- 29 Aprile 2017
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HARAR (e rientro ad Addis)
Visto i mezzi su cui avevo deciso di viaggiare la logica avrebbe suggerito di rimenere sul cosiddetto circuio storico. Ma dato che volevo assolutamente andare ad Harar mi sono deciso a fare quei 3 giorni di bus che mi servivano per arrivarci da Lalibela.
Il primo giorno devo arrivare a Dessie. Gli unici bus che partono da Lalibela sono quelli locali e non avendo il biglietto, mi presento alla stazione che i cancelli sono ancora chiusi per tentare di accaparrarmi un posto. Ovviamente non sono l'unico e quando si aprono è tutto un fuggi fuggi. Localizzato il mio, riesco a salire nonostante qualcuno provi a dirmi che l'autobus è pieno. Ma io non ho alcuna intenzione di muovermi da lì. Siamo in Etiopia e con un paio di panchetti in mezzo al corridoio si risolve tutto.
Il viaggio è stremante. Il bus è molto più piccolo del precedente e 7 delle 8 ore di viaggio sono su strada sterrata, di cui almeno la metà con vista precipizio. Per non farsi mancare nulla, mentre stiamo salendo una strada di montagna, il bus si ferma ed iniza a uscire del fumo bianco. Dopo mezz'ora viene aggiustato e si riparte. Arrivato a Dessie prendo il biglietto del luxury per Addis che parte il giorno dopo e faccio poco altro. Essenzialmente mi riposo.
Nella notte mi avvio a piedi alla fermata in un'atmosfera che sembra una scena de i Guerrieri della notte, con gente che si scalda al fuoco e le luci di qualche locale ancora aperto. Il viaggio per Addis va liscio e molte curve e frenate dopo ci siamo. Altre 9 ore.
Per andare all'hotel in zona Piazza (o Piassa) provo la metropolitana leggera. La cosa più moderna e meglio tenuta di tutti i 20 giorni passati in Etiopia.

Avevo pensato di fermarmi un giorno per staccare, ma vista la situazione dei mezzi preferisco tornare ad Addis con buon anticipo. Per cui altra sveglia notturna e altro luxury bus per Harar.
Solita sosta pranzo...

...e dopo oltre 9 ore arriviamo a destinazione.

Harar è la capitale della regione Harari, la più piccola d'Etiopia e di fatto una città-stato. Considerata la 4a città dell' Islam, è stata per secoli un importantissimo centro commerciale prima come Regno di Harari a meta del '500, poi come Emirato indipendente tra il XVII ed il XIX secolo, fino all'annessione all'Etiopia nel avvenuta 1887.
La città vecchia è circondata da una cinta muraria eretta tra il XIII ed il XVI, il cosiddetto Jugol, un'area di neanche un 1 km quadrato dove vivono circa 20.000 persone ed all'interno del quale si trovano 82 moschee, la più alta concentrazione al mondo. I suoi edifici con influenze arabe, indiane ed egiziane la rendono un posto unico in tutta l'Africa.
Grazie ad un ragazzo che mi accalappia alla fermata riesco a trovare posto in una tipica casa Harari dentro al Jugol.


Vorrei farmi una doccia ma non c'è acqua. E così sarà per tutto il mio soggiorno. Mi dicono che manca da due settimane in tutta la città ed a vedere come sono organizzati mi sembra cosa molto comune.

Degli inglesi mi dicono che il loro albergo fuori dalle mura non aveva problemi di questo tipo, quindi non sono riuscito a capire se riguardasse solo il Jugol o se il loro albergo avesse un approvigionamento indipendente.
Molte salviette rinfrescanti dopo vado a fare un giro tra i vicoli, giusto per prendere atto che qui “faranji” diventa “faranjo”. E credetemi che ad Harar ne sentirete come da nessun altra parte!
Il giorno dopo prendo una guida per la mattinata. Gli chiedo subito dell'acqua ed afferma che è stata tagliata dai vicini Oromo, con la quale i rapporti non sono idilliaci. Harar è infatti un enclave nella regione dell'Oromia e, dovendo l'acquedotto passare da lì, si presta ad azioni di questo tipo.
Mi porta a vedere un tipico esempio di costruzione con influenze indiane.

