Questa seconda parte di Trip Report sarà costituita per la maggior parte da un OT riguardante l’isola sud della Nuova Zelanda, e si concluderà con il volo Jetstar da Queenstown ad Auckland.
Incominciamo.
Purtroppo il tempo ma disposizione è quello che è, e in una decina di giorni vogliamo girare il più possibile. L’itinerario prevede, dopo la prima notte passata a Kaikoura per l’avvistamento delle balene (con cui si era conclusa la prima parte del TR) la risalita sino a Nelson per visitare l’Abel Tasman National Park che si trova all’estremità nordoccidentale dell’isola.
L’isola del sud ha un’estensione pari alla metà della superficie dell’Italia, ma è abitata solamente da un milione di persone.
Inutile dire che si vedono poche persone in giro, che i centri abitati sono di dimensioni estremamente ridotte, e che l’atmosfera che si respira è quella di trovarsi fuori dal mondo.
La sosta per la seconda e la terza sera, come accennavo, sarà Nelson, una tranquilla cittadina di mare ubicata proprio di fronte rispetto alle coste dell’isola nord.
Siamo a inizio Gennaio, e dunque in piena stagione estiva, e il tempo effettivamente è molto piacevole.
Meno la temperatura dell’acqua, paragonabile a un bagno di inizio Maggio qui in Liguria.
Le spiagge sono quasi tutte deserte, e l’invidia per lo spazio che qui hanno a disposizione è veramente tanta.
Sin dai primissimi giorni da queste parti capiamo due cose: inutile cercare qualcosa da vedere di interessante che non sia opera di madre natura, e inutile cercare di magiare qualcosa di particolarmente buono.
La cattedrale di Nelson, locale vanto architettonico.
E testimonianza di quella che è una vera e propria usanza locale, ovvero quella di appendere sempre e dappertutto vasi di fiori.
Per quanto riguarda il cibo la discendenza Britannica si fa sentire eccome, e tutto quanto letto e sentito circa il fermento che investirebbe la cucina Neozelandese lascia fortemente delusi.
Le materie prime sono favolose, come ad esempio queste cozze verdi tipiche della regione di Malborough, affumicate naturalmente, per non parlare della carne in generale, e di quella di agnello in particolare.
Ma appena i prodotti passano tra le grinfie degli chef locali, generose di burro e di spezie, purtroppo tutto viene rovinato.
La prima sera che passiamo a Nelson decidiamo di provare il ristorante che pare essere il top della zona, tal Hopgood’s, con tanto di chef pluristellato e conto oltre i cento sghei a cranio.
Piatti forti del locale, una sottospecie di insalata di gamberi su di un letto di mais al curry (avete letto bene, mais) e costine di maiale stracotte coperte di parmigiano, il tutto adagiato sopra all’onnipresente mashed potatoes.
Estremamente deludente.
Simpaticissimo l’incontro con la cameriera , giapponese di Osaka, che, dopo aver fatto con noi qualche discorso circa il suo Paese, mi fissa e mi dice con fare categorico “You are Italian”.
Incuriosito, le chiedo come mai fosse così evidente da dove provenissi, e lei mi risponde che sono senz’altro Italiano perché parlo l’inglese come Stefano.
Sempre più incuriosito le chiedo chi sia questo Stefano, e lì parte una agiografia di tal Stefano Bonazza, il più grande pizzaiolo della zona, talmente adorato che in aperto conflitto di interessi la signora mi suggerisce di andare a mangiare da lui la sera seguente!!
Non seguo il suo consiglio, ma decido di andare la sera stessa in pellegrinaggio dal mitico Stefano, che alle dieci di sera è già chiuso (adattandosi agli standard orari del luogo), ma che mi regala questo filosofico insegnamento di vita.
Il giorno seguente ci facciamo nuovamente inghiottire dalla selvaggia natura locale.
Siamo sull’Isola dei conigli, collegata alla terraferma da un ponte che dal tramonto all’alba viene chiuso in osservanza del divieto assoluto di pernottare lì.
