Hanoi. Non sapevo cosa aspettarmi da questa città. Non aveva un’immagine, un’identità, se non quella, dalla cronaca passata alla storia, di capitale del Nord, grigio e comunista. A Saigon, invece, restava la fama di Parigi esotica, brillante capitale del Sud, prima, e avanguardia dello sviluppo vietnamita, poi. Mi sarei alla fine accorto che il mio debole immaginario era tutt’altro che fondato.
L’impressione dell’aeroporto di Hanoi mi stava confermando questa idea: l’aerostazione era piccola e piuttosto vecchia, anche se va detto che del terminal internazionale potei vedere solo l’area arrivi.
Dopo che mi fui sistemato in albergo, cominciai la mia visita, partendo dalla città vecchia. Presto scoprii una città forse non bella né particolarmente ricca di monumenti, ma vivace e affascinante, con tanta gente nelle strade e gente che usa le strade come estensione della casa, botteghe, ritmi lenti e motorini, migliaia di motorini.
Vita sui binari
Qualche giorno dopo affittai una macchina per un’escursione alla pagoda dei profumi, in realtà, più che una pagoda, un percorso articolato fra templi, fiumi e montagne. Nelle due ore di viaggio da Hanoi, due cose particolarmente mi colpirono: i piccoli mercatini sorti un po’ ovunque ai margini della strada e il gran numero di tombe sparse nei campi fuori città, alcune raggruppate ma non tante da formare un cimitero.
L’autista mi lasciò ad un punto prestabilito in riva al fiume, dove erano attraccate decine di piccole barche, per tradizione portate a remi dalle donne. Il fiume era silenzioso, il sole ardente, biasimai me stesso per non aver portato almeno un cappello.
Dopo quasi un’ora di lento remare, arrivammo ad un tempio. Mi sentivo come in uscita dal mondo. C’erano pochi visitatori e in molte delle tante botteghe che vendevano acqua e souvenir si sonnecchiava.
Sonnecchiava anche la cabinovia che avevo scelto di prendere anziché percorrere il sentiero sul fianco della montagna. Troppo caldo per quella salita. Le cabine oscillavano ferme, probabilmente in attesa di raccogliere un maggior numero di passeggeri, ma i visitatori restavano pochi.
L’attesa, ad un certo punto, terminò, senza un’apparente ragione che non fosse il tempo stesso trascorso. Mi ritrovai nella cabina con una famiglia americana di origini laotiane.
La pagoda dei profumi era costituita da una serie di altari all’interno di una grotta. Mi faceva venire in mente le Batu Caves a Kuala Lumpur, ma meno ricca e colorata di queste ultime.
In effetti la visita durò poco, ma non era tanto la meta ad essere interessante, quanto il viaggio in sé. Mi aspettavano ancora la cabinovia, la barca a remi e due ore di macchina per tornare ad Hanoi.
La cabinovia era ferma di nuovo, anche stavolta in attesa di chissà cosa. Aspettai ancora più a lungo dell’andata, di nuovo e per caso in compagnia dei lao-americani.
La mancanza di spiegazioni o indicazioni era totale, si poteva solo restare in attesa. Gli addetti alla teleferica si erano chiusi nel loro gabbiotto e si erano messi a dormire. La situazione stava assumendo un contorno surreale.
Nel corso del viaggio ho visto tanti vietnamiti dormire ovunque e in qualsiasi circostanza, sembrava una specie di sport nazionale. In molti casi la pausa pranzo aveva tempi assurdi ai miei occhi: dalle 11 alle 15. Mi domando se abbiano una pausa pranzo così lunga per dormire o se dormano perché non possono fare altro in una pausa così lunga.
Finalmente, la cabinovia si mosse. Ritrovai la mia rematrice, prima, e l’autista più tardi. Chissà cosa avranno fatto tutto quel tempo in attesa: probabilmente avranno dormito.