuale. La bottiglia augurale deve quindi essere rapidamente riposta e occorre invece riflettere sui segnali negativi che da questa deludente vicenda derivano sulla possibilità di tenuta dell’Italia.
Alcuni di questi segnali sono purtroppo di carattere strutturale. Ha ragione Umberto Bossi quando afferma che, se Malpensa non sarà uno hub, ossia uno scalo centrale, al quale faccia capo un gran numero di voli, Alitalia correrà un forte rischio di fallimento; ma è purtroppo anche vero che né la nuova Alitalia né l’Italia hanno le dimensioni necessarie per permettersi due hub. In base a considerazioni puramente economiche, un paese come l’Italia dovrebbe avere un solo grande hub delle dimensioni di Parigi ma, data la geografia, le localizzazioni produttive e quelle turistiche, questo semplicemente non si può fare. Per conseguenza, un sistema aeroportuale che riservi un ruolo importante, a livello europeo e mondiale, sia a Fiumicino sia a Malpensa, non può che operare in perdita: rappresenta quindi un costo aggiuntivo per il «sistema Italia» e per il contribuente italiano che possiamo chiamare il «prezzo della geografia». E non appare corretto da parte leghista invocare da un lato il regionalismo e l’autonomia, ossia il lato vantaggioso della geografia, e dall’altro reclamare che di fatto sia il governo centrale ad accollarsi il più che prevedibile deficit di Fiumicino-Malpensa.
Se dal sistema del trasporto aereo si passa a esaminare la struttura della proprietà della compagnia di bandiera, la situazione non appare molto più rosea. Con il senno di poi, da un mero punto di vista finanziario, sarebbe stato preferibile accettare la prima proposta di Air France, caldeggiata dal governo Prodi, osteggiata dall’attuale presidente del Consiglio in campagna elettorale e respinta di fatto, ai primi di aprile 2008, dal mondo sindacale: la rinuncia a tale progetto fu un grave errore non foss’altro perché da allora le condizioni del trasporto aereo mondiale sono incredibilmente peggiorate.
La nuova Alitalia parte infatti nel pieno di una riduzione storica del traffico mondiale delle merci (a novembre -14,5 per cento) e passeggeri (-4,5 per cento), mentre sono azzerati o fortemente ridotti i profitti di colossi come British Airways e Lufthansa; Air France ha mantenuto il volume passeggeri ma presenta una fortissima riduzione del traffico merci e i suoi aerei cargo, pur ridotti di numero, viaggiano mezzo vuoti. Ovunque sono all’ordine del giorno tagli ai voli, all’occupazione, all’operatività degli aeroporti; con la sua posizione assolutamente tiepida nella vicenda, Lufthansa potrebbe quindi ottenere il massimo dei vantaggi, ossia dirottare sui grandi voli intercontinentali in partenza da Francoforte e Monaco un numero di passeggeri italiani sufficiente a colmare i buchi causati dal calo del numero di passeggeri tedeschi.
Air France impegnerà probabilmente cifre assai inferiori nella nuova compagnia rispetto a quanto era disposta a fare otto mesi fa; a questo si aggiungono i costi pubblici dell’accordo (a cominciare dalle condizioni di assoluto privilegio della cassa integrazione dei dipendenti Alitalia rispetto agli altri lavoratori, fino al danno, non certo lieve, che deriva al turismo italiano da disservizi come quelli di ieri). Il tutto è controbilanciato dall’aver mantenuto il controllo della società in mani italiane e può essere considerato il «prezzo della bandiera».
A questo punto, l’italiano medio potrebbe cominciare a fare qualche conto e concludere che la somma del «prezzo della geografia» e del «prezzo della bandiera» è francamente eccessiva. Anche perché la situazione attuale non pare caratterizzata da una pura e semplice socializzazione delle perdite accompagnata da una privatizzazione degli utili: l’Alitalia non è mai stata un gioiello ma piuttosto un oggetto dal luccichio ingannevole. Gli imprenditori che fanno parte della cordata della nuova compagnia rischiano in proprio e le prospettive di ottenere un profitto su questo investimento si spostano in avanti con l’avanzare della crisi. Anche a seguito della crisi finanziaria, per motivi di costo siamo stretti in una morsa. Se vogliamo due grandi aeroporti, non possiamo permetterci una grande compagnia; se vogliamo invece una compagnia adeguata alle nostre dimensioni economiche dobbiamo rinunciare a uno degli aeroporti.
LaStampa