Ritorno
Valigia depositata al volo, boarding pass cartacei in mano.
Mi sorprende che in un Paese dove puoi pagare con la Suica ovunque, perfino per un sorso d’acqua, ti diano ancora fogli di carta per lounge e fast track.
Ma tant’è. Contrasti giapponesi.
Controlli di sicurezza: una formalità.
Immigrazione in uscita: un mistero.
Avendo acquistato articoli tax free (le famigerate
maricadas), trovo una serie di terminali dove scansionare il passaporto prima di accedere all’immigrazione vera e propria. Ma cosa succede se uno tira dritto? Le scritte sono quasi tutte in giapponese, con una mini legenda per gli stranieri.
È tutto un po’... ambiguo. Tipo side quest mal progettata in un JRPG.
Superata l’immigrazione, mi ritrovo nella zona duty free.
Un girone dantesco. Anime dannate ovunque, trascinate tra skincare da 4000 yen e snack al matcha.
Compro solo una stecca di sigarette — Made in Japan — il souvenir che mia madre apprezza più di ogni altro.
Mi dirigo alla lounge, divisa tra ala nord e sud.
Visito solo la nord.
Il cibo? Nulla che mi ispiri, prendo solo un mochi (così, per principio).
Nota di merito per lo spillatore automatico di birra: una meraviglia che in USA servirebbe come l’aria, considerando come spesso ti servono la birra come fosse succo di frutta frizzante.
Il design della lounge è strano. Sembra un soggiorno Ikea.
Imbarco puntuale. Posto 1L.
So che molti snobbano il bulkhead, ma Polaris 1A/L e 9A/L sono i miei preferiti: spazio extra per le gambe.
Originariamente il volo era operato da un 777-200, ma scopro che è stato sostituito da un 777-300ER.
Motivo? Il volo del giorno prima è stato cancellato per motivi ignoti, quindi ora cercano di caricare più passeggeri possibili.
Benvenuto con prosecco.
Mi metto a leggere il menu anche se avevo già preordinato quello giapponese.
Curioso di provare il catering da Osaka.
Mentre fisso il finestrino, noto qualcosa di insolito: un rimasuglio del volo precedente.
In Giappone.
Mi sento come se avessi trovato un glitch in Flight Simulator.
Si parte.
Cena servita circa 45 minuti dopo il decollo.
Dettaglio curioso: abbiamo le tovagliette scure, ormai sostituite da quelle chiare da mesi.
Sono tornato nel tempo
?
Partenza da KIX alle 16:50 di venerdì, arrivo a SFO alle 11:00… sempre di venerdì.
Altro che jet lag, questo è un episodio di Doctor Who.
Scelgo un film orrendo:
Final Destination: Bloodlines.
Mentre guardo, mi chiedo con quale coraggio qualcuno abbia finanziato una cosa simile.
Mi addormento prima di trovare una risposta.
Mi sveglio appena in tempo per la colazione.
Scelgo quella giapponese, un po’ per coerenza narrativa, un po’ per senso del dovere.
Non era male, ma io sono da croissant e caffè, non da pesce e riso al risveglio.
App United mi notifica i dettagli della coincidenza: SFO–IAD.
Atterraggio a San Francisco con 10 minuti di anticipo.
Immigration hall deserta.
Passo con Global Entry in 5 secondi netti, ma aspetto le valigie per venti minuti buoni.
Riconsegno la valigia e ripasso i controlli (stavolta uso Clear, perché TSAPre era affollato).
Mi concedo un veloce caffè alla Polaris Lounge di SFO: sempre una bolgia, anche alle 11 del mattino.
In confronto, la lounge di partenza a IAD sembrava una spa zen.
Arrivo al gate mentre iniziano l’imbarco per l’ultimo tratto: SFO-IAD.
772, configurazione domestica, 28 posti business old school (8-across).
Le probabilità di upgrade? Uguali a quelle di vincere il Superenalotto tre volte consecutive.
Volo senza infamia e senza lode.
Ovviamente, rosico perché il tizio davanti a me ha il posto centrale libero.
Mi connetto al Wi-Fi che smette di funzionare dopo 30 minuti.
Riparte dopo un’ora.
Forse era in jet lag anche lui.
Atterraggio a IAD.
La valigia arriva quasi subito, mescolata con le non-priority (classico).
Chiamo un Uber.
Sono le 21.30, quindi zero traffico.
In 35 minuti sono a casa.
Mi aprono la porta le due gatte, che mi fissano con espressione perplessa.
Tipo: “Con che coraggio te ne sei andato lasciandoci con queste due disgraziate?”
Rimango lì, fermo un attimo.
Stanco ma grato.
Grato di lavorare per un’azienda globale che mi permette di visitare posti dove, per diletto, probabilmente non sarei mai andato.
Grato dei colleghi con cui, tra un meeting e un highball, riesco anche a divertirmi veramente.
E in fondo, come cantava Ne-Yo sulle note di David Guetta: “Work hard, play hard.”
E io non potrei essere più d’accordo.