Usciamo da una delle 5 porte originarie per andare al mercato del khat.

Il khat è una pianta usata in molte parti d'Africa e in parte del medio oriente che se masticata in certe quantità da effetti simili all'anfetamina (anche se qui dicono alla marjuana). In Etiopia è diffusissima ed ovunque si vedono persone ne fanno uso, ma ad Harar è qualcosa di più e riveste anche ruolo sociale. Non è raro che la gente ti inviti a casa o per strada a masticare khat con loro.
In questa zona ci sono anche le migliori coltivazioni del paese ed a pochi chilometri da Harar si trova il mercato di khat più grande al mondo. Ci siamo passati venendo in pullman e siamo rimasti imbottigliati per la quantità di mezzi, animali e persone che c'erano. La guida mi dice che la tassa sul khat frutta al governo 2.000.000 di birr al giorno.


Torniamo tra i vicoli dentro le mura.

Una delle 82 moschee, che possono essere anche da 2-3 persone come questa. Non tutte sono aperte comunque.

Passiamo da un barbiere indiano trasferitosi ad Harar da diversi decenni, che ha una sedia di 80 anni fa “F.lli Zerbini TORINO” e che gira come se fosse nuova.

Usciamo dal Jugol dall'unico gate di recente costruzione ed accessibile alle macchine.


Poco più avanti si trova il mercato del controbbando. Le merci (che arrivano in Somalia con contanier provenienti dalla Cina) vengono introdotte illegalmente nel paese, ma una volta arrivate sul suolo di Harar diventano legali e non possono più essere sequestrate. C'è un po' di tutto, prevalentemente vestiti ed oggetti d'elettronica contraffatti.


Sapendo che sono italiano, la guida mi porta a vedere qualche traccia dell'occupazione.
L'edifico del palazzo di giustizia e la via principale della città sono opera del pelatone.


Nella zona “Bottega” sono presenti edifici italiani e serrande d'epoca.


"Fabbrica serrande avvolgibili - Ing. Lodovico Fischer -TRIESTE Italia"

Proseguiamo per il mercato.

Nella parte del riciclo ci sono pezzi meccanici di ogni tipo. La guida mi dice che molti hanno nomi italiani.




Rientriamo nel Jugol.

L'integralismo religioso non è di casa ad Harar. Mi dicono anche che i bar all'interno delle mura vendono alcolici e i rapporti con i cristiani sono assolutamente pacifici. Lo testimonia il fatto che anche all'intero del Jugol sono presenti due chiese, una delle quali sia affaccia sullo snodo pricincipale.




Specialità della casa: carne di cammello

La guida dice che ha soprannominato Harar “Little Cuba”...

La moschea più grande del Jugol.

Poco lontano la Missione Cattolica francese dove è presente una scuola e un orfanotrofio. Il padre è un etiope che ha vissuto a Roma e mi dice che il vescovo della diocesi è italiano.



La zona intorno ad Harar è molto conosciuta per la presenza di fossili, ed il muretto all'interno della missione ne è la prova.

Harar è conusciuta per gli “Hyena man”. Dopo il tramonto, fuori dalle mura, alcuni uomini danno da mangiare alle iene selvagge che si avvicinano dalla macchia. La pratica ha ormai assunto uno scopo turistico, ma sull'orgine ne ho sentite un po' di tutte. La versione più comune è che in passato si svolgesse una volta l'anno per tenere lontano gli spiriti offrendo alle iene un “porridge”. Si dice anche che si avvessero indicazioni sul raccolto a seconda di quanto ne mangiavano. Altre versioni dicono ebbe inizio per evitare che le iene attaccasero uomini e bestiame. Fatto sta che il rapporto tra Harar e le iene è molto stretto e la notte non è raro vederle scorrazzare fuori dalle mura. Una notte dalla mia camera riuscivo a sentirne i rumori.
La sera esco dal Jugol e chiedo indicazioni ad un ragazzo che si offre di accompagnarmi. Dopo un quarto d'ora nel buio vediamo le luci di un pulmino ed un paio di macchine. Al centro l'uomo delle iene ha già iniziato a sfamarle.


Qualche turista si siede accanto a lui e dopo un po', forte del fatto di non aver letto di persone sbranate, vado anch' io.

