Coronavirus, il giorno in cui l’uomo ha smesso di volare: «Non sarà più come prima»
Divieti a muoversi, blocchi tra i Paesi per contenere il coronavirus, paura di spostarsi: le compagnie hanno messo gli aerei a terra. Così l’anno zero dell’aviazione globale è partito da un focolaio nel Lodigiano
di Leonard Berberi
Sono le 9.10 del mattino di sabato 22 febbraio 2020. Sul telefonino dell’amministratore delegato di un’importante compagnia aerea europea arrivano, in sequenza, tre messaggini su WhatsApp dal suo braccio destro. «Potrebbe diventare un problema», scrive nel primo. Nel secondo invia un link che rimanda a un sito d’informazione che racconta del focolaio italiano del coronavirus «vicino Milano». Nel terzo allega una schermata che mostra una doppia curva: una in blu chiaro del 2019, una in blu scuro di quest’anno. Quest’ultima è sempre sopra all’altra, ma all’improvviso cambia direzione e finisce sotto il 21 febbraio. Il giorno prima. «È l’andamento delle prenotazioni da e per l’Italia», spiega l’ad. «Ci dice che stavamo vendendo più biglietti e più cari dello stesso periodo dell’anno prima e i ricavi stavano salendo del 6-7%, di più se si considerano solo le rotte verso il Paese. Poi è sfumato tutto: in ventiquattro ore ecco che non solo non ci sono più voli acquistati, ma registriamo pure delle disdette, le prime di una lunga serie». Il dirigente preferisce restare anonimo. «Se non altro per non consentire ai rivali di avvantaggiarsi di queste informazioni». Poi si ferma. E aggiunge: «Sempre se saremo ancora in attività quando tutto questo sarà finito».
Il primo giorno di caos
Succede tutto in poche ore. Lunedì 24 febbraio, il trasporto aereo mondiale — già colpito dal blocco sulla Cina — inizia a piombare ufficialmente nel caos. Nel primo giorno lavorativo — dopo la scoperta dei casi locali a Codogno, nel Lodigiano — i sistemi interni di diverse compagnie registrano il crollo di ricavi. E sempre quella mattina ai banconi del check-in dei voli sia nazionali che internazionali verso Milano si toccano punte mai registrate dell’80% di «no show», cioè di persone che hanno acquistato un biglietto e che non si presentano all’imbarco. «È partito tutto così, con flussi in calo nella capitale economica d’Italia — prosegue l’amministratore delegato —, poi il buco nero si è allargato in meno di una settimana al resto del Nord del Paese, quindi al Centro e al Sud. E oggi il buco nero è di fatto tutto il mondo». Una dinamica confermata anche da tredici manager — tra ad, chief financial officer, chief commercial officer, chief operating officer — di altrettante aviolinee contattati questi giorni dal Corriere. Tutti in disaccordo su come riprendere le attività, ma concordi su due punti. Il primo: «L’uomo tornerà a volare». Il secondo: «L’aviazione come l’abbiamo conosciuta fino a qualche settimana fa non esiste più».
Il «momento zero»
Ogni dirigente ricorda esattamente dov’era e cosa faceva quando si è accorto che tutto stava deteriorandosi. «Un po’ come l’11 settembre 2001», sottolineano due di loro. Il «momento zero» varia dal 21 al 24 febbraio. C’è chi è stato chiamato sul telefono della casa in montagna «perché non rispondevo da ore al cellulare, del resto ero in vacanza». E chi stava preparando al meglio la «stagione estiva» (che in aviazione parte a fine marzo e si conclude al termine di ottobre, ndr) «per evitare i tanti voli in ritardo avuti un anno fa». E chi stava ultimando il progetto di rilancio di un vettore — europeo — dopo essere stato contattato da una società di cacciatori di teste che volevano inserirlo nella rosa dei candidati per il ruolo di amministratore delegato. «Passare da capo del commerciale a numero uno di un’altra azienda sarebbe stato un grande salto, ma ovviamente tutto questo è svanito».
