Capitolo VI. Fagradalsfjall.
OK, questo è il pezzo forte ed è anche un post
pieno di foto. Delle duemila o giù di lì foto scattate in questi giorni, credo che 2/3 siano state fatte nelle due visite a Fagradalsfjall. Altrimenti conosciuto come “il vulcano”.
Fagradalsfjall è in origine il nome di un cosiddetto “vulcano tuya”. Immaginatevi una specie di torta, con fianchi molto verticali e un “soffitto” piatto e largo: quando un vulcano erutta sotto a un ghiacciaio assume quella forma lì. Bene, Fagradalsfjall è uno di questi e se ne sta bello tranquillo in un filotto di altri vulcani nella penisola di Reykjanes. L’ultima eruzione nella zona è datata ad almeno 800 anni fa e, quando al buon vecchio Fagradalsfjall, pare che lui sia spento da un bel po’. Se non fosse che, esattamente di fianco a lui, in località Geldingadalir, non si inizino a sentire dei terremoti. E poi, a marzo 2021, non spunti fuori un nuovo vulcano con annessa eruzione. E poi un altro. E poi un altro. E poi un altro… Insomma, ad oggi ci sono state cinque nuove bocche e pare che quella attiva al momento ne abbia prodotta una sesta. Sconfitti, i vulcanologi islandesi hanno deciso di chiamare la zona Fagradalsfjall e morta lì.
Vedere l’eruzione era un semi-chiodo fisso, un “non succede ma se succede”. E così, il terz’ultimo giorno della mia vacanza, mi trovo a guidare a Grindavìk, ignorando la Laguna Blu ché tanto io ho imparato a guidare su una Renault Laguna e quindi so già tutto. Deposito i miei averi, rimonto in macchina e mi scaravento ad est, dove un parcheggio (con annessi chimiconi) è nato alla fine di un trail lungo una decina di km.
Siamo in parecchi sul trail, molti di più di quanto non immaginassi. Gente di tutte le età, dai vegliardi ottantenni a bambini infilati negli zaini porta-marmocchi. Duri personaggi con abiti tecnici dall’aria ben usata e donne voluttuose in leggins e trucco, americani e islandesi in pantaloncini corti. Il tempo, che ve lo dico a fare, è orrido, con vento fortissimo e pioggia orizzontale. Infilo la testa tra le scapole tipo tartaruga e mi metto a pestare il terreno, perché la vecchia massima è sempre valida: se fa freddo devi andar veloce e ti scaldi (poi quando ti fermi sei fottuto, ma è un’altra storia).
Il sentiero scavalca una prima collina e ci troviamo in una zuppiera circondata da altre colline color sabbia. In mezzo, un mare nero.
La colata lavica è un oceano congelato nell’atto di muoversi, un panorama di caos a perdita d’occhio. Ed è enorme. Stimo che la valle sia lunga almeno un chilometro, e la colata la riempie tutta, scendendo da una scarpata ripida giù, giù in fondo. Chiamatemi stupido, ma solo qui mi rendo conto di quanta
roba esca da un vulcano.
Sembra tutto morto, tutto tranquillo, ma qui e lì si vedono sbuffi di vapore. Camminando, mi casca l’occhio su un flash giallo. C’è della lava, ancora liquida! Intorno a me qualche coglione, perdonatemi il linguaggio, cammina sulla distesa nera.
“
I guess they’re competing for the Darwin Award” commenta un americano che s’è materializzato al mio fianco. Ci guardiamo, sorridiamo e proviamo a gridare ai due più vicini che ci sono
lava tubes in giro. Uno ci ignora, l’altro ci fa che è sicuro con un marcato accento francese. Boh, io c’ho provato. Stracazzi loro, se c'è qualcosa che la pandemia c'ha insegnato è la futilità di educare gli stolti. Proseguo, e inizio a scalare una serie di colline rotonde, perso nella nebbia.
Poi scavalco la penultima e, dalla cima, vedo quanto segue.
C’è ancora una collina davanti a me. A separarci un passo, quasi a livello con la colata nera.
Un Land Cruiser della Protezione Civile islandese è di vedetta, con i tre membri del SAR locale a controllare emissioni e, soprattutto, che nessuno sia eccessivamente cretino. Tutti siamo incollati allo spettacolo davanti ai nostri occhi.
Per prima cosa, fa
caldo. Il mio lato B è coperto di pioggia, sballottato dal vento, freddo come il sorriso di quella che voleva farsi il soprabito col pelo dei cuccioli di dalmata nella Carica dei 101. Ma il lato A, che guarda verso il vulcano, beh, quello è bello caldo. Siamo ben distanti dal fronte, almeno duecento metri, ma c’è un tepore da caminetto. Roba da veder gatti acciambellati che fanno le fusa.
