L'analisi
Le ricette degli altri? Meno politica, più rotte in concorrenza
Il caso Alitalia è una vendetta del mercato: disprezzato per anni dalla compagnia di bandiera e dalla politica, ora non resta che affidargli aerei e bagagli. Non che il settore possa vantarsi di essere molto aperto altrove: in una Onu dei cieli, non si alzerebbe una mano a favore della piena libertà di volo. Ciò nonostante, come spesso accade, da noi è peggio.
Mentre le grandi aerolinee europee - Air France-Klm, Lufthansa, British Airways - negli ultimi due decenni hanno iniziato comunque a convivere con logiche di mercato e ad affrontare la concorrenza portata dalla parziale apertura dei cieli europei e poi dai vettori low-cost, Alitalia ha sempre usato i privilegi della compagnia di bandiera al contrario, per coprire l’incapacità e la non volontà di competere. Ha cercato protezioni invece che studiare strategie.
Quando gli altri ristrutturavano, rincorreva gli aiuti di Stato per non farlo; mentre gli altri cercavano in ogni modo di rispondere alla minaccia di compagnie come Ryanair e easyJet, chiedeva di impedire a queste ultime di volare; intanto che gli altri disegnavano rotte per accompagnare il ricco traffico business in giro per imercati globali, riduceva le sue tratte internazionali, rinunciando a svolgere anche quel ruolo di società «strategica » per l’economia italiana con il quale giustificava le tutele di Stato.
Nemmeno l’avere mantenuto un quasi monopolio nella rotta affollatissima - e carissima - tra Roma e Milano le è servito ad evitare perdite su perdite. Così, mentre le migliori aerolinee hanno oggi fatturati che per due terzi derivano dai voli a lungo raggio (dove non c’è l’erosione dei margini provocata dalla concorrenza a basso prezzo), Alitalia da quel settore trae solo un terzo delle entrate. Non solo: la quasi impossibilità di ristrutturare la propria organizzazione e addirittura il layout degli aerei, per le opposizioni della decina di sindacati interni, le ha impedito anche solo di provare a competere con i nuovi concorrenti low-cost. In più, la carenza ormai strutturale di muscoli finanziari ha prodotto il risultato che oggi la flotta Alitalia è tra le più vecchie del mondo, e quindi tra le più costose soprattutto quando i prezzi del carburante sono alti.
Cosa fosse la concorrenza la compagnia di bandiera non l’ha mai voluto sapere: ora, in un mercato aperto anche solo a metà, vaga senza destinazione. E, certe volte, senza senso della realtà. Com’è spiegabile, altrimenti, che una società quotata in Borsa e in via di privatizzazione «riveli» l’entità delle perdite del 2006 l’altro ieri, domenica, un giorno prima della scadenza del termine per la manifestazione d’interesse da parte dei possibili compratori, come se stesse giocando una mano di poker? Solo con la distanza abissale che c’è tra la gestione dell’aerolinea, ormai completamente ripiegata su se stessa, e il resto del mondo, si tratti di passeggeri o di investitori. L’intreccio di politica e sindacalismo ha dato, nel caso Alitalia, i suoi massimi risultati.
Se per rialzarsi occorre prima toccare il fondo, ora dovremmo quindi esserci. Il governo Prodi ha l’occasione di trasformare una catastrofe - tre miliardi di euro di perdite dal 1999 e il disorientamento strategico totale - in una scommessa che si può vincere, non molto diversamente da come ha saputo fare la Fiat negli ultimi anni. La base da cui partire sta nel riconoscere che il fallimento dell’Alitalia non è causato dalla concorrenza ma dal contrario, dal suo rifiuto. Pochi giorni fa, al World Economic Forum di Davos, il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa ha incontrato i fondi internazionali di private equity (investitori di medio periodo dai grandi muscoli finanziari) e ha detto loro che in Italia sono benvenuti se possono aiutare a ristrutturare parti della nostra industria. E nell’elenco delle quattro condizioni poste a chi vuole comprare Alitalia ha citato l’acquisto di almeno il 30,1% del capitale, il mantenimento dell’identità nazionale, la garanzia del rispetto del network di voli, l’impegno «pluriennale» del compratore: però, non l’obbligo di mantenere tali e quali gli accordi sindacali, la struttura del lavoro e i livelli occupazionali, cioè le sclerosi che più pesano sull’efficienza e sul bilancio. Segni di apertura al mercato.
Ora che le manifestazioni di interesse sono arrivate - anche da protagonisti rilevanti e seri, sia nazionali che esteri - la strada non può che essere quella di una gara non politica, ispirata solo a criteri di business. Nei giorni scorsi, decine di politici, soprattutto della maggioranza, hanno disquisito sul partner più amico, sulle rotte più esotiche, sull’aeroporto più comodo. Ancora ieri, il sindaco di Roma e il governatore della Lombardia hanno avanzato la causa dei loro aeroporti di riferimento, Fiumicino e Malpensa, come fulcro della rete di voli della nuova Alitalia. La politica, però, ha già dimostrato di non saper far volare gli aerei, né a destra né a sinistra. Dalla compagnia di bandiera ha estratto favori elettorali, privilegi, voti e appunto qualcosa da sventolare di tanto in tanto in nome di una società che era sì nazionale ma non si è mai nemmeno avvicinata a essere un campione.
La politica ha fallito, insieme ai sindacati e ai tanti management. Non può riprovarci. La parola, a questo punto, va lasciata a chi ha le idee e i manager migliori per rimettere in piedi Alitalia, focalizzarla sull’aeroporto più consono alle nuove strategie e farla stare sul mercato. Solo a quel punto, il governo italiano potrebbe alzare un dito, in una Onu dell’aviazione.
Danilo Taino
30 gennaio 2007
Corriere.it