"Ecco come 20 anni fa atterrai sulla Piazza Rossa"
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI
la Repubblica
AMBURGO - "Avevo diciannove anni, la guerra fredda divideva il mondo. Col mio piccolo Cessna decisi di vivere e far volare il mio sogno: un volo dall'Occidente alla Piazza Rossa. Come gesto di pace: un volo come un ponte simbolico tra i due mondi. Eccomi: sono io Mathias Rust, quello che vent'anni fa atterrò col monomotore a un passo dal Cremlino. Lo rifarei: a volte anche un po' d'incoscienza giovanile serve a svegliare il mondo, giova alla realtà".
Vent'anni sono tanti, ma lui è rimasto quasi uguale: gli occhi che scrutano, il sorriso ammiccante del teenager che ama sprofondare nella lettura di romanzi d'avventure. Lo ascolto seduto con lui alla terrazza d'un caffè che domina la ricca Amburgo, e quel mondo di ieri riemerge dal suo racconto. Accadde vent'anni fa: pilotando un aereo da turismo noleggiato, Mathias Rust riuscì a violare lo spazio aereo sovietico, sorvolò decine di basi aeree e missilistiche supersegrete, e atterrò sulla Piazza rossa.
Gorbaciov affrontava allora un momento difficile del dialogo con Reagan e nel confronto interno con gli ortodossi, ma voleva disarmo e riforme. Ed ecco che l'incoscienza giovanile di quell'adolescente appassionato dei racconti di Karl May, il Salgari tedesco, irruppe nella realtà. Più di ogni statistica del Pentagono sulla catastrofe economica dell'Urss o sulla guerra afgana, più di ogni denuncia dei dissidenti o di ogni revisione al basso dei Piani quinquennali realsocialisti, foto e teleriprese del minuscolo Cessna con la bandiera tedesca sul timone, circondato dalla folla festante a un passo dal Cremlino, rivelarono al mondo l'impotenza e la malattia terminale dell'Impero creato da Stalin.
Signor Rust, qualcuno vide in lei un pacifista temerario, altri un incosciente. Come e perché si decise a quel volo?
"A ripensarci oggi provo un senso di liberazione. Allora nell'animo si agitavano altri sentimenti. Il vertice Reagan-Gorbaciov di Rejkyavik era fallito, da una parte e dall'altra si temeva un nuovo gelo. Io pensai a un gesto simbolico. Un volo come un ponte ideale. Per dire ai leader dei due blocchi che la gente, dalle due parti della Cortina di ferro, voleva solo vivere in pace. Si ricorda 'Russians', la canzone di Sting? Lo spirito era un po'quello: Russians love their children too", cantava lui. Ci credevo".
Gesto dell'ultimo momento o preparato con cura?
"Mi preparai a dovere. Col Cessna feci voli sull'Atlantico. Volevo mettere alla prova i miei nervi: sa, volare per ore sul mare è un test psicologico molto più duro. Il 25 maggio, tre giorni prima del volo, arrivai a Helsinki. Deciso, o quasi, a non tornare indietro".
Un volo da Helsinki a Mosca sorvolando decine di installazioni militari segrete... non provò paura, il più umano dei sentimenti?
"Sì, mi chiesi a lungo se stavo facendo una cosa giusta o no. Ma ero individualista e pronto al rischio come si è a diciannove anni: la chiami pure incoscienza, a quell'età si pensa meno al pericolo e alla paura. Pensavo solo alla distanza tra Helsinki e Mosca, e a come arrivare con abbastanza carburante".
Fece carte false?
"Presentai alle autorità aeronautiche finlandesi un piano di volo verso la Svezia. Decollai da Helsinki puntando verso Ovest. Quota media di volo, seicento metri. Poi una volta sul mare aperto, invertii la rotta. Puntai verso Sud-Est. E dopo circa un'ora, vidi la costa dell'Estonia. Mi sentii dentro un misto di tensione lacerante e di sollievo. Ero felice: volavo verso la mèta. Ma a ogni minuto che passava sapevo che era impossibile ripensarci, tornare indietro. Quasi cinque ore di volo mi separavano da Mosca; una volta arrivato, avrei avuto carburante sì e no per altre due ore".
E' vero che volò bassissimo per non farsi intercettare?
"Quota media di volo seicento metri, non così basso. Non certo i quindici o i trenta metri dal suolo di un moderno jet militare. Non volevo nascondermi. Un gesto di pace doveva essere visibile. Almeno due volte scesi di quota, ma solo perché il ghiaccio appesantiva elica e ali. Ero concentratissimo a seguire la bussola, avevo provviste con me ma non mangiai né bevvi nulla. Poi a un tratto venne improvviso come un lampo il momento della paura".
Cosa accadde?
