"Testa a testa Ryanair-Alitalia, Sabelli mantiene il primato su O’Leary per appena 100mila unità": questo il titolo con il quale il 29 gennaio scorso il Sole 24 Ore dava notizia del numero passeggeri trasportati dalle due compagnie nel 2010. Si tratta - come vedremo più avanti - di un raffronto improprio, ma utile a introdurre l’esame del doppio volto delle "basi" Ryanair in termini di marketing e di status giuridico. Proprio in questi giorni la stampa locale ha riferito che la Direzione Provinciale del Lavoro (DPL) di Pisa sta per inviare a Ryanair ingiunzioni di pagamento per oltre 1,2 milioni di euro per mancati pagamenti INPS e INAIL. La compagnia irlandese aveva presentato ricorso alla Direzione Regionale che però lo ha giudicato "irricevibile". La posta in gioco non è piccola.
L’importanza del mercato italiano
L’Italia è il fiore all’occhiello di Ryanair, alla quale assicura ben un quinto del traffico. Come dichiarato di recente dal vice a.d. Michael Cawley, l’Italia assicura il 19-20% del traffico arrivando a insidiare la supremazia del Regno Unito, il quale pesa intorno al 20%. Ma come si sa non c’è fiore senza spine, e per la compagnia irlandese anche il mercato Italia ha le sue. Possiamo ben dire che le contestazioni della DPL di Pisa al vettore di Dublino rappresentino davvero una pietra miliare nella sua storia aziendale, in quanto da molti anni ormai si avanzano dubbi e perplessità sul trattamento previdenziale e fiscale del personale di Ryanair.
Le low cost non hanno mai aperto uffici di rappresentanza o agenzie passeggeri nei paesi in cui operano, affidandosi alle proprie strutture centrali e gestendo i servizi in "outsourcing". Ma tradizionalmente non era così. Il mondo delle compagnie aeree seguiva regole chiare e inequivocabili: tutto il personale che lavorava in Italia alle dipendenze di un vettore straniero doveva essere a libro paga e assoggettato a contributi previdenziali italiani, con la sola eccezione del personale comandato "temporaneamente" e proveniente dalla casa madre. Si trattava di solito del rappresentante della compagnia, del capo contabile e dello Station Manager. Queste norme fra l’altro sono ancora valide oggi per quelle aerolinee (assai poche per la verità) che decidono di aprire uffici in Italia.
Quando le low cost, sfruttando abilmente le nuove norme del mercato unico europeo e la mobilità dei lavoratori, hanno iniziato a invadere i mercati le regole sono state rivoluzionate. La compagnia aerea, pur facendo scalo in un paese estero, non aveva affatto intenzione di aprire uffici di rappresentanza o di biglietteria, e quindi la necessità di reclutare personale locale era ridotta al minimo. Nasceva quindi la compagnia aerea che, contrariamente a prima, poteva far a meno del personale nei paesi da essa toccati: una rivoluzione resa possibile non solo dall’applicazione dei comandamenti al risparmio delle low cost ma anche grazie alla contemporanea diffusione delle vendite via telematica.
Ad aprile dell’anno 2002 Flight pubblicava una lettera il cui autore, dopo aver segnalato come in Irlanda vigesse un trattamento fiscale più favorevole alle aziende, chiudeva con un appello: «secondo me la Ryanair deve venir considerata una aerolinea britannica in quanto basata a Stansted, e le autorità britanniche dovrebbero intervenire sull’argomento.»
Sebbene scritta in tempi remoti, la lettera sottolineava l’esistenza di un problema enorme, lo stesso che è stato poi sollevato in Francia e che in questi ultimi mesi sta venendo alla luce anche in Italia. È indubbio che se un vettore aereo, come d’altra parte ogni società operante in qualsivoglia settore, scoprisse il sistema per operare in Italia senza disporre di una "stabile organizzazione" , tale società sarebbe tranquillamente esentata dal dover versare i contributi previdenziali e assicurativi.