Il giorno dopo faccio un giro nella città nuova. Esco dalle mura e, costeggiandole, trovo uno spazio ricreativo che sembra ben tenuto, salvo poi girare lo sguardo...



Come in altre parti d'Africa è del tutto normale trovare uomini mano nella mano. Ed anche nel parlare tra di loro la fisicità, il contatto tra maschi è davvero alto.




Appena fuori dalle mura uno dei tanti mercati quotidiani. Immancabile il khat.


Nel Jugol si trova Makina Girgir, la via dei sarti di strada. “Girgir” deriva dal rumore delle macchine da cucire.



All'interno del museo che si dice essere stata la residenza del padre di Haile Salassie, si trova una stele in memoria dell'equipaggio di un velivolo italiano abbattuto durante la seconda guerra mondiale.





La notte vado alla fermata in mezzo ai tanti senzatetto che popolano il Jugol. Le ultime 10 ore di pullman e sono di nuovo ad Addis dove trovo la prima pioggia del mio soggiorno.
Fuori dall'hotel incontro un ragazzo che parla italiano. È un primo ufficiale dell'aeronautica di Djibuti che è stato addestrato in Italia grazie agli accordi bilaterali tra i due paesi. Sull'argomento è molto abbottonato e non insisto troppo. Quello che mi dice è che è stato prima a Napoli poi a Roma e che pilota aerei da trasporto.
Il giorno dopo vado con lui al Red Terror Museum (il museo che mostra gli orrori perpetuati durante il regime del DERG) ed al vicino museo di Addis Ababa, dove si trovano delle non edificanti immagini della presa della città da parte dei fascisti.

Ci salutiamo ed io prendo un minibus per andare a Merkato, dove si trova quello che viene definito come il mercato più grande d'Africa. Spostato in questa parte della città durante l'occupazione italiana, è sostanzialmente un quartiere adibito alla vendita di qualsiasi cosa.


Torno a Bole, il quartiere più moderno di Addis.

Quì ho preso la camera vista la vicinanza con l'aeroporto. Dopo l'ultima cena etiope torno in stanza, che ho tenuto fino a mezzanotte dato che il volo è alle 3.30, e mi preparo alla partenza.
Visto i mezzi su cui avevo deciso di viaggiare la logica avrebbe suggerito di rimenere sul cosiddetto circuio storico. Ma dato che volevo assolutamente andare ad Harar mi sono deciso a fare quei 3 giorni di bus che mi servivano per arrivarci da Lalibela.
Il primo giorno devo arrivare a Dessie. Gli unici bus che partono da Lalibela sono quelli locali e non avendo il biglietto, mi presento alla stazione che i cancelli sono ancora chiusi per tentare di accaparrarmi un posto. Ovviamente non sono l'unico e quando si aprono è tutto un fuggi fuggi. Localizzato il mio, riesco a salire nonostante qualcuno provi a dirmi che l'autobus è pieno. Ma io non ho alcuna intenzione di muovermi da lì. Siamo in Etiopia e con un paio di panchetti in mezzo al corridoio si risolve tutto.
Il viaggio è stremante. Il bus è molto più piccolo del precedente e 7 delle 8 ore di viaggio sono su strada sterrata, di cui almeno la metà con vista precipizio. Per non farsi mancare nulla, mentre stiamo salendo una strada di montagna, il bus si ferma ed iniza a uscire del fumo bianco. Dopo mezz'ora viene aggiustato e si riparte. Arrivato a Dessie prendo il biglietto del luxury per Addis che parte il giorno dopo e faccio poco altro. Essenzialmente mi riposo.
Nella notte mi avvio a piedi alla fermata in un'atmosfera che sembra una scena de i Guerrieri della notte, con gente che si scalda al fuoco e le luci di qualche locale ancora aperto. Il viaggio per Addis va liscio e molte curve e frenate dopo ci siamo. Altre 9 ore.
Per andare all'hotel in zona Piazza (o Piassa) provo la metropolitana leggera. La cosa più moderna e meglio tenuta di tutti i 20 giorni passati in Etiopia.

Avevo pensato di fermarmi un giorno per staccare, ma vista la situazione dei mezzi preferisco tornare ad Addis con buon anticipo. Per cui altra sveglia notturna e altro luxury bus per Harar.
Solita sosta pranzo...

