Questo è il racconto di quello che mi è successo cercando di tornare a casa nei giorni delle nevicate dello scorso dicembre. Non è un thread di stretta attualità, né vuole essere destinato ad aprire una discussione. È solo – per chi ne ha voglia – una lettura.
L’avviso del ritardo arriva a mezzanotte. Nessun annuncio, solo una macchia rossa sul tabellone delle partenze, a quell’ora poche righe: Singapore, Manila e, appunto, Milano. La macchia rossa non dà scampo: ore 9.00. Devo passare la notte qui.
È sabato, oppure domenica. L’aeroporto di Shanghai Pudong è stanco. Io pure.
Al gate D73 vedo l’Airbus 343 dell’Air China che non partirà all’1.30, come previsto, forse stanco pure lui.
Nessuno sa nulla, la notizia che do prima a tre passeggeri in attesa, poi alle addette della lounge coglie tutti di sorpresa.
Non deve essere facile gestire un’emergenza a mezzanotte passata e trovare una sistemazione per qualche centinaio di persone. I telefoni degli uffici cui le volenterose addette della lounge cercano di rivolgersi non rispondono certo al primo squillo.
Le istruzioni sono frammentate: “Andate al banco del check in e lì vi diranno cosa fare”. Tre minuti dopo: “Aspettate qui, verrà qualcuno dello staff a prendervi per portarvi in albergo”.
Io mi ricordo che non avevo ancora cenato (e nemmeno pranzato, se è per quello). In attesa di qualcuno dello staff, faccio incetta di noodles al buffet non ricchissimo della lounge. A quell’ora è tutto buono, o quasi.
Forse avrei dovuto arrabbiarmi, disperarmi o protestare. In genere l’italico copione questo prevede in situazioni simili. In realtà trovavo quella situazione quasi divertente. Ero tranquillo, perché sapevo che una sistemazione l’avrebbero comunque trovata e perché la mia coincidenza da Malpensa sarebbe stata solo lunedì mattina.
Il qualcuno dello staff si materializza intorno all’1.30, l’ora a cui saremmo dovuti partire. Ci dicono che c’è un autobus pronto all’esterno del terminal che ci porterà in un albergo vicino. Poi, domani mattina, alle 7.30, verremo riportati in aeroporto. Chiedo: “Domani mattina dovremo rifare il check in?”. “Sì, ma vi verranno assegnati gli stessi posti”.
Signorina, scusi, non è questo il problema. Se ci muoviamo dall’albergo alle 7.30, se dobbiamo rifare il check in e pure – ovviamente – il controllo passaporti e la sicurezza, mi dice come faremo a partire alle 9.00?
“E le valigie?”. Qualcuno si preoccupa. “Restano sull’aereo”. Io tendo ad essere previdente e metto sempre il necessario nel bagaglio a mano. Per chi non lo fosse – penso – dovrebbe esserci un kit di emergenza.
Il kit non c’era. E non c’era nemmeno la cena, a meno che non si voglia considerare cena un barattolo di zuppa di noodles precotti, in distribuzione uso mensa sfollati sul banco della reception dell’albergo.
Già, l’albergo. Un aggettivo lo descrive bene, uno solo: freddo. Glaciale di temperatura e di accoglienza, ridentemente affacciato su una centrale di trasformazione elettrica nella periferia di Shanghai.
Una terra di nessuno. La mia testa, i miei pensieri, erano già in volo per Malpensa, ma il mio corpo era lì, fra la Cina e la centrale elettrica.
Erano oramai le due e qualcuno trovava ancora la forza di gridare e sbattere a terra suppellettili. Che succede?
Succede che ci vogliono mettere due per stanza e un cinese la prende molto male. Dicono che camere per tutti non ce ne sono, m presto si scopre il vero motivo: “Se volete la stanza singola dovete pagare 100 Rmb”.
È qui che perdo la tranquillità: “Se dite di voler essere pagati, vuol dire che le stanze le avete. Quindi cacciate fuori le chiavi e scordatevi i soldi”. Lo dico in inglese e l’impiegata dell’albergo – quella del supplemento singola a sorpresa – mi guarda con un punto interrogativo stampato sulla faccia. Probabilmente non ha capito nulla di quello che ho detto.
Il destino, sotto forma di una ragazza piuminoverdevestita (forse, non so, un’addetta dell’Air China), mi viene incontro e scopro di far parte di una casta privilegiata: in quanto titolare di un biglietto business, ho diritto alla sistemazione singola.
La solidarietà non è un sentimento forte alle due del mattino. Prendo la chiave, lascio gli ultimi passeggeri a discutere e mi avvio in camera.
