Re: Thread Alitalia + Etihad
C’è un elemento curioso nella telenovela Alitalia. È arrivato l’altro ieri. E non da Etihad, che dovrebbe iniettare 300 milioni di euro diventando così in un solo colpo il primo azionista di Cai. Altro che Poste Italiane. Certo, questa è la notizia del giorno, e qualcosa di più si dovrebbe sapere proprio oggi. Ma è la prova del nove a convincerci che stavolta, slittamenti a parte, dovremmo esserci davvero. Questa prova risponde al nome di Cristoph Franz, Ceo di Lufthansa. I tedeschi, si sa, la nostra compagnia l’hanno sempre snobbata. Hanno fatto shopping ovunque, dal Belgio all’Austria, ma della gloriosa livrea tricolore hanno sempre ripetuto di non sapere che farsene. Semmai vogliono i nostri passeggeri. Martedì, in un’intervista sul Corriere della Sera, il top manager ha detto però, un po’ a sorpresa, che a suo avviso Alitalia dovrebbe diventare una low cost di lusso. Seguendo il “modello di Aer Lingus”. Cedere al soccorso di Etihad è insomma sbagliato: “Alitalia diventerà una navetta verso gli Emirati Arabi e basta”.
Sembra un’intervista come tante altre, è invece la testimonianza che il vettore di Abu Dhabi – che da alcuni giorni ha spedito emissari a Fiumicino per controllare a fondo i conti – potrebbe giocarsi la sua carta con un altro player europeo dopo la tedesca (guarda un po’) AirBerlin. A confortare la tesi ci sono anche Reuters (nei giorni scorsi) e Bloomberg (per l’imbeccata sulla partecipazione in Alitalia). È vero: nessuno dai piani alti, né dalla Magliana né dagli Emirati Arabi Uniti, ha commentato ufficialmente. Etihad vuole in particolare vederci chiaro sul piano Del Torchio (300 milioni di tagli, 1.900 esuberi) oltre ad attendere il perfezionamento dell’aumento di capitale ed eventuali avvicendamenti al vertice (Massimo Sarmi presidente e Giuseppe Giordo, ora in Alenia, nuovo ad?). Ma ci sono alcuni elementi, oltre alla pista Lufthansa, che pendono in quella direzione. Sono tutti squisitamente strategici.
Anzitutto, la linea del Ceo dell’Emirato, James Hogan, è esattamente coerente con l’eventuale operazione italiana. Quella, cioè, di acquistare partecipazioni in compagnie più piccole un po’ ovunque, dall’Europa all’India fino all’Australia. Per fare dell’aeroporto internazionale di Abu Dhabi il pivot di un network planetario. In pratica controlla le già citate irlandese Aer Lingus e Air Berlin ma anche Air Serbia, Air Seychelles, Virgin Australia, l’indiana Jet e la svizzera Darwin. Quale sarebbe quindi il ruolo di Alitalia in questa rete? E cosa potrebbe guadagnarci dal matrimonio con i quattrini dello sceicco Khalīfa bin Zāyed Āl Nahayān?
È il secondo punto. Vero, Etihad ha accordi con Air France. Ma anche con Alitalia, operativo da tre anni. E per la compagnia tricolore il sodalizio con Parigi significherebbe un futuro industriale piuttosto caotico. Cai sfoggia un mastodontico miliardo di debiti maturato solo nell’ultimo quinquennio, e il suo valore aziendale è ormai prossimo allo zero. Ma i cugini non stanno molto meglio: perdita a livello operativo di 353 milioni nel 2011 e 300 nel 2012. Non basta: perdita netta di 805 milioni (2011) e oltre un miliardo (2012). Un sacco di debiti pure loro. Insomma, caro Franz, sembrerebbe esattamente il contrario rispetto alla capziosa previsione: è proprio il sodalizio con il vettore transalpino che trasformerebbe Alitalia, più di quanto già di fatto non sia, in un pulmino alato verso Charles De Gaulle e Schipol. Senza neanche la speranza di un investimento in innovazione, flotta e servizi degno di questo nome.
Etihad questi problemi, ovviamente, non li ha. Ha invece in tasca cifre che dimostrano una crescita massiccia, anche nei passeggeri, tanti petrodollari e un’ondata di tecnologia in arrivo. Piena rincorsa alla cugina Emirates. I mezzi in flotta sono 86. Ma ne sono stati ordinati 230, fra i più nuovi e appena presentati dai colossi del settore. Solo all’ultimo Dubai Air Show la compagnia ha infranto una lista così di record. Ha per esempio staccato un assegno da oltre 25 miliardi di dollari con Boeing: 25 aerei 777X, 17 777-9X e otto 777-8X. Per quest’ultimo velivolo sarà la compagnia di lancio al mondo. Un altro, per 87 mezzi, con Airbus. Fatturato 2012 a 4,8 miliardi di dollari, +17% rispetto all’anno precedente. Solo alcuni numeri, tutti fantascientifici, per tratteggiare le disponibilità di un fondo sovrano che attinge direttamente ai pozzi della penisola arabica. Ecco perché il miliardo di debiti di Alitalia non sembra spaventare nessuno: è un falso problema. Non a caso, sembra che la trattativa fosse lanciatissima ben prima che Air France si sfilasse dal tavolo. La quadratura va semmai trovata sul modello di business e sul ruolo del nostro vettore nella rete tessuta da Hogan.
Per gli emiri Alitalia servirebbe da ponte per il ricco mercato del Mediterraneo verso il resto del mondo. Questo è senz’altro vero. Alitalia si specializzerebbe così sul medio raggio verso la penisola e da Abu Dhabi si decollerebbe per il pianeta, in particolare Asia e Oceania. Ma potrebbe anche accadere il contrario: Cai potrebbe cioè tornare a puntare almeno in parte sul ben più redditizio lungo raggio (magari alzando, con l’aiuto di Etihad che è specialista del segmento superpremium, gli standard di servizio in cabina e architettando nuove offerte per chi spende di più) almeno per le mete americane, facendo il lavoro contrario e complementare a quello dell’azionista di riferimento ma in direzione Ovest. In fondo Alitalia qualche passo in avanti l’ha fatto, in questi anni: ha migliorato l’efficienza, ha tagliato l’età media della flotta (una delle più giovani in Europa), ha spinto sulla puntualità ed è abituata ad cavarsela in situazioni di crisi. Il potenziale per crescere in maniera sensata, ritagliandosi un ruolo senz’altro ancillare ma di buon livello, magari con qualche perla tecnologica supportata dal buon emiro, c’è tutta. Per qualche (petro)dollaro in più.