...e dopo oltre 9 ore arriviamo a destinazione.

Harar è la capitale della regione Harari, la più piccola d'Etiopia e di fatto una città-stato. Considerata la 4a città dell' Islam, è stata per secoli un importantissimo centro commerciale prima come Regno di Harari a meta del '500, poi come Emirato indipendente tra il XVII ed il XIX secolo, fino all'annessione all'Etiopia nel avvenuta 1887.
La città vecchia è circondata da una cinta muraria eretta tra il XIII ed il XVI, il cosiddetto Jugol, un'area di neanche un 1 km quadrato dove vivono circa 20.000 persone ed all'interno del quale si trovano 82 moschee, la più alta concentrazione al mondo. I suoi edifici con influenze arabe, indiane ed egiziane la rendono un posto unico in tutta l'Africa.
Grazie ad un ragazzo che mi accalappia alla fermata riesco a trovare posto in una tipica casa Harari dentro al Jugol.


Vorrei farmi una doccia ma non c'è acqua. E così sarà per tutto il mio soggiorno. Mi dicono che manca da due settimane in tutta la città ed a vedere come sono organizzati mi sembra cosa molto comune.

Degli inglesi mi dicono che il loro albergo fuori dalle mura non aveva problemi di questo tipo, quindi non sono riuscito a capire se riguardasse solo il Jugol o se il loro albergo avesse un approvigionamento indipendente.
Molte salviette rinfrescanti dopo vado a fare un giro tra i vicoli, giusto per prendere atto che qui “faranji” diventa “faranjo”. E credetemi che ad Harar ne sentirete come da nessun altra parte!
Il giorno dopo prendo una guida per la mattinata. Gli chiedo subito dell'acqua ed afferma che è stata tagliata dai vicini Oromo, con la quale i rapporti non sono idilliaci. Harar è infatti un enclave nella regione dell'Oromia e, dovendo l'acquedotto passare da lì, si presta ad azioni di questo tipo.
Mi porta a vedere un tipico esempio di costruzione con influenze indiane.

Usciamo da una delle 5 porte originarie per andare al mercato del khat.

Il khat è una pianta usata in molte parti d'Africa e in parte del medio oriente che se masticata in certe quantità da effetti simili all'anfetamina (anche se qui dicono alla marjuana). In Etiopia è diffusissima ed ovunque si vedono persone ne fanno uso, ma ad Harar è qualcosa di più e riveste anche ruolo sociale. Non è raro che la gente ti inviti a casa o per strada a masticare khat con loro.
In questa zona ci sono anche le migliori coltivazioni del paese ed a pochi chilometri da Harar si trova il mercato di khat più grande al mondo. Ci siamo passati venendo in pullman e siamo rimasti imbottigliati per la quantità di mezzi, animali e persone che c'erano. La guida mi dice che la tassa sul khat frutta al governo 2.000.000 di birr al giorno.


Torniamo tra i vicoli dentro le mura.

Una delle 82 moschee, che possono essere anche da 2-3 persone come questa. Non tutte sono aperte comunque.

Passiamo da un barbiere indiano trasferitosi ad Harar da diversi decenni, che ha una sedia di 80 anni fa “F.lli Zerbini TORINO” e che gira come se fosse nuova.

Usciamo dal Jugol dall'unico gate di recente costruzione ed accessibile alle macchine.


Poco più avanti si trova il mercato del controbbando. Le merci (che arrivano in Somalia con contanier provenienti dalla Cina) vengono introdotte illegalmente nel paese, ma una volta arrivate sul suolo di Harar diventano legali e non possono più essere sequestrate. C'è un po' di tutto, prevalentemente vestiti ed oggetti d'elettronica contraffatti.


Sapendo che sono italiano, la guida mi porta a vedere qualche traccia dell'occupazione.
L'edifico del palazzo di giustizia e la via principale della città sono opera del pelatone.


Nella zona “Bottega” sono presenti edifici italiani e serrande d'epoca.


"Fabbrica serrande avvolgibili - Ing. Lodovico Fischer -TRIESTE Italia"

Proseguiamo per il mercato.

Nella parte del riciclo ci sono pezzi meccanici di ogni tipo. La guida mi dice che molti hanno nomi italiani.