È cosa nota e risaputa che in Irlanda vigono regimi fiscali e contributivi (oneri sociali) fra i più bassi d’Europa. Un vettore aereo che nella sua principale base di armamento, dove risiede il più alto numero di dipendenti, deve confrontarsi con contributi inferiori rispetto a quanto pagato dai concorrenti, ha indubbiamente una marcia in più. In altre parole una low cost basata in un Paese considerato sotto molti aspetti un paradiso fiscale, ha vantaggi che altri non hanno.
Va ricordato che nello scorso novembre quando scoppiò la bolla finanziaria irlandese, non pochi paesi europei avanzarono la richiesta che, a fronte degli aiuti economici da concedere a Dublino, si pretendesse un innalzamento delle tasse. Si sperava finalmente di far cessare questa "anomalia" fiscale europea che vedeva un’impresa pagare in Irlanda 12,5 centesimi su ogni euro di profitto, contro i 34 della Francia, i 30 della Germania e i 40 in Italia. La richiesta la dice lunga su quanto malumore vi fosse in Europa per i vantaggi fiscali di cui godono le società impiantate in Irlanda. (Per inciso val la pena ricordare che nel febbraio del 2001 anche Alitalia annunciò la creazione di una controllata irlandese, della quale poi non si sentì però più parlare.)
La nascita delle basi
Quanto fin qui ricordato può essere considerato la prima fase della disamina del problema. Il cambiamento fondamentale avviene nel momento in cui Ryanair mette in atto la sua idea di creare delle vere e proprie basi operative all’estero, la prima delle quali risale al 2001 ed è quella di Bruxelles-Charleroi, seguita nel 2002 da Francoforte-Hahn, per poi proseguire senza sosta fino ad arrivare alle attuali oltre 40 basi.
Dal punto di vista delle operazioni aeronautiche quella della base all’estero era una assoluta novità. Fino a quel momento le aerolinee tradizionali al massimo avevano l’equipaggio che stazionava in una destinazione straniera fra un volo e l’altro, ma non certo con un congruo numero di aerei fissi posizionati sulla base prescelta. Una vera e propria rivoluzione nel campo del trasporto aereo.
È stato proprio a seguito di questa innovazione che hanno iniziato a nascere i primi contenziosi fiscali ed amministrativi con le autorità locali più esigenti, come quelle francesi . Sulle indagini Ryanair ha sempre adottato la politica di uno stretto riserbo, ma nell’ottobre 2010 la compagnia annunciò che a gennaio 2011 avrebbe chiuso la base di Marsiglia, forte di quattro velivoli, pur di non assoggettare alla normativa francese il proprio personale su questa "base".
Basi, leggi e tasse
Il cuore della faccenda come si vede, si trova nella nozione di "base" e dal rapporto che questa viene ad assumere rispetto al termine fiscale e previdenziale di "stabile organizzazione". In altre parole: una "base" operativa Ryanair può essere assimilata alla "stabile organizzazione" giuridica?
A questa domanda non si può certo rispondere mettendo avanti i posti di lavoro a rischio, o che verrebbero comunque persi, nell’ipotesi che la base venisse eliminata. (Nel caso di Marsiglia è stato detto che, a prescindere dalle perdite di traffico aeroportuale, erano a rischio un migliaio di posti.) Lasciando da parte gli aspetti operativi, legati ad alcuni vantaggi concessi alle compagnie "basate" su uno scalo (per esempio in termini di sforamento delle fasce orarie, come nel caso di Ciampino), la risposta deve evidentemente essere ricercata nelle normative fiscali e previdenziali nazionali, sulle quali si può per sommi capi riassumere quanto segue.
Per quanto riguarda il fisco, in base alla convenzione internazionale tra Italia e Irlanda contro le doppie imposizioni (firmata a Dublino l’11 giugno 1971 e ratificata con legge 9 ottobre 1974, n. 583) per gli utili derivanti dal trasporto aereo internazionale la tassazione è prevista in Irlanda; l’eventuale tassazione in Italia potrebbe riguardare soltanto gli utili derivanti dal traffico aereo nazionale. Per giungere alla determinazione dell’utile effettivo, si dovrebbero però considerare non solo i ricavi relativi al traffico domestico ma anche tutti i cosiddetti "costi di direzione" che hanno contribuito a generare quel ricavo specifico. Includendo in questo conteggio l’imputazione pro quota del costo carburante, del costo aeromobile, eccetera, o ricorrendo alla "maritime formula" non è detto che alla fine Ryanair non riesca a dimostrare di non aver nulla da pagare al fisco italiano.
