Ryanair: ''Monti rifiuto' il nostro piano da 37 mila posti di lavoro''


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Il giochetto lo conoscono tutti, e noi ne abbiamo parlato tante volte. Ryanair, la compagnia irlandese leader nel settore delle tratte aree low – cost, per fare “base” in un determinato scalo chiede soldi, tanti soldi.

Ad esempio, per fare da base a Trapani, portando 2 milioni di passeggeri l’anno, chiede diversi milioni di euro (la cifra ufficiale non è mai stata resa pubblica perchè coperta dal segreto del contratto di servizio) e, per restare fino al 2019 – il contratto scade nel 2014 – chiede altri tre milioni di euro, cifra che devono uscire i Comuni della provincia di Trapani. A Verona, dove aeroporto e Ryanair sono in causa, la società chiedeva ben 17 euro a passeggero….Il problema è che, in Unione Europea, dare aiuti direttamente ad una compagnia aerea si configura come una violazione della libertà di concorrenza tra le imprese. Ecco che allora, dopo le prime istruttorie, e i casi di Alghero e Verona, Ryanair (come le altre compagnie low cost nate sulla scorta del suo successo) ha studiato la formula del co – marketing. Non chiede soldi, ma chiede che la cifra venga investita in pubblicità nei suoi mezzi: il sito della compagnia, la rivista di bordo, eccetera. Cambia la formula ma la sostanza non cambia. E’ per questo che l’Unione Europea si prepara a decidere sul caso, e ha messo anche l’aeroporto di Trapani sotto osservazione.

A Bruxelles il commissario alla Concorrenza, Joaquín Almunia, ha presentato le nuove regole che dall’inizio del 2014 disciplineranno il settore.
Le nuove regole si applicheranno a tutti gli scali con più di 250mila passeggeri all’anno. L’obiettivo non è azzerare gli aiuti di Stato ma regolamentarli in modo da evitare gli eccessi a cui si assiste in giro per l’Europa. Vengono disciplinati sia gli aiuti per la costruzione delle infrastrutture che quelli per la gestione e l’avvio delle rotte. Gli aiuti potranno essere erogati solo dopo aver verificato un effettivo bisogno di trasporto che giustifichi l’intervento pubblico per rendere accessibile un territorio.
In tutti gli altri casi, gli aeroporti devono coprire i propri costi, sia per l’investimento iniziale sia per la gestione operativa, come qualsiasi altra attività economica. Il concetto, come spiega il commissario Almunia, è che i costi di un aeroporto devono essere a carico dei passeggeri e delle compagnie aeree che lo utilizzano e non della collettività. Lo stesso concetto di fondo vale per gli aiuti diretti alle compagnie che avviano nuovi collegamenti: le sovvenzioni sono ammesse ma solo per un periodo limitato.
Attualmente le norme comunitarie che regolano la materia sono meno rigide e forse più confuse. Questo non ha impedito, o ha addirittura favorito decine e decine di violazioni in giro per l’Europa. Su 460 aeroporti che compongono la rete degli scali nei paesi dell’Unione, sono più di 60 i casi in cui gli aiuti di Stato sono stati concessi senza rispettare le regole comunitarie. E in quasi la metà dei casi la Direzione generale per Concorrenza ha già aperto indagini formali. In Italia sono nel mirino gli aeroporti di Verona, Reggio Calabria, Trapani e gli scali sardi. Pensare di applicare in modo brutale le regole attuali significherebbe avviare procedure d’infrazione a tappeto per costringere gli Stati membri a recuperare gli aiuti illegali (quasi 300 milioni solo per le procedure aperte). Un’ipotesi improponibile in una congiuntura come quella attuale. Significherebbe provocare un mezzo disastro scatenando un effetto valanga, con decine di altre denunce per aiuti illegali e somme da recuperare che si moltiplicherebbero in modo esponenziale. Perciò la Commissione proporrà un periodo transitorio di 10 anni, durante i quali le società aeroportuali dovranno progressivamente ridurre l’intervento pubblico nei propri bilanci e, contestualmente, adottare misure che migliorino la redditività. C’è il rischio che i prezzi finali per i passeggeri possano aumentare, ma lo spartiacque su cui le nuove regole si muovono è tra cosa è legittimo chiedere ai contribuenti e cosa, invece, devono pagare gli attori economici e gli utilizzatori del servizio.

