5 gennaio 2013, ore 09:30
Ci alziamo di buon’ora e andiamo a ritirare la nostra fida Panda, pronta a portarci alla scoperta dell’isola. Per uscire da Santa Maria andiamo un po’ a intuito seguendo i sensi unici, visto che le indicazioni dei locali non sono propriamente d’aiuto. In effetti sembrano non avere la minima idea di come sia fatta Santa Maria: come constateremo il giorno seguente, non sanno nemmeno indicarci con precisione dove si trovi l’ufficio postale
Riusciamo comunque a raggiungere l’autostrada e, dopo aver passato l’aeroporto, ben presto arriviamo al capoluogo dell’isola, Espargos. Il nome, dalla traduzione facilmente intuibile, si riferisce agli asparagi selvatici,
Cistanche phelypaea, che crescono in tutta l’isola (è l’infiorescenza gialla visibile in una delle foto della prima parte OT). La città, che è estremamente tranquilla, forse ancor più di Santa Maria, ha all’incirca 6000 abitanti. Non presenta attrattive particolari, se non un paio di chiese, qualche piazza e un mercato, ma la sua storia è strettamente collegata all’aeroporto ed è piuttosto interessante. Wikipedia e le nostre guide cartacee ci insegnano che nel 1939, con l’autorizzazione del governo coloniale portoghese, il governo Mussolini fece costruire un aeroporto di transito per i voli dall’Europa al Sudamerica. Inizialmente la struttura consisteva di semplici prefabbricati; dopo la guerra venne acquisita dai Portoghesi e progressivamente ampliata. Questo sviluppo comportò anche la costruzione di alloggi per gli operai, provenienti perlopiù dall’isola di São Nicolau: l’area venne chiamata Preguiça, che è il nome del porto di tale isola.
Lasciamo l’auto vicino al centro parrocchiale e facciamo una passeggiata più o meno a caso. Ci sono diversi bar: prendiamo un caffè molto buono, dell’ormai nota torrefazione locale Sical, per l’astronomica cifra di 60 centesimi di euro

Camminando per strada ci passa sopra un ATR 42-500 della TACV diretto a Praia, volo VR4101.
Vedere Babbo Natale con queste temperature fa un po’ impressione…
Compriamo un paio di banane da una delle tante signore del posto che girano con ceste di frutta in testa e torniamo verso l’auto. Prossima tappa: le vecchie saline. Per arrivarci dobbiamo seguire le indicazioni per Pedra de Lume, una località quasi del tutto deserta tranne uno o due pescatori. Ci sono tre case, delle quali una diroccata, nonché una flotta di pescherecci tirati in secca e mangiati dalla ruggine. Ha un che di surreale.
Un giovane sbucato dal nulla cerca di convincerci a seguire le sue indicazioni (a pagamento…) per le saline: a suo dire dovremmo girare dietro a degli edifici in rovina e salire per di là. Non ci fidiamo, torniamo indietro e parcheggiamo la Panda vicino all’unica altra automobile nei paraggi. Ogni tanto passano dei pulmini con turisti: li seguiamo e ci avviamo a piedi lungo la salita per le saline, dove arriviamo dopo una decina di minuti. Il paesaggio, costellato da ciò che resta dei vecchi impianti , ricorda per certi versi la Monument Valley.
Le saline, come detto, non sono più in uso e sono diventate un’attrazione turistica: pagando circa 5 euro si può attraversare la galleria di ingresso ed entrare in una sorta di vallata al centro della quale si trova la salina. Il colpo d’occhio è notevole.
Scendiamo fino allo specchio d’acqua, occupato da un gruppo di turisti scandinavi più bianchi di me (ed è tutto dire). L’alta concentrazione di sale fa sì che si galleggi molto facilmente, proprio come nel Mar Morto.
Incurante di una piccola ferita al piede che mi sono procurato qualche giorno prima, entro in acqua e, grazie al sale, faccio fatica a trattenermi dallo sbraitare accostamenti zoo-teologici… Vabbè, se non altro ha proprietà disinfettanti. Il gruppo di turisti se n’è andato e oltre a noi è rimasta solo una coppia, anch’essa scandinava, di mezza età. La
vichingasignora esce dall’acqua e scherza: “I feel younger already!”. “Wishful thinking,” vorrei dirle, ma non ne ho il cuore
Cerchiamo di liberarci alla bell’e meglio della crosta di sale che ci ricopre e torniamo verso l’auto, sperando che sia ancora lì e soprattutto che sia ancora tutta intera. I nostri timori si rivelano infondati, così ripartiamo tranquilli verso Palmeira, sulla costa ovest di Sal, dove si trova l’unico porto dell’isola. Percorriamo in un batter d’occhio i circa 10 chilometri che ce ne separano e parcheggiamo a caso. Palmeira è poco più di un piccolo villaggio addormentato, ma molto colorato e soprattutto poco turistico. In effetti ci sono il porto, un impianto di desalinizzazione, un mercato, qualche negozio e poco altro. Rimaniamo sorpresi di fronte a un murales raffigurante un veliero e dedicato al naturalista ed esploratore tedesco Alexander von Humboldt, fratello di Wilhelm: Valentina ha scritto la tesi su quest’ultimo, sembra quasi una persecuzione

Scopriremo in seguito che il veliero in questione, appunto la “Alexander von Humboldt”, è una nave-scuola che ha visitato più volte anche l’isola di Sal.