Nel frattempo il programma era cambiato. La partenza dall’albergo anticipata alle 7.00, un’ora prima la colazione.
Ma mi serve davvero la colazione? È già molto tardi, preferisco dormire un po’ di più e farmi trovare pronto per le 7.00.
Facile a dirsi. E chi ci riesce a dormire in questa stanza? Avevano tolto tutto: le bottiglie d’acqua, il telecomando della televisione ma, soprattutto, le coperte supplementari. Fa freddo qui dentro, il riscaldamento non funziona e il letto giace ad una temperatura improponibile.
Scendo nella hall (vabbé, hall… nell’ingresso) e chiedo “A blanket, please”. La ragazza piuminoverdevestita è ancora lì, ma non capisce e mi dice solo “Solly”. Qualcun altro afferra il mio bisogno e mi chiede il numero della stanza. Meno male, ma non complichiamoci la vita, All’acqua ci rinuncio. Sono le 2.20.
Mi sembra di dormire da soli cinque minuti quando il telefono squilla e una voce dice qualcosa in cinese. Guardo l’ora: le 5.00.
La colazione – l’ho detto – non la voglio fare, quindi mi giro dall’altra parte e mi riaddormento.
Intorno alle 6.00 un nuovo squillo, questa volta la voce è più concitata, ma sempre in cinese.
Per i cinesi non c’è nulla di più importante del cibo. Chiedono “Hai mangiato?” così come noi chiediamo “Come stai?”. Per questo pensavo che la concitazione al telefono dipendesse dalla preoccupazione che avrei perso la colazione. Più tardi avrei scoperto che mi sbagliavo.
Fra le 6.00 e le 6.30 il telefono ha squillato altre due volte e due volte sono venuti a bussare alla porta. Mi arrabbio.
Faccio presto, una doccia e alle sette meno un quarto sono giù. La piuminoverdevestita (ma ha dormito qui? o ha passato la notte a telefonare nelle camere?) mi indica l’autobus all’esterno pronto a partire. È quasi vuoto, pensavo di essere fra i primi, in realtà sono l’ultimo.
Me ne accorgo all’aeroporto, quando vedo la lunga fila al check in. Sono già tutti qui, ben prima di me. Più tardi, una mia vicina di ufficio, incontrata all’imbarco, mi spiegherà che la telefonata delle 5.00 non era per la colazione, ma per avvertire dell’ultimo cambio di programma: prelievo all’hotel alle 6.00. Ma io come faccio a capirlo se me lo dite in cinese? Insomma, stavo per perdere l’autobus.
La colazione la faccio alla lounge. Ci sono gli stessi noodles di ieri sera. La torta al burro e i croissant sembrano freschi. Il mio fegato non è d’accordo, ma chissenefrega.
Alle 8.30, puntuali nel ritardo, chiamano per l’imbarco. Mentre mi staccano il talloncino della carta, noto un signore che protesta a voce alta. Testuale: “At minimum upgrade in business class”. Inglese, accento e modi da italiano all’estero (perdonatemi lo snobismo).
Attesa. Imbarco terminato. Posto accanto al mio vuoto. Bene.
Push back.
Prova motori.
Prova motori.
Prova motori.
Prova motori.
Finalmente ci muoviamo.
Ma torniamo al finger.
E qualcuno comincia a protestare a voce alta. Lui, quello dell’At minimum.
“Nine hours late!”
“My family said it’s perfect weather in Malpensa!”
“You are liar!”
“You treat us like animals. You are the animals!”
“I don’t trust you!”
“Don’t smile!”
“I pay your salary!”
“I want a policeman!”
“I want the captain!”
e via così.
In verità, io non ho capito bene cosa volesse, credo scendere. Ad un certi punto si è messo a picchiare contro la porta del cockpit e qui ho pensato che lo avrebbero arrestato.
Sul piacere che mi avrebbe dato vederlo accompagnato fuori da due poliziotti ha prevalso la preoccupazione che questo avrebbe causato ulteriori ritardi, e gli ho detto: “Senta, lei sta creando un problema. Per favore, si calmi che adesso possiamo partire”.
L’aereo, infatti, si stava nuovamente muovendo. Il problema era ad uno dei motori. Un controllo veloce e la nuova autorizzazione al push back.
At minimum, vedendo che nessuno lo seguiva nelle proteste, si era intanto sgonfiato.
Sul volo, nulla da segnalare, a parte l’IFE malfunzionante. Ora, io non ho problemi a passare 12 ore senza guardare un film, ma il vero dramma era che non funzionava l’air show: da grande appassionato di geografia e di aviazione, voglio sapere cosa sto sorvolando.