“Sarebbe interessante – commenta la Uiltrasporti – capire se mettendo le basi operative in Italia e non all’estero, pagando le tasse regolarmente allo stato italiano, senza i contributi di regioni, enti locali e società aeroportuali e senza contratti capestro per il proprio personale, Ryanair riuscirebbe a sopravvivere”.
 
art 11 della costituzione.....L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Ok significa che per mantenere la pace dobbiamo comprare gli f35???? ah va bè.......allora vi dico andate a guardare in Costarica dove finiscono i soldi x "mantenere la pace".....e io mi fermo qui!!!
 
art 11 della costituzione.....L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Ok significa che per mantenere la pace dobbiamo comprare gli f35???? ah va bè.......allora vi dico andate a guardare in Costarica dove finiscono i soldi x "mantenere la pace".....e io mi fermo qui!!!
OT: forse questa volta hai fatto la domanda giusta. L'Italia deve avere un sistema di difesa o essere priva di forze armate?
Dopo che abbiamo risposto a questa domanda (io non ho dubbi), tutto il resto è conseguenza logica, compreso l'acquisto degli F35.
 
Questo articolo di Oscar Giannino inquadra al meglio la situazione del turismo in Italia (e non solo)
"Dal Messaggero di oggi
LO STATO PRETENDE DI FAR CULTURA, MA FA DISASTRI

