13 Aprile 2010 - 4:18 pm | di: Opinioni e contributiAnalisi
Tragedia di Smolensk: le cause probabili
di Andrea Artoni
Gli incidenti nei sistemi tecnologici complessi accadono quasi sempre a causa di una concatenazione negativa di eventi, nei quali il fattore umano è predominante. Perciò il ritrovamento dei registratori dei dati di volo (FDR, Flight data recorder) e di quello delle comunicazioni in cabina (CVR, Cockpit voice recorder) del Tupolev 154 presidenziale polacco consentirà molto presto di stabilire che cosa è accaduto a quel velivolo durante il suo sfortunato tentativo di atterraggio sulla pista dell’aeroporto militare di Smolensk, e inoltre il come e il perché.
Dalla decodifica del FDR si otterrà la descrizione tridimensionale delle manovre compiute dal trireattore. Esse potranno persino essere visualizzate con la grafica computerizzata, e così gli strumenti di navigazione, dei motori e dei vari impianti di bordo, così come li vedevano i piloti, e i movimenti dei comandi, delle superfici di controllo delle ali e della coda.
In parallelo, le registrazioni del CVR faranno udire le parole dei piloti fra di loro e con i controllori a terra, e anche quelle di coloro che possono essere entrati nella cabina. E poi i rumori d’ambiente e i suoni caratteristici degli strumenti dotati di allarmi fonici, oltre che ottici.
Sarà dunque presto possibile stabilire se la catena degli eventi negativi, che hanno condotto al disastro, sia stata innescata da un guasto non percepito in tempo o insufficientemente contrastato dall’equipaggio di volo, ovvero da una errata o inadeguata gestione tecnica del velivolo e della navigazione.
Resta il fatto che quel volo è stato pianificato con destinazione in un aeroporto militare quasi dismesso. Una volta era la base di caccia intercettori, e dunque dotata di radar di precisione tridimensionale per la guida all’atterraggio in condizioni di bassa visibilità (GCA, ground-controlled approach). Ora, invece, Smolensk Nord è una base secondaria nella quale le vie di rullaggio e le piazzole sono stipate di aeroplani da trasporto parcheggiati in riserva strategica.
L’unica assistenza radio disponibile per la navigazione è un radiofaro non direzionale (NDB, non-directional beacon) posto circa 9 chilometri a ovest della testata pista 26 (orientamento circa 260° da est) che non consente un avvicinamento strumentale di precisione. Per potere atterrare, da quella posizione, il pilota del Tupolev doveva allinearsi con una pista a lui totalmente invisibile, seguendo una rotta orientata 258 gradi rispetto al nord e mantenendosi allineato rispetto a un segnale radio in media frequenza.
Contemporaneamente, facendo scattare il cronometro posto sul volantino nel momento di sorvolo del radiofaro, doveva mantenere l’assetto e la velocità dell’aereo in modo di farlo scendere di circa 150 metri al minuto con un’angolo di circa 3° rispetto al suolo, su una traiettoria che lo avrebbe condotto a toccare la pista nei primi 500 dei suoi 2.500 metri di lunghezza, in quanto la corsa di atterraggio del Tu 154 è di quasi 2.000 metri.
Tutto ciò richiede un notevole coordinamento fra i due piloti, anche perché si tratta di una procedura non di precisione, e questa doveva essere compiuta con una visibilità talmente scarsa, che avrebbe richiesto invece una procedura di precisione. Per questa ragione, i controllori della base avevano sconsigliato l’atterraggio, invitando il comandante a dirottare su Minsk. Anche l’aeroporto minore di Smolensk (a sud della cttà) era sotto una fitta nebbia, e la sua pista di 1.600 metri non era adatta ad accogliere il Tupolev.
Come gli altri jet di linea russi della prima e seconda generazione, il Tu 154 è un aereo piuttosto veloce in avvicinamento (300 km/h, 5 chilometri al minuto, 82 metri al secondo). Considerando la possibilità concreta di dover rinunciare all’atterraggio - nel caso non fossero state avvistate le luci della pista all’altezza di decisione (dato a noi ignoto, poiché la carta strumentale di quell’aeroporto non è pubblicata, ma sicuramente noto a quell’equipaggio) - il ilota dovuto mantenere una velocità ancora maggiore per poter disporre di una certa riserva di energia al momento della ripresa di quota ("riattaccata"): eventualità sempre presente e che si è puntualmente verificata. Per ben tre volte. Perché dunque - al quarto tentativo di atterraggio - l’aereo si sia trovato così basso in un punto distante meno di un chilometro dalla pista, dove avrebbe dovuto passare a una quota minima di 150 metri, andando a toccare le cime degli alberi e precipitare al suolo, è ciò che l’inchiesta tecnica deve spiegare.
Le ipotesi da verificare sono tante: può essere stata fatta un’errata regolazione della spinta dei motori, ottenendo così un angolo di planata troppo ripido; oppure l’errore è stato nella valutazione dell’effettivo profilo di discesa ottenuto con il comando manuale dell’aereo, dato che la procedura in autopilota non era possibile.
Resta il fatto che tentare l’atterraggio, in quelle condizioni meteorologiche e strumentali, quattro volte o una sola, è totalmente fuori da ogni logica professionale e tale da rendere molto elevata la probabilità di un evento catastrofico. Ciò non poteva essere ignorato da un equipaggio che trasportava una gran parte dell’élite politica, economica e culturale della Polonia. Forse, però, è proprio da quell’élite, che è venuto l’ordine perentorio di tentare ancora una volta ciò che l’equipaggio avrebbe dovuto dichiarare improponibile. Come evidenziano i moderni sistemi di gestione della sicurezza, l’origine lontana di tanti incidenti spesso si trova nelle decisioni di manager inconsapevoli e supponenti.
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