Malpensa ci ha accolto in bianco sulla 35R, con 9 ore e 30 minuti di ritardo. Al ritiro bagagli, nessuna traccia di At minimum.
L’avviso del ritardo arriva a mezzanotte. Nessun annuncio, solo una macchia rossa sul tabellone delle partenze, a quell’ora poche righe: Singapore, Manila e, appunto, Milano. La macchia rossa non dà scampo: ore 9.00. Devo passare la notte qui.
È sabato, oppure domenica. L’aeroporto di Shanghai Pudong è stanco. Io pure.
Al gate D73 vedo l’Airbus 343 dell’Air China che non partirà all’1.30, come previsto, forse stanco pure lui.
Nessuno sa nulla, la notizia che do prima a tre passeggeri in attesa, poi alle addette della lounge coglie tutti di sorpresa.
Non deve essere facile gestire un’emergenza a mezzanotte passata e trovare una sistemazione per qualche centinaio di persone. I telefoni degli uffici cui le volenterose addette della lounge cercano di rivolgersi non rispondono certo al primo squillo.
Le istruzioni sono frammentate: “Andate al banco del check in e lì vi diranno cosa fare”. Tre minuti dopo: “Aspettate qui, verrà qualcuno dello staff a prendervi per portarvi in albergo”.
Io mi ricordo che non avevo ancora cenato (e nemmeno pranzato, se è per quello). In attesa di qualcuno dello staff, faccio incetta di noodles al buffet non ricchissimo della lounge. A quell’ora è tutto buono, o quasi.
Forse avrei dovuto arrabbiarmi, disperarmi o protestare. In genere l’italico copione questo prevede in situazioni simili. In realtà trovavo quella situazione quasi divertente. Ero tranquillo, perché sapevo che una sistemazione l’avrebbero comunque trovata e perché la mia coincidenza da Malpensa sarebbe stata solo lunedì mattina.
Il qualcuno dello staff si materializza intorno all’1.30, l’ora a cui saremmo dovuti partire. Ci dicono che c’è un autobus pronto all’esterno del terminal che ci porterà in un albergo vicino. Poi, domani mattina, alle 7.30, verremo riportati in aeroporto. Chiedo: “Domani mattina dovremo rifare il check in?”. “Sì, ma vi verranno assegnati gli stessi posti”.
Signorina, scusi, non è questo il problema. Se ci muoviamo dall’albergo alle 7.30, se dobbiamo rifare il check in e pure – ovviamente – il controllo passaporti e la sicurezza, mi dice come faremo a partire alle 9.00?
“E le valigie?”. Qualcuno si preoccupa. “Restano sull’aereo”. Io tendo ad essere previdente e metto sempre il necessario nel bagaglio a mano. Per chi non lo fosse – penso – dovrebbe esserci un kit di emergenza.
Il kit non c’era. E non c’era nemmeno la cena, a meno che non si voglia considerare cena un barattolo di zuppa di noodles precotti, in distribuzione uso mensa sfollati sul banco della reception dell’albergo.
Già, l’albergo. Un aggettivo lo descrive bene, uno solo: freddo. Glaciale di temperatura e di accoglienza, ridentemente affacciato su una centrale di trasformazione elettrica nella periferia di Shanghai.
Una terra di nessuno. La mia testa, i miei pensieri, erano già in volo per Malpensa, ma il mio corpo era lì, fra la Cina e la centrale elettrica.
Erano oramai le due e qualcuno trovava ancora la forza di gridare e sbattere a terra suppellettili. Che succede?
Succede che ci vogliono mettere due per stanza e un cinese la prende molto male. Dicono che camere per tutti non ce ne sono, m presto si scopre il vero motivo: “Se volete la stanza singola dovete pagare 100 Rmb”.
È qui che perdo la tranquillità: “Se dite di voler essere pagati, vuol dire che le stanze le avete. Quindi cacciate fuori le chiavi e scordatevi i soldi”. Lo dico in inglese e l’impiegata dell’albergo – quella del supplemento singola a sorpresa – mi guarda con un punto interrogativo stampato sulla faccia. Probabilmente non ha capito nulla di quello che ho detto.
Il destino, sotto forma di una ragazza piuminoverdevestita (forse, non so, un’addetta dell’Air China), mi viene incontro e scopro di far parte di una casta privilegiata: in quanto titolare di un biglietto business, ho diritto alla sistemazione singola.
La solidarietà non è un sentimento forte alle due del mattino. Prendo la chiave, lascio gli ultimi passeggeri a discutere e mi avvio in camera.
Nel frattempo il programma era cambiato. La partenza dall’albergo anticipata alle 7.00, un’ora prima la colazione.