La prima avvisaglia
La prima compagnia europea a subire gli effetti concreti — al di là di quelli sulle prenotazioni — è stata Alitalia. Quando il 24 febbraio l’Airbus A330 del volo AZ772 partito da Roma (212 passeggeri, 12 membri dell’equipaggio) atterra alle 10.45 locali (le 7.45 in Italia, ndr) a Mauritius si vede negare lo sbarco di 40 lombardi e veneti se questi non decidono di sottoporsi alla quarantena locale. Dentro l’azienda tricolore si accorgono di essere appena diventati loro malgrado il «vettore degli untori». «Venerdì 21 febbraio abbiamo saputo del focolaio in Lombardia. Il lunedì dopo il traffico nei nostri scali è andato in picchiata», ha ricordato di recente al Corriere Armando Brunini, amministratore delegato di Sea, la società che gestisce gli impianti di Milano Linate e Malpensa. Il primo — alla periferia della città — è ora chiuso almeno fino al 3 aprile. Il secondo funziona soltanto al Terminal 2, il più piccolo, fino a poco tempo fa dedicato solo ai voli della low cost britannica easyJet.
Velivoli vuoti
Trentasei giorni dopo Codogno, tra blocchi decisi dai Paesi, divieti a uscire di casa, incontri saltati e lavoro soltanto da casa, non si vola quasi più. Su 170 vettori analizzati negli ultimi giorni dal Corriere 110 hanno messo tutti gli aerei a terra, una trentina hanno tagliato i collegamenti dell’80-90%. Un dato destinato a peggiorare. Anche perché laddove le società comunque cercano di garantire un minimo di trasporto (anche sotto forma di voli speciali per far rimpatriare i connazionali o cargo per portare nel Paese attrezzatura medica necessaria), sono le autorità centrali a stabilire la chiusura degli aeroporti. Non soltanto in Italia (lasciandone soltanto alcuni e per l’arrivo delle merci, soprattutto sanitarie), ma anche in Stati enormi come l’India. Non solo. Perché pur funzionando al minimo, riducendo rotte e frequenze, «i tassi di riempimento sono comunque irrisori — confermano diversi dirigenti —, toccando persino su rotte un tempo affollate il 10-15% di occupazione dei sedili». Non a caso per quei pochi che ancora si muovono in aereo sta diventando una moda social il selfie dentro il velivolo vuoto. «Se nel marzo 2019 i nostri ricavi sono stati di circa 3 miliardi di euro, nel marzo 2020 siamo sui 50 milioni», ha detto in una conference call qualche giorno fa Ulrik Svensson, capo delle finanze del Gruppo Lufthansa.
Il tracollo dei movimenti
Secondo Flightradar24, la principale piattaforma di tracciamento dei movimenti in cielo, il 25 marzo i voli individuati in tutto il globo sono stati 94.477, ma quelli commerciali — cioè quelli con passeggeri — di fatto la metà, 47.745 (dato che scenderà ulteriormente), mentre un anno prima sfioravano i 107 mila. Il calo è, per ora, del 55,3%. Va peggio, molto peggio, in Europa dove il sistema di Eurocontrol lo stesso 25 marzo ha archiviato appena 5.815 voli, -79% rispetto al giorno equivalente dell’anno prima. Se si va più nel dettaglio si scopre che easyJet non ha effettuato alcun decollo, Austrian Airlines si è attestato sul -99% (gli unici voli sono stati cargo), Brussels Airlines sul -98,2%, Ryanair sul -95% (di fatto vola solo tra Irlanda e Regno Unito), Lufthansa sul -92,3%, Air France sul -90,8%, Iberia sul -85,2%, Alitalia sul -83,1% . Nel nostro Paese Roma Fiumicino ha visto una riduzione dell’85,5% dei movimenti, Milano Malpensa dell’85,6%.
I velivoli parcheggiati negli aeroporti
Un terzo dei velivoli commerciali registrati nel mondo (regional, a corridoio singolo o doppio) non vola più, stando al database specializzato Cirium: al 27 marzo sono fermi 8.500 jet, altri 17.750 decollano, ma buona parte viene considerata in servizio perché ha volato almeno una volta nell’ultima settimana. Sono parcheggiati lungo le piste degli aeroporti che ormai sono inutilizzati, in speciali aeree dedicate nel deserto (negli Usa, in Australia), all’interno degli hangar. «E lì ci resterà per molto tempo una parte considerevole», confermano tre dirigenti di vettori europei. «Le persone non torneranno a volare subito come prima, ci vorrà tempo e non sappiamo cosa farcene di almeno metà della flotta». «Quando ripartiremo saremo più piccoli», ha confermato durante una conferenza stampa Carsten Spohr, amministratore delegato del Gruppo Lufthansa. Proprio il colosso tedesco ha parcheggiato 700 aerei sui 763 totali. L’Europa ha per ora il numero più alto di velivoli fermi: 2.800 in 210 aeroporti. E in generale di spazio libero non ce n’è molto perché una porzione è occupata dai Boeing 737 Max fermi da oltre un anno dopo i due incidenti in Indonesia (ottobre 2018) ed Etiopia (marzo 2019).