Per quanta riguarda il personale e l’aspetto previdenziale, è prassi normale che il personale straniero comandato temporaneamente in Italia da una compagnia aerea possa non venir immediatamente iscritto a libro paga italiano (e quindi non versare i contributi relativi), ma condizione imprescindibile di ciò è il fattore temporale per il quale fra l’altro non esiste termine certo e assoluto. Qui la questione è più spinosa e richiede di entrare nel merito dei singoli contratti, perché un caso è quello del personale navigante "straniero", presente in Italia solo per breve tempo (una sola rotazione, come nel modello classico), altro quello di italiani assunti all’estero per lavorare appunto all’estero (magari a Stansted), ed altro quello di italiani assunti con vincolo di base in Italia. Appare chiaro che se il caso Pisa scaturisse solo e soltanto da personale di volo la cui caratteristica principale è quella di una continua "movimentazione" , Ryanair potrebbe uscire vittoriosa dal contenzioso, mentre se si trattasse della terza ipotesi gli esiti potrebbero essere ben diversi.
In entrambi i casi il condizionale è d’obbligo. Quello che si può concludere sin d’ora è che quando a chiusura di ogni anno la compagnia di O’Leary annuncia risultati stupefacenti accompagnati all’immancabile specchietto in cui le proprie tariffe medie vendute sono le più basse rispetto a quelle degli altri concorrenti, disponiamo ora di una chiave di lettura in più per comprenderne l’origine.
Torniamo infine alla notizia del sorpasso di Alitalia su Ryanair. Ci sono molti modi di misurare il traffico di una compagnia aerea, ma l’importante è usare grandezze omogenee. Ebbene, il dato Alitalia si riferiva a tutti i suoi passeggeri trasportati sul suo intero network (peraltro incentrato sull’Italia), mentre quello di Ryanair si riferiva al solo traffico da/per gli aeroporti italiani. La differenza non è di poco conto: i 23,4 milioni di passeggeri Alitalia del 2010 dovrebbero essere raffrontati con gli oltre 70 milioni trasportati da Ryanair, compresi appunto i 23,3 sul mercato Italia.
L’importanza del mercato italiano
L’Italia è il fiore all’occhiello di Ryanair, alla quale assicura ben un quinto del traffico. Come dichiarato di recente dal vice a.d. Michael Cawley, l’Italia assicura il 19-20% del traffico arrivando a insidiare la supremazia del Regno Unito, il quale pesa intorno al 20%. Ma come si sa non c’è fiore senza spine, e per la compagnia irlandese anche il mercato Italia ha le sue. Possiamo ben dire che le contestazioni della DPL di Pisa al vettore di Dublino rappresentino davvero una pietra miliare nella sua storia aziendale, in quanto da molti anni ormai si avanzano dubbi e perplessità sul trattamento previdenziale e fiscale del personale di Ryanair.
Le low cost non hanno mai aperto uffici di rappresentanza o agenzie passeggeri nei paesi in cui operano, affidandosi alle proprie strutture centrali e gestendo i servizi in "outsourcing". Ma tradizionalmente non era così. Il mondo delle compagnie aeree seguiva regole chiare e inequivocabili: tutto il personale che lavorava in Italia alle dipendenze di un vettore straniero doveva essere a libro paga e assoggettato a contributi previdenziali italiani, con la sola eccezione del personale comandato "temporaneamente" e proveniente dalla casa madre. Si trattava di solito del rappresentante della compagnia, del capo contabile e dello Station Manager. Queste norme fra l’altro sono ancora valide oggi per quelle aerolinee (assai poche per la verità) che decidono di aprire uffici in Italia.