Strada di accesso.
E lunghissima, desertissima, e incredibile spiaggia.
Parafrasando un celeberrimo forumista, solito a riempire la piscina con il Barolo, “posti da cinema”!
Dopo il giro al nord ci muoviamo per quella che sarà la più lunga tappa del nostro itinerario, ovvero lo spostamento dal capo nord ovest dell’isola sino ad Akaroa, situata nella Banks Peninsula protesa nell’Oceano Pacifico, una settantina di chilometri ad est di Christchurch e 650 chilometri da Nelson.
A dire il vero la distanza sarebbe minore percorrendo la via più breve, ma decidiamo di percorrere la strada più lunga per vedere la selvaggia West Coast e per transitare attraverso il celebre Arthur Pass che taglia le South Alps.
Lascio parlare le foto.
Spessissimo lungo la strada si incontrano ponti a una sola corsia di marcia, spesso nemmeno regolati da semafori.
Facciamo tappa per pranzo a Westport, il luogo più squallido dove abbia mai messo piede.
Non solamente brutto: squallido, deprimente, insomma, come direbbe il Timberland, da tagliarsi le vene
L’istinto di autoconservazione ci impedisce di compiere gesti inconsulti, e veniamo ripagati da lì a poco da quelli che sono tra i paesaggi più belli che abbia mai visto.
Quanto poco sia popolata la West Coast è difficile da rendere a parole, si è fuori dal mondo, passano cinquanta chilometri senza incontrare alcun segno del passaggio dell’uomo.
Un paradiso.
In giro quasi solo visitatori, tantissimi in camper, per lo più qui per percorrere i mille e mille tracks che si snodano attraverso i boschi e lungo le coste.
Ci addentriamo anche noi in qualche sentiero che dalla strada principale entra, letteralmente, nella natura.
Devo ammettere che tra il fatto che in giro non ci sia nessuno, e gli inquietanti rumori di animali che si sentono, è un’esperienza che mette una certa inquietudine.
Questi sono i cosiddett pancakes, una formazione rocciosa particolarissima frutto di una plurimillenaria stratificazione.
Lasciata la costa, e iniziata l’ascesa verso l’Arthur Pass, veniamo fermati dallo sceriffo di Kumara, che dopo un bel cazziatone e la promessa che alla prossima non avrei mai più guidato in Nuova Zelanda, mi eleva un bel verbale per eccesso di velocità in centro abitato.
I limiti in NZ sono di cento chilometri orari, eccetto che nelle città dove scendono a 50, ed io, effettivamente, andavo a 90.
Piccolo particolare il “centro abitato” conta la bellezza di ben 318 abitanti e a parte qualche stalla e uno scalcagnato pub io, di case, non ne ho viste.
Pago alla prima banca il meritato multone di 400 NZ$ e, più leggero di cinquanta punti sulla mia fedina stradale neozelandese (e più attento ai limiti

), mi godo gli stupendi paesaggi da cartolina dell’Arthur Pass.
E’ ormai sera, quando avvistiamo Akaroa.
Scopriamo con nostro grande piacere che alle 21 di sera è impossibile trovare ad Akaroa un posto che faccia qualcosa da mangiare, fosse anche un panino, e ceniamo con biscotti e the.
Il motivo principale della nostra permanenza in questo sperduto luogo, una penisola con al proprio cento un fiordo, antico cratere vulcanico, è quello di partecipare ad un’uscita in barca per avvistare il delfino di Hector, che pare essere la specie più intelligente al mondo.
L’escursione prenotata prevede oltre all’avvistamento anche la possibilità di nuotare con i delfini, particolarmente socievoli.
Nonostante la muta invernale l’acqua è ghiacciata (siamo tra l’altro di primissima mattina) e dopo quasi un’ora passata a mollo il ritorno al pontile è traumatico, mai preso tanto freddo in vita mia!
