5. Kashgar
Ci eravamo lasciati alla stazione dei bus di Kashgar. Credevo di aver fatto le cose per bene, prenotando un hotel su Booking.com e, cosa ancor piu’ furba, stampandomi l’indirizzo di tale hotel in cinese. Credevo.
Il problema e’ che tutti i tassisti che trovo sono uiguri, e nessuno sa leggere il cinese. Il primo mi dice
”Boh”. Il secondo scuote la crapa e va via. Il terzo si stringe nelle spalle e mi fa la sua faccia da Bambi dopo che i cacciatori hanno ucciso la mamma. Il quarto, piu’ intraprendente, chiama un ragazzino, si fa spiegare la situazione e mi dice di si’.
Arriviamo dove devo arrivare e l’hotel, scopro, e’ chiuso. Richiamato dai miei zooteologismi un omino esce dalla penombra e mi dice di andare oltre il lago, dove l’hotel dovrebbe essere. Vado, passo due ore a camminare sotto al sole (Kashgar gira sull’ora di Pechino, ma in realta’ dovrebbe stare due ore indietro rispetto ad essa) e, alla fine, per disperazione, entro in un posto che sembra un caffe’, popolato di perdigiorno. E’ l’hotel. Ha cambiato
lochescion e nome, ma cosa stiamo a sindacare.
Al momento del check-in mi vengono date due direttive. Uno, non andare
mai in giro senza documenti. Due, non fotografare
mai le forze dell’ordine. Se la prima e’ facile da seguire, la seconda richiede piu’ sforzo. Questi sono
ovunque.
Apro una (lunga, lo ammetto) parentesi per raccontarvi la mia esperienza in Xinjiang. Immagino che avrete letto degli uiguri, della sinizzazione forzata, del Grande Fratello (nel senso orwelliano) che vige in quella regione.
E’ tutto vero.
Il governo cinese non sta badando a spese. Kashgar, e in un senso minore Urumqi e dintorni, sono in un regime di occupazione cosi’ pervasivo e capillare che l’unico termine di comparazione, per me, e’ il videogame
Half Life. Nemmeno la citta’ vecchia di Gerusalemme e’ cosi presidiata. Vi porto a fare un giro, virtualmente, e con sole parole. Non ho fatto molte foto, per ovvi motivi; le due in cui figurano dei membri della polizia sono state fatte per sbaglio.
Blindato della polizia sulla destra.
E’ mattina. Il sole si alza, i cinesi Han fanno stretching nel parco, e in tutti i vialoni c’e’ una processione. In gruppi di tre, dei furgoni Iveco della polizia, a sirene spiegate, passano in parata a passo d’uomo, carichi di poliziotti a bordo. Lo ripeto: tre furgoni, uno dietro l’altro, con le sirene accese e rumorose, che vanno a passo d’uomo in tutte le vie principali della zona. Ogni mattina.
Sotto al palazzo di vetro sulla destra all'incrocio: si intravede il Ducato della polizia.
Passata la processione, usciamo. La prima cosa che colpisce sono le telecamere. Sono
ovunque. A tubo, quelle a mezzo-globo e quelle brandeggiabili a 360 gradi, palle appese a un supporto a forma di forcone. Per dare un’idea, ho contato le telecamere in un tratto di 100 metri su Jiefang road, un vialone a 4 corsie con controviale. Il risultato e’ 18, soltanto sul mio lato. Aggiungiamoci quelle sul lato opposto e quelle sopra alle corsie, e arriviamo a quasi 50. Vedere le telecamere muoversi, e seguirti, fa accapponare la pelle. Un'altra cosa che ho notato ma che non ho capito fino ad oggi sono i QR code appiccicati alle porte delle case. Pensavo fossero qualcosa tipo Alipay e in un certo senso lo sono, ma servono alla polizia per vedere chi è registrato a vivere in una determinata casa o appartamento.
Trova le telecamere.