Non è da invidiare Massimo Bray, il ministro dei Beni e Attività Culturali. Come tutti i suoi predecessori al MIBAC è come se, in un Paese che s'impoverisce, fosse seduto su un mare di petrolio. Perché è un classico ma insieme ben fondato luogo comune, che patrimonio culturale e storico-artistico siano il petrolio dell'Italia. Solo che al ministro mancano trivelle e macchine perforanti. E il petrolio culturale di conseguenza non solo resta inutilizzato. Non manutenuto, decade. Degrada a livelli da farci vergognare davanti a tutto il mondo, si tratti di Pompei o degli scioperi che lasciano per ore al sole i turisti fuori il Colosseo.
Il ministro lo sa benissimo, come tutti coloro che si occupano nel nostro Paese di beni monumentali e storico-artistici, biblioteche e musei. L'Italia vanta ben 47 siti nella World Heritage List dell'Unesco, e la quasi incredibile cifra di 962 siti riconosciuti di “eccezionale valore universale” secondo la Convenzione del patrimonio mondiale Unesco del 1972. Ma la verità fattuale è che come Italia non ne ce ne mostriamo all'altezza.
Ha un bel riconoscere la Costituzione, all'articolo 9, tutela e promozione rivolte a ricerca, cultura e patrimonio storico-artistico. Nei fatti, alle storiche inadeguatezze italiane del passato, gli ultimi anni di dura crisi hanno aggiunto un'oggettiva falcidie di risorse. Per questo Bray non è da invidiare, perché ormai nelle condizioni attuali un ministro deve indicare una svolta di fondo, e non è facile perché le aspettative sono divergenti e, spesso, irrealistiche.
Nel senso più ampio del termine, il binomio di cultura e industria creativa – design, audiovisivi, teatro, cinema, tv, editoria – nel 2012 ha prodotto il 5,4% del Pil, dando lavoro a 1,4 milioni persone. Il turismo culturale da solo, un settore che dovrebbe rappresentare quel che il gas naturale è per la Russia, vale poco più del 3% del Pil, un dato cioè del tutto insoddisfacente.
I segni della decadenza sono tanti, la settimana scorsa li ha richiamati il nono rapporto annuale di Federculture. Nel Country Brand Index che indica l'attrattività comparata dei diversi “marchi” nazionali, l'Italia era al sesto posto mondiale nel 2009, è scesa al decimo scalino nel 2012, e nel 2013 siamo andati giù di altri 5 gradini passando in quindicesima posizione.
Nel 2000 si toccò con Veltroni il picco dei finanziamenti pubblici con 4mila miliardi di vecchie lire, ma nel 2013 il bilancio del MIBAC è sceso a 1,45 miliardi di euro. In 13 anni ha perso oltre il 26%, la ghigliottina vera è venuta da Tremonti in avanti. Il FUS che finanzia l'opera lirica, musica classica, teatro, cinema e danza, da 507 milioni del 2003 è sceso ai 389 milioni di oggi. Se sommiamo i finanziamenti alla cultura di Comuni, Province e Regioni, siamo passati dai 7,5 miliardi complessivi pubblici del 2005 ai 5,8 dell'anno in corso, con 600 milioni in meno solo dai Comuni nell'ultimo triennio. Al paragone, la Germania è passata da 9,1 miliardi del 2009 ai 12 miliardi di risorse pubbliche nel 2012. L'Italia spende col MIBAC lo 0,11% del suo PIL, la Francia lo 0,24%, il Regno Unito lo 0,17%, la disastrata Grecia lo 0,26%. Al Louvre parigino da solo vanno 100 milioni di fondi pubblici l'anno, al MAXXI romano 4,5.
I fondi privati sono calati anch'essi. Le erogazioni liberali sono scese dell'11% nel 2011, le sponsorizzazioni del 42% in 5 anni. Nel 2012, solo 150 milioni di sponsorizzazioni private sono andate a 4760 istituti e musei, alle 14 fondazioni lirico- sinfoniche, ai 68 teatri stabili. Da un biennio a questa parte è stato introdotto il meccanismo del tax credit per agevolare il finanziamento privato alle produzioni cinematografiche, ma a dicembre scade la copertura del minor introito fiscale per il Tesoro e in queste condizioni nessuno investe. Quanto al finanziamento di progetti culturali dal gioco del Lotto, anch'esso è sceso del 64% in 8 anni, da 135 ai 48 milioni nel 2012.
E' possibile, in queste condizioni, immaginare un ritorno della spesa pubblica ai livelli di un decennio fa? Bisogna essere onesti: è pressoché impossibile. Nel bilancio pubblico, per avere un'idea, la spesa in previdenza e forniture lievitava di punti di Pil, ma per esempio i fondi statali di carattere sociale anch'essi sono passati dai 2,5 miliardi del 2008 ai 767 milioni 2013, per ridursi nel bilancio pluriennale addirittura a 199 milioni nel 2014 e 2015. Letta e Saccomanni avranno il loro bel da fare, nella legge di stabilità settembrina, a dover quadrare il conto di fronte a tutti coloro che richiedono ripristini di spesa. Ricordate che dal 2015 parte il fiscal compact, e in pareggio costituzionale di bilancio dobbiamo abbattere il debito pubblico di 45 miliardi l'anno...
Non pesa solo l'obiettivo scarso margine per risorse aggiuntive. Il ministro Bray si trova in una condizione di difficoltà aggiuntiva. Di fatto, l'efficienza del suo ministero appare indifendibile. Lo è a livello centrale, visto che un terzo del bilancio se ne va in soli costi fissi, oltre 400 milioni di euro ai dipendenti a fronte dei soli 9 milioni da destinare alla valorizzazione del patrimonio, e a 132 per l'intera loro tutela. Ma peggio ancora vanno le cose a livello decentrato, nella complessa struttura territoriale di Sovrintendenze e Musei: il dato del 2010 è che il 55% delle magre risorse loro assegnate erano finite nei residui passivi, per lentezza, incapacità e sistemica conflittualità amministrativa nell'utilizzarli. Come si fa a chiedere più risorse per una macchina di questo tipo, quando al solo gabinetto del ministro – e Bray non c'entra, il bilancio gli è precedente – va una volta e mezza l'intera cifra annuale devoluta alla valorizzazione dell'intero patrimonio culturale italiano?
Ma allora qual è la strada, per evitare disastri a Pompei, figure penose come la spoliazione della Biblioteca dei Girolamini a Napoli da parte del suo stesso direttore, e per far sì che Expo 2015 a Milano e l'assegnazione all'Italia della Capitale Europea della Cultura nel 2019 non sin traducano in promesse non mantenute, come le Colombiadi a Genova nel 1992, dove i visitatori furono moto meno della metà dei 2 milioni attesi e gli incassi solo di un terzo?
La via è quella di uno Stato che regoli sempre, ma gestisca sempre meno. Ideologicamente, molti sono contrari. Ma la Torre Eiffel come il Louvre, il Moma a New York come la Tate Modern a Londra sono tutte entità separate da Stato e pubbliche amministrazioni, hanno proprie organizzazioni privatistiche e spesso marchio e brand depositato, come il Louvre, per tutelarne e promuoverne il valore. Occorre ampliare le agevolazioni fiscali a privati invece di limitarle, equiparando e anzi rendendo più incentivanti le sponsorizzazioni delle aziende, rispetto al più favorevole regime di incentivo che lo Stato riserva attualmente per le donazioni a sé.
E' una rivoluzione della efficiente gestione privatistica, che non spoglia assolutamente lo Stato dal diritto proprietario dei beni – beni che la Ragioneria generale valutava 3 anni fa oltre 150 miliardi, con criteri assolutamente spannometrici. Ed è una rivoluzione che sicuramente non piace alla burocrazia MIBAC, perché finirebbe per spogliarla di gare e assegnazioni di risorse, per quanto magre. Ma è una rivoluzione necessaria.
Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna rimpianto a Istanbul da chi protesta a Gesy Park, capendo di non avere risorse adeguate per gestire e valorizzare gli innumerevoli e straordinari siti archeologici nazionali, ne affidò ciascuno dei maggiori a una grande università occidentale. L'effetto è che da Efeso a Didimo e Priene, i turchi oggi battono Pompei e Villa Adriana."
 