Alcune foto dell’incantevole zona.
L’isolata Otanerito Bay, che si raggiunge dopo una mezz’ora di fuoristrada e un quarantacinque minuti di cammino a piedi.
Per arrivare alla spiaggia si passa attraverso una serie di campi privati, è tutto molto suggestivo.
Spiaggia vulcanica, che più vulcanica non si può.
Meritato premio.
Siamo soli, stranamente!

Il giorno della partenza da Akaroa veniamo svegliati intorno alle tre di notte dalla camera che si muove assieme a noi. Sapevamo che la zona è investita da un’ininterrotta attività sismica che dura da oltre un anno (
http://www.christchurchquakemap.co.nz/), ma trovarsi nel bel mezzo della scossa è decisamente brutto, e per tutta la notte, complici i movimenti di assestamento, fatichiamo a dormire.
Per fortuna la struttura abitativa media della NZ è costituita da un prefabbricato di 1 o 2 piani, e ci autoconvinciamo che anche se ci dovesse cadere tutto in testa non ci farebbe poi così male!
Per la cronaca si è trattato di un terremoto di 5.5. gradi della scala Richter, e il cui epicentro era a pochi chilometri da noi.
Lasciamo la movimentata zona del North Canterbury, e scendiamo lungo la costa est facendo tappa prima ad Oamaru.
Questa è la via più antica dell’isola sud della Nuova Zelanda, nonchè frequentata meta turistica.
Credo sia superfluo che io aggiunga altro sullo scarso interesse dal punto di vista architettonico del Paese, diametralmente opposto rispetto a quello che riveste tutto ciò che è natura.
Mercatino imprudemente autoqualificatosi come “dell’antiquariato”.
Siamo pur sempre in periodo di feste natalizie.
Altri scorci.
Passiamo una notte a Dunedin, cittadina universitaria tanto decantata dalla Lonely, ma che si rivela come quasi tutte le città della NZ “da tagliarsi le vene” (cit.).
Siamo qui però per vedere la Otago Peninsula, che non ci delude affatto, anzi!
Torniamo per un momento IT con questo bell’albatros.
A seguire altra lunga tappa di spostamento sino a Te Anau, porta di ingresso per visitare il Milford Sound, forse l’attrazione turistica più celebre del Paese.
Per raggiungere la cittadina facciamo, come è giusto che sia, la strada più lunga, arrivando sino alle Catlins e alla punta più sud dell’isola.
Oltre, l’Antartide.
Stranamente fa molto più caldo qui che al nord.
Ricordate quando a scuola si studiavano le attività peculiari delle varie nazioni? Ebbene, qui la risposta sarebbe facile: pastorizia. Pecore, pecore e pecore dappertutto!
Te Anau è un paese sperduto in mezzo alle montagne, affacciato sull’omonimo lago, che costituisce l’ultimo avamposto prima di addentrarsi lungo la mitica Milford Route.
Pieno zeppo di motel e relativamente pieno di turisti (con netta prevalenza di Giapponesi).
Sino a qui non abbiamo mai incontrato nessun Italiano (bene o male, lascio a voi la scelta…

)
Aeropolano per voli turistici.
E gran celebrazione per il primo arrivo al microaeroporto locale del Jumbolino.
Ottima cena a base di cervo.
Di primissima mattina ci mettiamo in marcia con destinazione Milford Sound, dopo aver fatto il pieno di benzina (non vi è alcun distributore lungo la strada, circa 100 chilometri ad andare ed altrettanti a tornare).
Lungo la strada ci fermiamo ai Mirror Lakes, credo sarebbe inutile spiegarvi il motivo del nome!
Spettacolare, così come il resto del paesaggio di quella che è inserita tra le 10 strade più belle al mondo da Tripadvisor.
Ghiacciai.
Cascate.
Pappagalli d’alta quota (!)
E il tunnel che conduce al fiordo.