Ma mi serve davvero la colazione? È già molto tardi, preferisco dormire un po’ di più e farmi trovare pronto per le 7.00.
Facile a dirsi. E chi ci riesce a dormire in questa stanza? Avevano tolto tutto: le bottiglie d’acqua, il telecomando della televisione ma, soprattutto, le coperte supplementari. Fa freddo qui dentro, il riscaldamento non funziona e il letto giace ad una temperatura improponibile.
Scendo nella hall (vabbé, hall… nell’ingresso) e chiedo “A blanket, please”. La ragazza piuminoverdevestita è ancora lì, ma non capisce e mi dice solo “Solly”. Qualcun altro afferra il mio bisogno e mi chiede il numero della stanza. Meno male, ma non complichiamoci la vita, All’acqua ci rinuncio. Sono le 2.20.
Mi sembra di dormire da soli cinque minuti quando il telefono squilla e una voce dice qualcosa in cinese. Guardo l’ora: le 5.00.
La colazione – l’ho detto – non la voglio fare, quindi mi giro dall’altra parte e mi riaddormento.
Intorno alle 6.00 un nuovo squillo, questa volta la voce è più concitata, ma sempre in cinese.
Per i cinesi non c’è nulla di più importante del cibo. Chiedono “Hai mangiato?” così come noi chiediamo “Come stai?”. Per questo pensavo che la concitazione al telefono dipendesse dalla preoccupazione che avrei perso la colazione. Più tardi avrei scoperto che mi sbagliavo.
Fra le 6.00 e le 6.30 il telefono ha squillato altre due volte e due volte sono venuti a bussare alla porta. Mi arrabbio.
Faccio presto, una doccia e alle sette meno un quarto sono giù. La piuminoverdevestita (ma ha dormito qui? o ha passato la notte a telefonare nelle camere?) mi indica l’autobus all’esterno pronto a partire. È quasi vuoto, pensavo di essere fra i primi, in realtà sono l’ultimo.
Me ne accorgo all’aeroporto, quando vedo la lunga fila al check in. Sono già tutti qui, ben prima di me. Più tardi, una mia vicina di ufficio, incontrata all’imbarco, mi spiegherà che la telefonata delle 5.00 non era per la colazione, ma per avvertire dell’ultimo cambio di programma: prelievo all’hotel alle 6.00. Ma io come faccio a capirlo se me lo dite in cinese? Insomma, stavo per perdere l’autobus.
La colazione la faccio alla lounge. Ci sono gli stessi noodles di ieri sera. La torta al burro e i croissant sembrano freschi. Il mio fegato non è d’accordo, ma chissenefrega.
Alle 8.30, puntuali nel ritardo, chiamano per l’imbarco. Mentre mi staccano il talloncino della carta, noto un signore che protesta a voce alta. Testuale: “At minimum upgrade in business class”. Inglese, accento e modi da italiano all’estero (perdonatemi lo snobismo).
Attesa. Imbarco terminato. Posto accanto al mio vuoto. Bene.
Push back.
Prova motori.
Prova motori.
Prova motori.
Prova motori.
Finalmente ci muoviamo.
Ma torniamo al finger.
E qualcuno comincia a protestare a voce alta. Lui, quello dell’At minimum.
“Nine hours late!”
“My family said it’s perfect weather in Malpensa!”
“You are liar!”
“You treat us like animals. You are the animals!”
“I don’t trust you!”
“Don’t smile!”
“I pay your salary!”
“I want a policeman!”
“I want the captain!”
e via così.
In verità, io non ho capito bene cosa volesse, credo scendere. Ad un certi punto si è messo a picchiare contro la porta del cockpit e qui ho pensato che lo avrebbero arrestato.
Sul piacere che mi avrebbe dato vederlo accompagnato fuori da due poliziotti ha prevalso la preoccupazione che questo avrebbe causato ulteriori ritardi, e gli ho detto: “Senta, lei sta creando un problema. Per favore, si calmi che adesso possiamo partire”.
L’aereo, infatti, si stava nuovamente muovendo. Il problema era ad uno dei motori. Un controllo veloce e la nuova autorizzazione al push back.
At minimum, vedendo che nessuno lo seguiva nelle proteste, si era intanto sgonfiato.
Sul volo, nulla da segnalare, a parte l’IFE malfunzionante. Ora, io non ho problemi a passare 12 ore senza guardare un film, ma il vero dramma era che non funzionava l’air show: da grande appassionato di geografia e di aviazione, voglio sapere cosa sto sorvolando.
Malpensa ci ha accolto in bianco sulla 35R, con 9 ore e 30 minuti di ritardo. Al ritiro bagagli, nessuna traccia di At minimum.