La prima parte dell'articolo non mi piace per niente, fa sembrare che quello che conta sia spendere, non ottenere i risultati. A me queste cose fanno imbestialire, non e' che se hai speso sei a posto, anzi. E' con questo principio che a suo tempo abbiamo speso 60mila miliardi di lire per 50mila famiglie terremotate che alla fine non avevano ancora la casa, nonostante avessimo speso piu' di un miliardo a famiglia.

Lo scopo e' il risultato, non la spesa in se stessa!!

E poi come si fa a paragonare il Louvre con il MAXXI? Non sono nella stessa categoria. Solo a Roma ci sono decine di punti di interesse turistici piu' importanti del MAXXI, e' ridicolo paragonare i finanziamenti del MAXXI con quelli del Louvre.

Riguardo alla gestione privatistica dei beni culturali e paesaggistici, invece, sono d'accordo. Non vedo alternativa. Andrebbe bene anche se allo stato restassero le briciole, come le spiagge date in consessione. Pero' l'impresa che gestisce un bene culturale, lo manutiene, lo promuove e raccoglie gli incassi, fa girare l'economia, crea posti di lavoro e attrae turisti che creano indotto e massa critica anche altrove. Tra cui l'aviazione. Senza andare a Roma, nella piu' povera di attrazioni Milano se rendi possibile, che so, salire sulla Torre del Mangia, al castello, e' sicuro che hai afflusso e crei un po' di posti di lavoro. Basta consentire a qualcuno di farlo.

E' OT, ma non del tutto che dai piani di crescita di FR per il nostro paese si sia finito per parlare di turismo. Perche' sono discorsi sinergici, e perche' fanno parte entrambi, in modi diversi, delle occasioni perse. E poi quel traffico non e' detto che dovrebbe farlo solo FR. Venire a fare un salto in Italia, che e' unica, dovrebbe essere facile, amichevole, dare esperienze uniche e a costo competitivo.

E quelle cose che volano sono un anello fondamentale della catena, anche se non hanno le insegne con l'arpa celtica.