L’altra cosa che mi colpisce è il rumore. Siamo troppo distanti dal vulcano per sentirne i tonfi – e il vento tira dall’altro lato – ma possiamo sentire il rumore della lingua di lava, ed è qualcosa che non m’aspettavo. La lingua è un nastro trasportatore di pietra fusa, e in cima navigano pezzi più scuri e di conseguenza più freddi, semisolidi. Sono questi pezzi a fare rumore, cozzando tra di loro, cadendo sul fronte dell’avanzata, rimbalzando sulle pietre pre-esistenti. Fanno un ‘toc’ leggero, un po’ come se fossero le lose di un tetto valdostano che vengono regolate di scalpello dall’artigiano. Non so come altro spiegarmi.
Fa un freddo veramente osceno, e il vento rende difficile il movimento, ma decido di scalare un pochetto la collina successiva, l’ultima. È il tardo pomeriggio, e la luce sta calando, ma lo spettacolo è epico.
L’altra cosa che mi colpisce è la natura liquida della lava. Un conto è la nozione, un altro la dimostrazione pratica. Sotto di me c’è un fiume di pietra fusa, un fiume con una temperatura di centinaia – migliaia, magari – di gradi centigradi ma comunque un liquido. Guardo dall’alto questo fiume mentre scivola a valle, s’incunea nei pertugi tra le rocce, si rigonfia contro un ostacolo e, non riuscendo a passarci oltre, ci gira intorno. La lava, mi rendo conto, scorre seguendo il profilo del terreno sottostante.
Ora, però, sono a un livello abbastanza elevato e posso guardare in avanti. E, come dicono in Barriera di Milano, miiinghia che vista.
Posso quasi vedere dentro la caldera. Provo a salire ancora un po’, ma li veramente il vento la fa da padrone. Arriva anche un bancone di nuvole, fa buio e scopro che ho lasciato la torcia a casa. Alcuni scendono, e mi dicono che non si riesce a veder nulla. Sono quasi le nove di sera e decido di ritornare domani.
Ricomincio i 10km del ritorno e, all’arrivo al passo, scopro che la lava è arrivata fin qui.
Il giorno dopo è il mio ultimo in Islanda; domani si riparte alle 7 di mattina, per cui… ora o mai più. Mangio la colazione dei campioni, salto in auto e sono al parcheggio in men che non si dica. Divoro i 10km come se fossi a Oropa funivie e mi dicessero che alla Capanna Renata danno Menabrea e concia aggratis. Arrivo al passo, manco mi fermo e salgo come posseduto fino a dove ero arrivato il giorno prima, e lì mi fermo un secondo a prender fiato.
Prima sorpresa: la lava ha cambiato percorso, e la lingua di ieri è sparita. Seconda sorpresa, non c’è quasi vento. Ma lui c’è, oh si se c’è.
Arrivo alla sommità della collina e provo l’ebbrezza di stare
sopra al vulcano. C’è poco vento, ma ci sono anche dei muretti a secco costruiti da delle brave persone. Mi accomodo dietro uno di questi aiuti provvidenziali e vedo un elicottero volteggiare intorno alla caldera.
E, poi, eccolo che atterra. Per un secondo ho temuto stessero avendo un guasto.
E invece no, semplicemente possono starsene lì,
‘ncopp o’ vulcan’. Ad averci i soldi lo farei pure io.
Poi sento l’inconfondibile rumore degli RB211. No, dai.
E invece si.
757, elicottero, volcano. Non so cosa sia meglio.
Ecco, magari qualcosa da sgranocchiare. Mai snack fu più appropriato.
Ma torniamo a lui. Dall’alto posso vedere
dentro alla caldera e, beh, è qualcosa che non scorderò mai. Il vulcano è pieno, pieno di lava ribollente. E, ogni tanto, obbedendo a forze o impeti che non so comprendere, quella lava esplode. Eccovi una carrellata.
Rimango li per ore, semplicemente a far niente. Seduto, a vedere il vulcano che ribolle, la lava che aggiunge nuova crosta terrestre, gli elicotteri che vanno e vengono. Non penso a nulla, se non a canticchiarmi qualche canzone tra me e me. Credo che sia l’esperienza più vicina alla meditazione che abbia mai vissuto.
Dopo veramente un sacco di ore mi rendo conto che non ci sono più ripari liberi e di una coppietta che sta tremando nel vento. Mi alzo, offro loro il mio posto e, cercando di riattivare la circolazione delle gambe, inizio a ridiscendere. Grazie mille, Fagradalsfjall.