Parliamo poi della polizia. A quasi ogni incrocio ci sono pattuglie, fisse, e pattuglie mobili. Due uomini e un furgone (il solito Daily, oppure uno di quei Panther che usa la SWAT); i due in divisa nera, elmetto e giubbotto. Uno collo scudo, l’altro con, a scelta, fucile, manganello o un arsenale di armi che sembrano medievali. Ci sono alabarde, lunghi bastoni neri con punte in metallo, strane ganasce come quelle per bloccare le ruote delle auto, forconi.
Dove non ci sono loro ci sono i guardiani di quartiere. Ogni palazzo, ogni negozio, ogni banca ha almeno un omino o donnina di guardia, a presidiare di fronte a un metal detector, a una macchina a raggi X, infagottati nei loro giubbetti antiproiettile, col l’elmetto calzato in testa, e l’arnese – altre alabarde, altri bastoni – a portata di mano. Non ho visto le famose esercitazioni mattutine, ma ho assistito a un’ispezione a sorpresa nel nostro hotel, con relativo cazziatone al nostro guardiano per non essere sufficientemente pronto.
A fine giornata, poi, appaiono i soldati. Piccoli, incazzatissimi, vestiti di verde. Si muovono in gruppetti di cinque o sei, sempre in fila indiana o al massimo due alla volta. Se ai poliziotti e’ possibile strappare un cenno del capo, coi soldati non ce n’e’. Ti fissano, mentre camminano a distanza di tre-quattro metri l’uno dall’altro, e non dicono nulla. Tra di loro non parlano, semplicemente camminano con occhi e orecchie aperte, fucile in mano e baionetta (nel fodero) innestata. Al tramonto spariscono.
Il costo di questo dispiegamento di forze dev’essere enorme. Ci sono migliaia di poliziotti, soldati, guardie in giro per Kashgar. Migliaia. A far che?
Il commento che tutti gl’indigeni – in hotel, o i turisti incontrati per strada – mi hanno fatto e’ che le forze dell’ordine sono li’ per mantenere la sicurezza.
”Keeping the place safe and secure” mi dicono. Sicuramente l’obiettivo e’ raggiunto; un taccheggiatore a Kashgar farebbe ben poca strada prima di finire arrestato, bastonato, catturato colle ganasce, quello che vi pare a voi.
Ma non e’ difficile vedere un altro obiettivo, in questa presenza cosi’ massiccia dello stato: quello di annullare le differenze tra Xinjiang uiguro e Xinjiang Han. Da un lato c’e’ un’immigrazione interna enorma, al punto che – ma lo vedremo piu’ tardi – in Urumqi vedevo solo cinesi Han; dall’altro c’e’ una nemmeno troppo nascosta opera di eliminazione del retaggio culturale uiguro. L'obiettivo della campagna
Strike Hard Against Violent Terrorism, iniziata nel 2014, è quello di de-estremizzare questi posti, e non credo sia sbagliato dire che tutto ciò che costituisce espressione dell'Islam viene considerato come estremo, almeno a Kashgar.
Camminando nella citta’ vecchia ho notato come
tutte le moschee e madrasse fossero chiuse. Lucchettate. Unica aperta, la moschea Idakh, in centro; in cima svetta non la mezzaluna ma la bandiera cinese, e dentro vanno solo coccodrilli di turisti, non di fedeli. Anche di venerdi; sono passato e non m’e’ sembrato di vedere orari di preghiera.
Questa erosione del patrimonio culturale e’ visibile anche nelle relazioni quotidiane. Kashgar sembra, in tutto e per tutto, una Bukhara tenuta meglio. Stesso labirinto di strade, stesse moschee che spuntano di qui e di li, ci sono persino dei ‘pozzi’ simili agli
hauz di Bukhara, cisterne a cielo aperto dove veniva contenuta l’acqua d’estate.