Quando le low cost, sfruttando abilmente le nuove norme del mercato unico europeo e la mobilità dei lavoratori, hanno iniziato a invadere i mercati le regole sono state rivoluzionate. La compagnia aerea, pur facendo scalo in un paese estero, non aveva affatto intenzione di aprire uffici di rappresentanza o di biglietteria, e quindi la necessità di reclutare personale locale era ridotta al minimo. Nasceva quindi la compagnia aerea che, contrariamente a prima, poteva far a meno del personale nei paesi da essa toccati: una rivoluzione resa possibile non solo dall’applicazione dei comandamenti al risparmio delle low cost ma anche grazie alla contemporanea diffusione delle vendite via telematica.
Ad aprile dell’anno 2002 Flight pubblicava una lettera il cui autore, dopo aver segnalato come in Irlanda vigesse un trattamento fiscale più favorevole alle aziende, chiudeva con un appello: «secondo me la Ryanair deve venir considerata una aerolinea britannica in quanto basata a Stansted, e le autorità britanniche dovrebbero intervenire sull’argomento.»
Sebbene scritta in tempi remoti, la lettera sottolineava l’esistenza di un problema enorme, lo stesso che è stato poi sollevato in Francia e che in questi ultimi mesi sta venendo alla luce anche in Italia. È indubbio che se un vettore aereo, come d’altra parte ogni società operante in qualsivoglia settore, scoprisse il sistema per operare in Italia senza disporre di una "stabile organizzazione" , tale società sarebbe tranquillamente esentata dal dover versare i contributi previdenziali e assicurativi.
È cosa nota e risaputa che in Irlanda vigono regimi fiscali e contributivi (oneri sociali) fra i più bassi d’Europa. Un vettore aereo che nella sua principale base di armamento, dove risiede il più alto numero di dipendenti, deve confrontarsi con contributi inferiori rispetto a quanto pagato dai concorrenti, ha indubbiamente una marcia in più. In altre parole una low cost basata in un Paese considerato sotto molti aspetti un paradiso fiscale, ha vantaggi che altri non hanno.
Va ricordato che nello scorso novembre quando scoppiò la bolla finanziaria irlandese, non pochi paesi europei avanzarono la richiesta che, a fronte degli aiuti economici da concedere a Dublino, si pretendesse un innalzamento delle tasse. Si sperava finalmente di far cessare questa "anomalia" fiscale europea che vedeva un’impresa pagare in Irlanda 12,5 centesimi su ogni euro di profitto, contro i 34 della Francia, i 30 della Germania e i 40 in Italia. La richiesta la dice lunga su quanto malumore vi fosse in Europa per i vantaggi fiscali di cui godono le società impiantate in Irlanda. (Per inciso val la pena ricordare che nel febbraio del 2001 anche Alitalia annunciò la creazione di una controllata irlandese, della quale poi non si sentì però più parlare.)
La nascita delle basi
Quanto fin qui ricordato può essere considerato la prima fase della disamina del problema. Il cambiamento fondamentale avviene nel momento in cui Ryanair mette in atto la sua idea di creare delle vere e proprie basi operative all’estero, la prima delle quali risale al 2001 ed è quella di Bruxelles-Charleroi, seguita nel 2002 da Francoforte-Hahn, per poi proseguire senza sosta fino ad arrivare alle attuali oltre 40 basi.
Dal punto di vista delle operazioni aeronautiche quella della base all’estero era una assoluta novità. Fino a quel momento le aerolinee tradizionali al massimo avevano l’equipaggio che stazionava in una destinazione straniera fra un volo e l’altro, ma non certo con un congruo numero di aerei fissi posizionati sulla base prescelta. Una vera e propria rivoluzione nel campo del trasporto aereo.
È stato proprio a seguito di questa innovazione che hanno iniziato a nascere i primi contenziosi fiscali ed amministrativi con le autorità locali più esigenti, come quelle francesi . Sulle indagini Ryanair ha sempre adottato la politica di uno stretto riserbo, ma nell’ottobre 2010 la compagnia annunciò che a gennaio 2011 avrebbe chiuso la base di Marsiglia, forte di quattro velivoli, pur di non assoggettare alla normativa francese il proprio personale su questa "base".
