12/9/2008
Alitalia, un boccone amaro
MARIO DEAGLIO
C’è qualcosa di più del crepuscolo, si spera definitivo, della vecchia Alitalia nel trascinarsi delle trattative tra governo, azienda e sindacato in un clima nervoso, pieno di malessere e rancori, con qualche tensione con la polizia e gli ennesimi disservizi a Fiumicino: un Paese che ha tranquillamente accettato l’eclissi dell’Olivetti, e altrettanto tranquillamente è di fatto uscito da settori strategici come la chimica e la farmaceutica, che non ha capito il valore economico e sociale rappresentato dalle proprie grandi imprese non può ora piangere su una delle peggio gestite tra queste, della quale resterà poco più che il nome (e forse bisognerebbe cambiare anche quello).
I «diritti acquisiti» dei dipendenti Alitalia vanno certamente salvaguardati e va fatto ogni sforzo per trovare nuove occasioni di impiego per i lavoratori in eccesso; non si può però subordinare una trasformazione strutturale, della portata necessaria a risolvere il nodo Alitalia, alla sistemazione prioritaria, in ambito aziendale, di tali diritti e di tali occasioni.
Occorre domandarsi se il trattamento da riservare ai lavoratori colpiti da questa grave crisi aziendale debba essere migliore di quello della generalità dei lavoratori delle imprese in difficoltà.
O se il problema non debba invece essere affrontato in termini più generali, con la revisione delle «reti di sicurezza» per chi rischia di trovarsi privo del posto di lavoro.
Quello che sta tramontando non è solo il relitto della «compagnia di bandiera», bensì l’intero sistema di relazioni industriali. Sta terminando, in un orizzonte europeo perturbato - sullo sfondo non solo dell’attuale stagnazione italiana, ma di una possibile crisi europea e mondiale - il modo tradizionale di concepire il cambiamento industriale, di gestire le strategie delle imprese in difficoltà specie nel settore pubblico (o comunque nei servizi pubblici). Le procedure tradizionali hanno avuto i loro successi ma, in un quadro di interdipendenza globale, sono senz’altro superate.
In questo contesto, è in particolare il sindacato a doversi interrogare sulla gestione specifica di questa vicenda, nella quale proprio il «no» sindacale alla soluzione Air France, che avrebbe garantito una certa continuità aziendale, è stato determinante per il fallimento del progetto del governo Prodi. La parola «autocritica» è certo passata di moda, sia in politica sia nel mondo dell’economia, ma in ogni caso, quando tutto sarà terminato, è opportuno che proprio il sindacato dia inizio a un riesame spassionato - che deve coinvolgere anche governo e parti sociali - del proprio ruolo in questa vicenda con l’intento di contribuire a un miglior sistema di governo delle imprese di servizio pubblico.
In tempi molto più brevi, mondo del lavoro e mondo della politica si trovano di fronte al piano industriale messo a punto dalla «cordata» di imprenditori intenzionata a rilevare quanto di economicamente valido rimane dell’Alitalia. Quando si lasciano colpevolmente partire tutti gli autobus, non rimane che prendere l’ultimo, anche se i sedili non sono comodi e se occorre sperare che non si rompa per strada, lasciando tutti a piedi. È vero, come ha detto un rappresentate sindacale, che oggi la scelta è «o mangiare questa minestra o saltare dalla finestra», ma quando si poteva scegliere tra più minestre, il mondo sindacale non l’ha fatto.
Di questo piano industriale si può dire che esso appare ragionevole dati i pesantissimi vincoli di partenza; che l’articolazione della nuova Alitalia in sei sedi differenziate costituisce una netta rottura con il passato, necessaria proprio perché la cultura «romana» della vecchia compagnia si è tradotta in un’organizzazione particolarmente costosa e inefficiente; che è probabilmente vero che, per le finanze pubbliche e dal punto di vista sociale, la sua attuazione comporterà costi inferiori a quelli che deriverebbero dall’attuale assenza di qualsiasi altra alternativa. È in particolare apprezzabile la prospettiva di riuscire a riannodare, in un periodo di tempo relativamente breve, discorsi di collaborazione e partecipazione con grandi compagnie estere, senza i quali la vita della nuova Alitalia sarebbe comunque sempre risicata e vulnerabile a eventi esterni, come le variazioni del prezzo del petrolio, che incidono sensibilmente su questo settore.
Ci si deve augurare, insomma, che l’accordo si trovi e che la nuova Alitalia finalmente nasca; ma, per favore, risparmiateci la retorica e il trionfalismo. Ricordiamo che si sta trangugiando un boccone molto amaro che sancisce un declassamento del Paese, nella speranza che ne derivino prospettive migliori.
da lastampa.it