Secondo intermezzo – Perù
Non vi annoierò con un resoconto dettagliato dell’intero itinerario, che e’ stato Cusco – Ollantaytambo – Machu Picchu – Cusco – Lima, ma mi limiterò a buttare giù un po’ di pensieri su questo paese, in positivo e in negativo.
Cusco e’ per forza di cose un punto positivo. Una citta’ dal centro vivace, dalle tradizioni vivissime e dallo charme innegabile, con l’aria limpida e le viste che sono tipiche dell’alta montagna. Dall’alto della fortezza di Saksaywaman ho trovato la stessa limpidezza, e lo stesso gioco tra luce e nuvole, che si trova nella zona delle Alpi che preferisco, al di sopra del limite dei boschi, dove si trova solo gente che
vuole andare in montagna. Niente merenderos, niente gente in SUV. Le periferie strangolano questa visione, ma solo Lina Sotis puo’ pretendere che non esistano (a proposito, scrive ancora?)
In questo senso il viaggio sul
colectivo per Ollanta e’ una visione. Villaggetti di mattoni di torba, macchie di alberi, un’aria che letteralmente brilla e, qui e li, un 5000 metri a farti compagnia. Ghiacciai che sembrano sfidare la gravità, e autisti che sembrano prenderli ad esempio.
Cusco e’ speciale anche dal punto di vista storico-antropologico. Per me e’ stato molto interessante vedere coi miei occhi quel fenomeno di assimilazione col quale un pugno di spagnoli – senza dubbio aiutati dal sembrare marziani, tra cani da guerra, cavalli, armi acciaio e malattie, ma pur sempre quattro gatti – ha preso una civiltà millenaria e l’ha inglobata nell’ecumene cristiana, sostituendo tutti i centri di potere Inca con quelli spagnoli. Camminavamo tra le vie della città e vedevamo quest’assimilazione all’opera nei monumenti. Qorichanka, il tempio del sole, ora e’ la base del convento di Santo Domingo. Al posto della chiesa dei gesuiti una volta c’era Amarucancha, il palazzo di Huayna Capac, penultimo Sapa Inca. La famosa “pietra dei dodici angoli”, un tempo parte del muro del palazzo di Inca Roca, venne riciclata come parte del perimetro della residenza del vescovo di Cusco.
La stessa assimilazione, magari più favorevole agli usi e ai costumi del paese, e’ visibile nell’arte e tra la gente. I crocifissi sono tutti adornati da cuscini e sciarpe di lana d’alpaca; Gesù e i 12, in un olio nella cattedrale, mangiano il
cuy, porcellino d’India arrosto, in un Monte Sion che sembra molto andino e poco gerosolimitano. In plaza de Armas, dove Tupac Amaru venne ucciso tramite squartamento, c’è una festa, una specie di processione religiosa e parata militare; davanti a noi sfilano persone in costumi millenari, con ruoli che pensiamo di riuscire a capire – il viandante, il pastore, la morte – ma, sempre e comunque, il crocifisso e’ presente.
Un altro, enorme, positivo e’ Machu Picchu. Avevamo accarezzato l’idea di un trail, e mi sto ancora mangiando le mani alla vista di
cos’è il Lares trek, ma tempo e – soprattutto – denaro ci hanno costretto a lasciar perdere. Ci rifiutiamo, però, di salire in bus; faremo gli ultimi 10 km, da Aguascalientes, a piedi.
Partiamo alle sei. Il cielo e’ plumbeo, un’umidità padana, ma va bene cosi; dopotutto le scene clou di Predator non si svolgono col sole, e nemmeno quelle di Jurassic Park (
l’avevo detto che conveniva farmi studiare!).
Saliamo abbastanza spediti, ruscellando sudore in maniere impensabili. Nostri compagni sono la vista splendida e un cane randagio, soprannominato Perùcane, che rifiuta la nostra frutta secca. Saliamo lungo la via, accompagnati da visioni che mi fanno pensare al Mondo Perduto di Conan Doyle, roba da aspettarsi uno pterodattilo.
Niente di ciò. Purtroppo arriviamo, invece, assieme a una turba di vacanzieri in torpedone, Unni sudamericani armati di selfie-stick, maledetto ne sia l’inventore e gli utenti. Non basteranno a ridurre la bellezza del posto. Taccio e lascio parlare le foto.
Del bello di questo paese ho detto; parliamo del brutto.
Una cosa brutta e’, senza dubbio, il traffico. Opprimente, asfissiante, caotico, abbonato al clacson. Peggio che in Brasile, certamente peggio che in Vietnam, sembra che tutti debbano per forza andare in auto ovunque, anche per fare 100 metri, e devono annunciarlo –
Ho un’auto! Ho un’auto! Cazzo, ho un’auto! – a tutti. Pazienza se ci sono le strisce, i semafori, il vigile armato: io ho un’auto, e devo passare.
Seconda cosa brutta, il cibo. Sicuramente sono stato influenzato dall’aver avuto due avvelenamenti da cibo consecutivi, ma la cucina peruviana m’è parsa scialba, priva di quel concerto di sapori che si trova in Asia. Non chiedo piatti da gourmet, io amo mangiare al mercato, ma altrove – Iran, Caucaso, Bosnia, lo stesso Brasile – ho trovato cibi molto più appetitosi. Qui sembrava di mangiare polenta; puoi metterci sopra quello che vuoi, ma non cambia il fatto che stai mangiando un pastone di farina di mais e acqua.
Ultimo punto negativo, l’estetica. Ok, so di essere in acque pericolose, parlare di estetica in un paese in via di sviluppo mi fa sentire molto radical chic. E’ meglio la casa in cemento armato e mattoni che la capanna di frasche, per quanto
native sia quest’ultima; però alla terza città di strade polverose, case di mattoni nudi, coi ferri di chiamata sormontati da bottiglie di plastica, e con muri di mattoni che vanno avanti chilometri e chiudono il nulla… un po’ di tristezza viene.
Chiudiamo la vacanza con un piccolo regalo, un hotel familiare a Miraflores. Questa e’ una zona veramente carina, priva di tutto quello che avevo scritto prima. Passiamo un sacco di tempo sul lungomare, guardando i surfisti e quelli col parapendio. Poi, alla fine, e’ tempo di rientrare.