Tra le varie escursioni possibili scelgo (molto opportunamente, a posteriori) quella effettuata con la barca più piccola (non ricordo il nome, se a qualcuno interessasse cerco tra le mail), che permette di arrivare estremamente vicino alle coste.
Anche qui c’è un piccolissimo aeroporto che collega il sito con Queenstown e con Te Anau.
Dire che si atterra “in mezzo alle montagne” non è esagerato.
Non aggiungo commenti alle prossime foto, non serve.
Il comandante è un drago, e ci porta sotto alle cascate, a pochi metri dalle rocce.
E poi quasi a toccare le colonie di foche che prendono il sole (considerate che non ho usato alcuno zoom per scattare ad eccezione dell’umile 18-55 “di serie”).
Delfini.
E usciamo dal fiordo, raggiungendo il Mar di Tasmania.
Fantastico, luoghi indimenticabili che valgono da soli il viaggio.
Strada per Queenstown.
E il suo lago.
Queenstown è universalmente conosciuta come la capitale mondiale degli sport estremi (il bungee jumping è nato qui) ed è una città vivacissima, e la prima tra quelle visitate le cui strade dopo le 22 fossero ancora affollate.
Devo dire che anche a un orso come me un po’ di “casino”, dopo tanti luoghi sperduti, ha fatto piacere!

E torniamo alla parte IT (mi scuso per l’abuso di parte off topic, ma credo che la destinazione insolita possa averla legittimata, sarò comunque più conciso con Auckland e Sydney).
Volo Jetstar JQ280 da Queensatown (ZQN per gli amici) verso Auckland, operato da A320 marche VH-VGR, consegnato nel 2010, e configurato a 180Y.
L’alternativa sulla rotta era costituita da Air New Zealand, e la scelta in questo caso è stata dettata esclusivamente dal fattore prezzo (quasi la metà).
La partenza era al momento della prenotazione fissata per la mattinata, ma Jetstar mi informa un mesetto prima della partenza che l’orario di decollo sarà invece alle 14.10 con arrivo ad AKL per le 15.55.
Meglio così.
L’aeroporto di Queenstown è posizionato al centro di una regione montuosa, ei rilievi sono veramente vicini alla pista.
Aerostazione, piccola e piuttosto anonima.
Zona check in Air New Zealand.
E area check in Jetstar.
Questo è quanto offre il convento!
Ecco il tabellone delle partenze.
Zona landside.
E la monotona fauna locale, con 737 NZ per AKL e frullino per Christchurch.
Jetstar in livrea speciale in partenza per Wellington.
E il nostro 320.
Al gate.
La configurazione, come dicevo, è a 180Y, ovvero quanto di più angusto possa esistere su di un 320, con una densità uguale a quella dei “comodissimi” I-WEBB e I-WEBA ex Volareweb.
L’aereo, complice la tenera età, è in condizioni perfette, e il personale a bordo è super friendly.
Volo a tappo.
E’ la prima volta che prendo un 32X con i motori IAE e da pax posso dire che in termini di confort mi hanno fatto una splendida impressione, nessun rumore simil frullino in fase di climbing e in generale ho riscontrato una maggiore silenziosità.
Volo senza nulla da evidenziare, purtroppo causa spesso strato di nubi non vediamo niente per tutto il volo, e dunque niente foto.
Rivista di bordo.
Nessun servizio se non a pagamento.
Sui voli verso l’Australia è anche possibile affittare un ipad.
Network.
Network domestico.
Atterriamo ad Auckland in perfetto orario, e dallo sblocco in un minuto esatto abbiamo in mano il bagaglio.
Il terminal 2 per i voli domestici è molto raccolto, e in un unico ambiente si trova praticamente tutto, compresi i nastri bagagli.
Scorgiamo a terra una bella schiera di bestioni, dei quali vi documenterò nel prosieguo del TR.
Per ora vi lascio, con questa bella targa che documenta l’amore della gente del posto per il mare e per tutto quello che sia ad esso connesso.