Basi, leggi e tasse
Il cuore della faccenda come si vede, si trova nella nozione di "base" e dal rapporto che questa viene ad assumere rispetto al termine fiscale e previdenziale di "stabile organizzazione". In altre parole: una "base" operativa Ryanair può essere assimilata alla "stabile organizzazione" giuridica?
A questa domanda non si può certo rispondere mettendo avanti i posti di lavoro a rischio, o che verrebbero comunque persi, nell’ipotesi che la base venisse eliminata. (Nel caso di Marsiglia è stato detto che, a prescindere dalle perdite di traffico aeroportuale, erano a rischio un migliaio di posti.) Lasciando da parte gli aspetti operativi, legati ad alcuni vantaggi concessi alle compagnie "basate" su uno scalo (per esempio in termini di sforamento delle fasce orarie, come nel caso di Ciampino), la risposta deve evidentemente essere ricercata nelle normative fiscali e previdenziali nazionali, sulle quali si può per sommi capi riassumere quanto segue.
Per quanto riguarda il fisco, in base alla convenzione internazionale tra Italia e Irlanda contro le doppie imposizioni (firmata a Dublino l’11 giugno 1971 e ratificata con legge 9 ottobre 1974, n. 583) per gli utili derivanti dal trasporto aereo internazionale la tassazione è prevista in Irlanda; l’eventuale tassazione in Italia potrebbe riguardare soltanto gli utili derivanti dal traffico aereo nazionale. Per giungere alla determinazione dell’utile effettivo, si dovrebbero però considerare non solo i ricavi relativi al traffico domestico ma anche tutti i cosiddetti "costi di direzione" che hanno contribuito a generare quel ricavo specifico. Includendo in questo conteggio l’imputazione pro quota del costo carburante, del costo aeromobile, eccetera, o ricorrendo alla "maritime formula" non è detto che alla fine Ryanair non riesca a dimostrare di non aver nulla da pagare al fisco italiano.
Per quanta riguarda il personale e l’aspetto previdenziale, è prassi normale che il personale straniero comandato temporaneamente in Italia da una compagnia aerea possa non venir immediatamente iscritto a libro paga italiano (e quindi non versare i contributi relativi), ma condizione imprescindibile di ciò è il fattore temporale per il quale fra l’altro non esiste termine certo e assoluto. Qui la questione è più spinosa e richiede di entrare nel merito dei singoli contratti, perché un caso è quello del personale navigante "straniero", presente in Italia solo per breve tempo (una sola rotazione, come nel modello classico), altro quello di italiani assunti all’estero per lavorare appunto all’estero (magari a Stansted), ed altro quello di italiani assunti con vincolo di base in Italia. Appare chiaro che se il caso Pisa scaturisse solo e soltanto da personale di volo la cui caratteristica principale è quella di una continua "movimentazione" , Ryanair potrebbe uscire vittoriosa dal contenzioso, mentre se si trattasse della terza ipotesi gli esiti potrebbero essere ben diversi.
In entrambi i casi il condizionale è d’obbligo. Quello che si può concludere sin d’ora è che quando a chiusura di ogni anno la compagnia di O’Leary annuncia risultati stupefacenti accompagnati all’immancabile specchietto in cui le proprie tariffe medie vendute sono le più basse rispetto a quelle degli altri concorrenti, disponiamo ora di una chiave di lettura in più per comprenderne l’origine.
Torniamo infine alla notizia del sorpasso di Alitalia su Ryanair. Ci sono molti modi di misurare il traffico di una compagnia aerea, ma l’importante è usare grandezze omogenee. Ebbene, il dato Alitalia si riferiva a tutti i suoi passeggeri trasportati sul suo intero network (peraltro incentrato sull’Italia), mentre quello di Ryanair si riferiva al solo traffico da/per gli aeroporti italiani. La differenza non è di poco conto: i 23,4 milioni di passeggeri Alitalia del 2010 dovrebbero essere raffrontati con gli oltre 70 milioni trasportati da Ryanair, compresi appunto i 23,3 sul mercato Italia.