"Volavo tra le nuvole, vedevo poco o nulla sotto di me. Davanti, lontano qualche chilometro, mi apparve velocissimo e luminoso un oggetto argenteo, e puntava su di me. Era un Mig della Pvo, la temuta difesa aerea sovietica. Eccolo, fu il mio primo incontro con 'loro'. Un colpo al cuore. Fu duro tenere i nervi sotto controllo. Furono pochi minuti, ma tremendi. Sa, il ricordo del Jumbo coreano abbattuto su Sakhalin nell'èra Andropov era ancora vivo. Il Mig mi raggiunse, virò strettissimo, mi si mise dietro, poi mi affiancò. Era molto più veloce di me. Indovinai appena gli occhi del pilota sotto il casco. Mi seguì per un po', poi accelerò ancora e sparì nel nulla. Pochi minuti, mi sembrarono eterni. E restai in preda a nuovi sentimenti misti. Sollievo, perché non aveva sparato. Dubbio e angoscia, per la certezza che sapevano che ero in volo su di loro".
E poi invece arrivò tranquillo su Mosca?
"Sì. Niente più Mig, né contraeree, né segnali da terra. Quella città enorme, sotto le ali del piccolo Cessna, mi tolse il respiro. Per orientarmi cercai di avvistare da lontano l'hotel Rossija, ricorda, quell'enorme monolito bianco a un passo dalla Piazza Rossa? Lo vidi ben prima delle torri del Cremlino. Scesi di quota".
E poi?
"La piazza m'incuté timore. Dall'alto mi sembrò molto più piccola di quanto la immaginassi. Ma per atterrare col Cessna bastavano duecento metri... tentai tre volte, e tre volte ripresi quota: la folla rincorreva curiosa il mio piccolo aereo, sembrava un film di Fellini... io ero terrorizzato dall'idea di ferire o uccidere qualcuno... alla fine vidi il Bol'shoj Kamennyj Most, il grande ponte a sei corsie, atterrai là. Rullando, arrivai fino alla fine della Piazza, tra la cattedrale, il monumento a Minin e Pozharskij, la spianata che sale verso l'ingresso della torre Spasskaja. Spensi il motore, restai per un lungo, eterno quarto d'ora in cabina".
Perché?
"Perché per l'ultima volta mi chiesi se non valesse la pena di ridecollare e tornare indietro. Troppo tardi, Mathias, risposi a me stesso. Il carburante non basterebbe. Mi decisi, aprii la carlinga, scesi. Circondato subito dalla folla".
Ebbe paura?
"No, non apparivano ostili. Erano curiosi, sorridevano. 'Da dove vieni? ', mi chiesero in inglese. 'Da Helsinki', dissi nervoso. 'Ma sul timone hai una bandiera tedesca, non finnica... sei un compagno della Ddr?'. 'No, amici, no. Vengo dalla Repubblica federale, per un gesto di pace', replicai teso e incerto. 'Oooh! ', risposero con grida di stupore. Increduli, non minacciosi. Una giovane donna ruppe il ghiaccio: mi venne incontro sorridente, mi porse pane e sale, il loro gesto di benvenuto".
E la polizia, il Kgb, i militari?
"Passò almeno un'ora. Arrivò una Tschajka nera, ricorda quella specie di vecchie Cadillac russe? Ne scese un ufficiale, con alcuni giovani miliziani. Ci parlavamo in inglese. Erano calmi, gentili. Mi chiesero i documenti, perquisirono l'aereo. Poi mi restituirono il passaporto. L'ufficiale anziano mi disse: 'Giovanotto, sono il capo della milizia di Mosca. Ma dove diavolo è il tuo visto d'ingresso? Benvenuto, ma dov'è il visto? Capisci, abbiamo un problema".
Quando fu arrestato?
"Passò ancora altro tempo interminabile, non guardavo più l'orologio. Arrivò veloce una Volga nera. Poi camion della milizia: Gli agenti posero cordoni, allontanarono la folla a spintoni, la gente non voleva separarsi da me. "Giovanotto, scusi tanto ma deve seguirci", mi dissero cortesi. "Salga, la prego. Chiariamo al commissariato questa storia del suo visto". Salii sulla Volga, arrivammo alla più vicina stazione di polizia. Uno di loro traduceva in tedesco. Si presentarono corretti nella mia lingua, "siamo del Comitato per la sicurezza dello Stato". Per fortuna nella traduzione tedesca non riconobbi la sigla in russo: Kgb. Se no sarei forse morto di paura".
E come continuò l'interrogatorio?
"Per ore. Io spiegai che atterrando sulla Piazza Rossa volevo fare un gesto di pace. 'In ogni caso non aveva armi a bordo', osservarono. Non volevano credermi, ma non sapevano cosa pensare. La stazione di polizia era fatiscente. 'Venga, continuiamo in un luogo più appropriato, Lefortovo', dissero. Non lo sapevo, ma era la prigione centrale. Cominciarono domande più dure. 'Se nascondi la verità lo scopriremo e peggiorerai la tua situazione. Confessa: gli imperialisti ti hanno pagato per una provocazione'. No, insistetti, ho fatto tutto da solo. Erano increduli, continuammo a parlare fino alle 4 del mattino. Oppresso dal mal di testa, distrutto dalla stanchezza, chiesi d'interrompere il colloquio. 'Va bene, ragazzo', risposero. 'Tieni qualcosa da mangiare, poi ti portiamo a dormire. Ma capirai che non possiamo portarti in albergo come ti piacerebbe'.