La differenza fondamentale, pero’, e’ la gente. A Bukhara era un unico salutare il prossimo: i bambini ti gridano ciao, i vecchietti benedicono, tutti gli altri dicono
”Salaam alaykum”. In Uzbekistan, cosi’ come in altre parti della regione, siamo stati salutati, abbiamo posato per foto, ci hanno invitati in casa per il te’. A Kashgar, no. Non e’ ostilita’, non e’ cattiveria. La gente, ne ho avuto una fortissima impressione, non mi parlava per paura.
Augura il buongiorno a qualcuno cui non stai simpatico e ti malediranno, oppure ti ignoreranno; qui, invece, tutti mi guardavano con uno sguardo se non di scusa almeno di imbarazzo. In un paio di casi dei vegliardi hanno scosso la testa con tristezza, e in un caso uno s’e’ portato l’indice alle labbra. Davvero. Se provavo a dire
”Ni hao” ricevevo almeno un cenno, e coi bambini, quello, funzionava. Ma la mano sul cuore e
”Salaam alaykum”, come e’ tradizione millenaria in queste zone, no. Per contro, non c’e’ nessun problema a parlare con i cinesi Han, posto che si voglia.
E’ facile cadere nella trappola del “noi vs loro”, del cattivi Han e dei bravi Uiguri, ma la dicotomia non e’ lineare. C’e’ un bel po’ di grigio tra il bianco e il nero. Per cominciare non si puo’ non parlare delle rivolte, del terrorismo, dell’attentato di Pechino e di quello della stazione dei treni di Kunming, tutti nati dall’indipendentismo islamista che agitava queste terre. In Occidente credo che non se ne parli molto, ma con una breve ricerca ho trovato, tra il 2008 ed oggi, almeno 24 attacchi terroristici: suicidi, bombe, tentati dirottamenti. Pure gli attacchi con auto e coltelli alla London Bridge, qui sono iniziati nel 2011. E' difficile provare simpatia per il governo cinese, ma non si può non ricordare le vittime civili, chi non c'entra niente. Ed è naturale aspettarsi che i cinesi reagiscano per mettere in sicurezza un territorio che, alla fin fine, è loro da secoli (anche se, ovviamente, i metodi...)
In aggiunta c’e’ un altro aspetto che ho trovato molto sorprendente, ed e’ questo. Buona parte delle forze di sicurezza sono uigure, o kazake. A naso uno su 5 tra i poliziotti, doganieri e via dicendo non erano cinesi Han. L’uomo che mi ha stampato il passaporto non lo era, cosi’ come quello che ha aperto le porte della dogana; molti di quelli che hanno controllato i miei documenti erano uiguri. Divide et impera non e’ una cosa nuova, e di sicuro in tanti tra quelli che si sono arruolati l’han fatto non per convinzione ma per soldi, o sicurezza; pero’ tanti altri vestiranno l’uniforme per scelta, credendo in una Cina unita. Inoltre, e purtroppo non ho modo di confermare, pare che il controllo statale sia più forte a Kashgar, Aksu e Hotan, le provincie più remote e, storicamente, più restie a farsi controllare. A Turpan, che storicamente è più pro-Cina, le moschee sono aperte e i membri del PC cinese possono fare l'hajj. Gli Hui, gruppo etnico di stock cinese ma musulmano, possono studiare l'Islam, farsi crescere la barba e via dicendo. Insomma, chi è "fedele alla linea" riceve più libertà.
Devo ammetterlo, lascero’ il paese profondamente incerto circa cio’ che ho visto, ma di sicuro non si puo’ negare che, ad oggi, ogni uiguro abbia una museruola che ne blocca la voce e un sistema di sorveglianza che ne blocca il movimento. Quando persino un paese autoritario come l’Uzbekistan ti sembra, in confronto, un Bengodi di liberta’ individuali... sai che le cose vanno male.
Chiudo con qualche foto della citta’. Kashgar e’ un posto in cambiamento, e di sicuro tra 5 anni sara’ completamente diversa da come l’ho vista io. La lascio con la tristezza di non averla vista prima e di non aver potuto conoscere meglio il suo popolo.
Continua...