Proprio accanto all’effigie del veliero troviamo un ristorante italiano di cui purtroppo non ricordo il nome. La consorte prende gli spaghetti all’aragosta (e meno male, nei giorni seguenti non la troveremo più da nessuna parte), forse ancora più buoni di quelli che ho mangiato al “Café Leonardo”. E soprattutto costano la metà! Io opto per dei calamari, buoni anch’essi, forse solo la porzione è un po’ piccola.
Finito di mangiare riprendiamo la nostra cara Panda e andiamo verso la prossima tappa, forse la più avventurosa: l’
Olho Azul (“occhio blu”) di Buracona. È una stretta insenatura rocciosa, nella quale il mare ha scavato grotte e formato piscine naturali di una certa bellezza. Per arrivarci seguiamo le indicazioni, pare di recente installazione, trovandoci ben presto all’inizio di un percorso sterrato di 6 chilometri. Niente che richieda un Hummer, intendiamoci, ma con la nostra povera Panda siamo costretti a procedere a passo di lumaca: il rischio di bucare una gomma e rimanere bloccati in mezzo al nulla fa da freno a qualunque entusiasmo. Lungo il percorso veniamo superati da un pick-up e persino da una Suzuki Jimny, ma non ci perdiamo d’animo e arriviamo all’unico edificio di Buracona, un ristorante completamente vuoto. Parcheggiamo accanto a questo e rimaniamo all’erta: ci hanno avvertito che a volte qui si trova brutta gente.
A causa del mare grosso decidiamo di non avvicinarci più di tanto alla gola. Ci basta osservare da lontano le onde che si infrangono con violenza sugli scogli dove un gruppo di pazzi sta organizzando una grigliata! Il panorama, ad ogni modo, è molto bello.
Un gruppo di ambulanti sembra volersi avvicinare, ma l’istinto ci dice di fare solo un cenno di saluto e fiondarci subito in macchina per tornare indietro. Ha un che di bizzarro il fatto che in una strada in mezzo al nulla ci si debba fermare per far passare una mandria di vacche, ma tant’è. Prego, passate pure! Rientriamo a Palmeira, dribblando degli aggressivi cani che, evidentemente colti da un raptus suicida, si gettano davanti a noi.
In breve tempo siamo di nuovo sulla strada per Espargos: abbiamo visto tutto quello che volevamo, quindi svoltiamo verso Santa Maria passando di nuovo accanto all’aeroporto.
Ci fermiamo a metà strada dare un’occhiata al villaggio di Murdeira, consistente in una manciata di case-vacanza e una piccola spiaggia. Sembra una località gradevole, ma è totalmente deserta. Poco lontano si trova l’uscita dell’autostrada per andare alla spiaggia di Calheta Funda, ma rinunciamo a quest’ultima tappa data l’ora tarda e la strada di accesso poco agevole.
Rientrando a Santa Maria scorgiamo di nuovo questo originale albero di Natale fatto con bottiglie di plastica
Parcheggiamo l’auto di fronte all’autonoleggio, al quale dovremo restituirla l’indomani, e facciamo due passi per Rua 1 de Junho e Rua Amílcar Cabral, fermandoci in una delle tante
lojas (negozi) di alimentari per comprare qualche snack e del caffè da portare a casa come ricordo. L’assortimento di prodotti non è per niente misero e i prezzi sono piuttosto contenuti.
Purtroppo ci restano solo due giorni interi prima di tornare a casa. Passiamo a salutare le simpatiche ragazze del “Sapo com fome”, che ci hanno dato tanti consigli per la nostra escursione, e trascorriamo un paio di serate all’“Uhuru rooftop reggae bar”, forse il posto più bello e divertente che abbiamo trovato. Il proprietario è un tedesco, ma la gestione è affidata a gente del luogo. Tutti sono estremamente cordiali, l’atmosfera è molto gradevole anche grazie a un simpatico ragazzo originario del Gambia che fa da “promoter” e chiacchiera con i clienti.
Non si vede molto, ma questo è il rooftop reggae bar…
Continua…