E così cominciò la sua vita a Lefortovo...
"Sì. Tra alti e bassi tremendi. Avevo paura, e la certezza di non uscirne più. Persi dieci chili in poche settimane. Ero in cella doppia d'isolamento. Aleksandr, il mio compagno di cella ucraino - era in galera per mercato nero all'hotel Astoria - mi consolava leggendomi le notizie sulla Pravda. Del mondo esterno non vedevamo nulla: la piccola finestra in alto aveva uno spesso vetro opaco. Poi il processo. Corretto, niente violenze né minacce. Contatti regolari col consolato tedesco. Ma la condanna fu dura: 4 anni di campo di lavoro. Credetti di morire. Un anziano in alta uniforme, venne a trovarmi in cella".
Chi era?
"Petrenko, il direttore del carcere. Esordì rimbrottandomi paterno: 'Ragazzo, senti un po'. Io alla tua età, nel maggio '45, ero con i reparti di Zhukov che presero Berlino. Entrai nel Reichstag con loro, mitra e bandiere rosse in pugno... via, non ti sembra che voi tedeschi ce ne abbiate già combinate abbastanza?' 'Sì, ha ragione', risposi, 'scusi, ma io sono nato dopo, molto dopo. Forse ho sbagliato ma pensavo solo a un gesto di pace'. Da allora prese a visitarmi spesso. Parlavamo della guerra e del presente. Seppi poi che era sulla soglia della pensione. E aveva chiesto di rinviare il pensionamento finché il mio caso non fosse risolto. Venne a trovarmi in cella per spiegarmelo. 'Ragazzo, sei stato condannato al campo di lavoro ma al posto giusto. Hanno deciso di tenerti qui a Lefortovo: con noi sei al sicuro. Dopo il tuo volo molti militari sono stati puniti severamente... chi garantisce della tua incolumità se t'incontrano laggiù in Siberia?'.
Quattordici mesi a Lefortovo. Come li ricorda?
"Duri. Non ho rancori verso di loro. Ma vissi nel dolore interiore più atroce: mi dicevo ogni giorno, perché avevo fatto quel gesto? Perché non avevo scelto una normale vita di studi e carriera? I miei genitori potevano vedermi solo una volta ogni tre mesi, ogni tanto venivano i funzionari del consolato. Le ho detto: persi dieci chili, anoressia, crampi allo stomaco. Aleksandr, il compagno di cella, mi dava coraggio. E mese dopo mese, attraverso la Pravda tradotta da lui vedevo da dietro le sbarre un mondo che cambiava: leggevo notizie dell'est in movimento, la distensione Est-Ovest... i blocchi non si insultavano più...".
E l'amnistia?
"Arrivò improvvisa, 14 mesi dopo la condanna. Ricordo ancora quel giorno. Erano le 14. Bussarono le guardie. Mi portarono il vestito che dovevo indossare, al posto del pigiama carcerario, a ogni incontro con gli avvocati, i miei genitori, i diplomatici tedeschi. Aleksandr mi aiutò a capire: 'Ragazzo, hai fortuna, mi pare', disse. 'Mica crederai che ti portino in Siberia con l'abito buono?'. Ero frastornato, mi condussero in una stanza per colloqui. C'era il nuovo direttore del carcere, Rastvorov, i magistrati Dubravolskij e Komkov, e Vera Petrovna, che era stata interprete al mio processo. Komkov tirò fuori una cartella rossa, la aprì. Lesse un decreto: ero amnistiato, avrei dovuto lasciare il territorio sovietico. Firmato, sottolineò, Andreij Gromyko, allora presidente del Presidium. Mi sentii rinascere. Mister nyet firma la mia liberazione!"
E tornò in Germania accolto da eroe?
"No. Cominciarono i problemi. L'assedio dei media. Gli articoli ostili, che mi presentavano come pazzo irresponsabile che aveva messo in pericolo la pace. Mi tolsero il biglietto di pilotaggio, aprirono un'inchiesta contro di me con accuse assurde come minacce alla pace o tradimento, poi la archiviarono. Ma non rimpiango nulla, je ne regrette rien. Fu un'avventura da giovane incosciente? Forse, ma insisto: a volte anche l'incoscienza giovanile è parte del mondo. Un volo segnato dalle paure, dal terrore di aver sbagliato e che fosse troppo tardi per tornare indietro? Sì. Eppure fu giusto vivere, volando, il mio sogno. Anche in quei minuti tremendi, mentre quel Mig con la stella rossa mi sfrecciava attorno, lassù, allora, nei freddi cieli di Russia".
(9 maggio 2007)