Se vince il si
Anche se vincerà il «Sì» per Alitalia il futuro sarà difficile. Il referendum sul pre-accordo tra azienda e sindacati chiede ai dipendenti importanti sacrifici: un taglio dell’8% alla retribuzione del personale navigante, 980 lavoratori a tempo indeterminato in cassa integrazione, 550 contratti a tempo determinato e 141 contratti esteri non confermati. Ma il «Sì» è la pre-condizione per il via libera al nuovo piano di rilancio di Alitalia, che è composto da due parti: una finanziaria e una industriale. Il principale problema dell’ex compagnia di bandiera è che continua a perdere milioni di euro e le banche non sono più disposte a iniettare nuove risorse senza nuove garanzie, a cominciare da un piano industriale credibile e dall’impegno sul taglio dei costi che è proprio al centro del referendum. Il rilancio, come spiegato nei giorni scorsi dal presidente designato Luigi Gubitosi, parte dalla discontinuità manageriale e prevede la rinegoziazione della joint-venture con Air France e Delta e dei leasing fuori mercato, nuove rotte a lungo raggio (nei prossimi giorni sarà annunciato il collegamento con Delhi), investimenti su nuovi aerei. Da qui al 2019 sono previsti risparmi per 1 miliardo, di cui due terzi dalle rinegoziazioni di leasing e fornitori.
Poi c’è l’operazione di risanamento finanziario su cui è stata trovata una quadratura. Uno dei punti più delicati erano le garanzie. Nei giorni scorsi le banche creditrici — Intesa Sanpaolo e Unicredit le principali — hanno accettato di convertire i loro crediti in azioni della compagnia, andando a contribuire ad alimentare quei 2 miliardi necessari alla ricapitalizzazione prevista in caso di vittoria del «Sì»: 900 milioni di nuova cassa, linee di credito e conversione di obbligazioni per 400 milioni, un cuscinetto finanziario fino a 400 milioni, cioè il «contingent equity» da versare in caso di fallimenti del piano coperto per metà da Etihad e per gli altri 200 milioni con la garanzia pubblica di Invitalia (anche se in manovra l’aumento di capitale previsto è fino a 300 milioni). C’è poi il nodo delle garanzie su eventuali nuovi crediti. Il ceo di Unicredit, Jean Pierre Mustier, nel giorno di inizio del referendum aveva detto che la banca «ha perso 500 milioni in tre anni» e che «continua a lavorare con l’Alitalia per una soluzione sostenibile di lungo periodo, nell’interesse dei lavoratori, dei clienti e degli azionisti di Unicredit». Calcando l’accento sulla sostenibilità e sulla tutela dei dipendenti, dei clienti e dei soci dell’istituto. Più morbida Intesa Sanpaolo, con il presidente Gian Maria Gros-Pietro che il giorno dopo ha condiviso l’insoddisfazione per l’investimento ma ha ribadito «la necessità per il Paese di salvaguardare» Alitalia.
Se vince il no
Lo scenario che sindacato, governo e azienda non si augurano: la vittoria del «No». Perché? Il costo sociale sarebbe altissimo. Stimato dal ministro dello Sviluppo Carlo Calenda in un miliardo. Ma andiamo con ordine. In caso di vittoria del «No», domani l’Alitalia convocherà un consiglio di amministrazione per deliberare la richiesta dell’amministrazione straordinaria speciale. «Questa procedura concorsuale è stata introdotta nel 2003 in seguito al crac Parmalat per le imprese di dimensioni rilevanti — spiega Cesare Cavallini, docente di Diritto fallimentare alla Bocconi —. Ma rispetto ai casi in cui la norma è stata applicata in passato (Parmalat e Ilva), la natura particolare del business di Alitalia, ovvero la fornitura di servizi, rende lo scenario completamente diverso». Soprattutto perché Alitalia in caso di vittoria del «No» potrebbe arrivare con la cassa al massimo a metà maggio (i fornitori chiederebbero di essere pagati subito), condizione che pregiudica le vie d’uscita previste con l’amministrazione speciale straordinaria. Una volta richiesta, «il ministero dello Sviluppo procede alla nomina dei commissari, che possono essere uno o tre», prosegue Cavallini.
A questo punto, la procedura prevede che «in un lasso di tempo non troppo lungo il commissario elabori un piano industriale da sottoporre a governo e creditori che può prevedere o la cessione unitaria dell’azienda ad acquirenti terzi che sono obbligati a tenere tutti i lavoratori per due anni oppure sceglie la strada di mantenere la società nell’assetto attuale, cerca un finanziamento di terzi ed elabora un piano industriale rinnovato per raggiungere il riequilibrio finanziario e conservare l’impresa. È quanto è accaduto per Parmalat». Ma si tratta di un’ipotesi assai difficile da realizzare per Alitalia perché «i suoi debiti sono molto alti e per garantire la continuità aziendale se ne accumulano di nuovi — spiega Cavallini —: carburante, stipendi, scali, manutenzione...». Anche l’ipotesi dell’acquirente non viene considerata dalla maggior parte degli osservatori praticabile: perché pagare di più una società sull’orlo del fallimento che può essere rilevata successivamente a meno e senza vincoli? «Se il commissario non trova un’acquirente e non ha i mezzi per un nuovo piano industriale — conclude Cavallini — non gli resta che chiedere il fallimento, che parte praticamente subito perché dopo quindici giorni dalla richiesta di amministrazione straordinaria speciale, il Tribunale dichiara l’insolvenza. Viene nominato un curatore fallimentare e inizia la procedura liquidatoria: due anni di cassa integrazione e Naspi per i lavoratori e poi la disoccupazione, gli asset ceduti a pezzi».
Corsera.