La crisi di liquidità
Il trasporto aereo è destinato a registrare un tracollo dei ricavi di almeno 252 miliardi di dollari a causa dell’emergenza sanitaria secondo le stime — provvisorie — della Iata, la principale associazione internazionale dei vettori. «È francamente una cosa mai vista e mai immaginata», commenta Alexandre de Juniac, numero uno della Iata. «Abbiamo disperatamente bisogno di un po’ di soldi per sopravvivere». «Di fatto l’aviazione internazionale è chiusa», sottolinea Brian Pearce, capo economista della Iata. «Questa crisi è diversa è peggiore rispetto alle precedenti emergenze sanitarie (come la Sars, ndr) perché non abbiamo mai visto una situazione di pandemia e allo stesso tempo una recessione economica», ragiona Pearce. Il che è presto spiegato: quando l’economia non va bene cala la propensione ai consumi e, a maggior ragione, a spostarsi in aereo. E però le aviolinee hanno costi fissi improrogabili come il personale e i noleggi degli aerei. Per questo potrebbero servire almeno 200 miliardi di dollari di supporto finanziario per salvare il più possibile il settore del trasporto aereo colpito dall’emergenza coronavirus. Senza questi soldi e in assenza di altre agevolazioni i tre quarti delle circa 800 compagnie aeree potrebbe finire i soldi in cassa nel giro di due mesi.
Le ricadute sugli aeroporti
La crisi porterà mancati ricavi alle compagnie aeree pari a 76 miliardi di dollari mettendo a rischio 5,6 milioni di posti di lavoro tra settore e indotto, stima la Iata. Questo a causa di un calo importante dei passeggeri di 113,5 milioni nel Regno Unito, di 93,7 milioni in Spagna, di 84,4 milioni in Germania, di 67,7 milioni in Italia, di 65 milioni in Francia. Per fare un confronto nel 2019 nel nostro Paese i flussi sono stati di 160,2 milioni, stando al rapporto di Assaeroporti. Se il dato dovesse essere confermati si tratterebbe di un calo del 42,3%. Meno passeggeri a bordo significano meno transiti anche negli aeroporti. Olivier Jankovec, direttore generale di Aci Europe (la categoria di rappresentanza), stima che con le restrizioni attuali valide fino al termine di aprile nel 2020 negli scali del Vecchio Continente verrebbero a mancare circa 700 milioni di persone, in calo del 28% rispetto alle previsioni di mercato, con ricavi giù di 14 miliardi di euro per i soli gestori aeroportuali. Senza insomma considerare l’indotto. Del resto se in Francia hanno chiuso lo scalo di Parigi-Orly e a Londra persino il City Airport o hanno ridotto le operazioni drasticamente negli hub internazionali (come Francoforte), in Italia il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha chiuso oltre la metà degli aeroporti — inclusi alcuni «famosi» come Linate, Bergamo-Orio al Serio e Roma Ciampino —, lasciandone operativo uno per regione (due in Sicilia).
L’aviazione in pausa
«In queste settimane saremo tutti in modalità auto-conservazione», confidano alcuni dei manager consultati (al quotidiano locale New Zealand Herald l’ad di Air New Zealand Greg Foran parla di «quasi ibernazione»). «Eppure di solito tra fine marzo e inizio aprile dovremmo essere tutti in fermento cercando di vendere quanti più voli per le vacanze estive», l’unica fascia temporale di una certa durata in cui i vettori riescono a fare profitti. «Ma ora non c’è nessuno che pensa a come rubare passeggeri alla concorrenza perché di fatto i passeggeri non ci sono: quello che facciamo — trasportare le persone da un punto A a un punto B — non lo possiamo fare o per i divieti o perché nessuno vuole più muoversi per la paura del virus». Per questo «l’unica cosa che possiamo fare è racimolare quanta più liquidità possibile, magari vendendo certi gioielli di famiglia, per non soccombere e avere quel minimo di propulsione per poter essere in grado di ripartire quando sarà il momento giusto». Ecco, ma quando finirà? Nessuno degli esperti, per ora, sa dirlo oppure osa prevederlo. E rispondono con un’altra domanda: «Come finirà?».
Corriere.it