Rientriamo nel Jugol.

L'integralismo religioso non è di casa ad Harar. Mi dicono anche che i bar all'interno delle mura vendono alcolici e i rapporti con i cristiani sono assolutamente pacifici. Lo testimonia il fatto che anche all'intero del Jugol sono presenti due chiese, una delle quali sia affaccia sullo snodo pricincipale.




Specialità della casa: carne di cammello

La guida dice che ha soprannominato Harar “Little Cuba”...

La moschea più grande del Jugol.

Poco lontano la Missione Cattolica francese dove è presente una scuola e un orfanotrofio. Il padre è un etiope che ha vissuto a Roma e mi dice che il vescovo della diocesi è italiano.



La zona intorno ad Harar è molto conosciuta per la presenza di fossili, ed il muretto all'interno della missione ne è la prova.

Harar è conusciuta per gli “Hyena man”. Dopo il tramonto, fuori dalle mura, alcuni uomini danno da mangiare alle iene selvagge che si avvicinano dalla macchia. La pratica ha ormai assunto uno scopo turistico, ma sull'orgine ne ho sentite un po' di tutte. La versione più comune è che in passato si svolgesse una volta l'anno per tenere lontano gli spiriti offrendo alle iene un “porridge”. Si dice anche che si avvessero indicazioni sul raccolto a seconda di quanto ne mangiavano. Altre versioni dicono ebbe inizio per evitare che le iene attaccasero uomini e bestiame. Fatto sta che il rapporto tra Harar e le iene è molto stretto e la notte non è raro vederle scorrazzare fuori dalle mura. Una notte dalla mia camera riuscivo a sentirne i rumori.
La sera esco dal Jugol e chiedo indicazioni ad un ragazzo che si offre di accompagnarmi. Dopo un quarto d'ora nel buio vediamo le luci di un pulmino ed un paio di macchine. Al centro l'uomo delle iene ha già iniziato a sfamarle.


Qualche turista si siede accanto a lui e dopo un po', forte del fatto di non aver letto di persone sbranate, vado anch' io.

Il giorno dopo faccio un giro nella città nuova. Esco dalle mura e, costeggiandole, trovo uno spazio ricreativo che sembra ben tenuto, salvo poi girare lo sguardo...



Come in altre parti d'Africa è del tutto normale trovare uomini mano nella mano. Ed anche nel parlare tra di loro la fisicità, il contatto tra maschi è davvero alto.




Appena fuori dalle mura uno dei tanti mercati quotidiani. Immancabile il khat.


Nel Jugol si trova Makina Girgir, la via dei sarti di strada. “Girgir” deriva dal rumore delle macchine da cucire.



All'interno del museo che si dice essere stata la residenza del padre di Haile Salassie, si trova una stele in memoria dell'equipaggio di un velivolo italiano abbattuto durante la seconda guerra mondiale.





La notte vado alla fermata in mezzo ai tanti senzatetto che popolano il Jugol. Le ultime 10 ore di pullman e sono di nuovo ad Addis dove trovo la prima pioggia del mio soggiorno.
Fuori dall'hotel incontro un ragazzo che parla italiano. È un primo ufficiale dell'aeronautica di Djibuti che è stato addestrato in Italia grazie agli accordi bilaterali tra i due paesi. Sull'argomento è molto abbottonato e non insisto troppo. Quello che mi dice è che è stato prima a Napoli poi a Roma e che pilota aerei da trasporto.
Il giorno dopo vado con lui al Red Terror Museum (il museo che mostra gli orrori perpetuati durante il regime del DERG) ed al vicino museo di Addis Ababa, dove si trovano delle non edificanti immagini della presa della città da parte dei fascisti.

Ci salutiamo ed io prendo un minibus per andare a Merkato, dove si trova quello che viene definito come il mercato più grande d'Africa. Spostato in questa parte della città durante l'occupazione italiana, è sostanzialmente un quartiere adibito alla vendita di qualsiasi cosa.


Torno a Bole, il quartiere più moderno di Addis.

Quì ho preso la camera vista la vicinanza con l'aeroporto. Dopo l'ultima cena etiope torno in stanza, che ho tenuto fino a mezzanotte dato che il volo è alle 3.30, e mi preparo alla partenza.
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