Ugo Arrigo
martedì 23 settembre 2008
Con il ritiro dell'offerta da parte della società CAI, sembra accantonato
salvo sorprese ulteriori il piano Fenice di privatizzazione di Alitalia. Per
ragioni sia di metodo che di merito non mi sento di rimpiangerlo:
1. per ragioni di metodo: si trattava di una soluzione non di mercato ma di
Stato, concordata dalla politica con un gruppo di imprenditori, assemblati
da Banca Intesa, e che si è cercato di imporre a tutte le altre parti
(sindacati, lavoratori, consumatori, antitrust, commissario di Alitalia);
2. per ragioni di merito: il piano industriale proposto, pur noto solo nei
suoi dati essenziali, risultava di difficile realizzabilità e presentava
incoerenze tutt'altro che trascurabili.
Il piano Fenice era antitetico al mercato. Nel mercato, infatti, un bene (e
anche un'azienda) è venduto a chi è disponibile a pagarlo (in genere a chi è
disponibile a pagarlo di più). Nel caso Alitalia, invece, ad Air France che
era disponibile a pagare per acquisirne l'intera proprietà, accollandosi
tutti i debiti e assumendo l'80% dei dipendenti, è stato impedito di
comperarla. A CAI, invece, che non era disponibile a pagarla, è stato
"tagliato" un abito normativo su misura che le permettesse di acquistare à
la carte solo gli asset più interessanti, lasciando i debiti alla bad
company, e di farlo a trattativa privata, evitando quindi il confronto con
chi fosse disponibile a offrire di più.
Per quanto riguarda il piano, inoltre, esso imponeva ai contribuenti (che ne
avrebbero fatto volentieri a meno) di pagare per sette anni senza metter
piede sugli aerei l'80% dello stipendio a 3mila (ma forse anche 4 o 5mila)
dipendenti considerati in esubero per farli smettere di volare. E questo
quando vi sono invece diversi milioni di consumatori (24 nel 2007) disposti
su base volontaria a pagare almeno il 90% dello stipendio a tutti i
dipendenti purché siano in grado di farli viaggiare in aereo alle tariffe
abituali (non propriamente da vettore low cost). Questa disponibilità a
pagare noi economisti la chiamiamo "domanda".
Con la rinuncia di CAI a costruire una new company con gli asset migliori di
Alitalia, l'altra compagnia, quella dei contribuenti, è un pò meno bad e il
mercato si è preso una bella rivincita bloccando sedici strani imprenditori,
che dovremmo chiamare "imprenditori di Stato" e rispetto ai quali erano
senz'altro più trasparenti le vecchie partecipazioni statali degli anni
'70-'80. Per farlo si è avvalso di sei sindacati dei quali tutto si può dire
tranne che del mercato siano amici; ci sembra un bel contrappasso, una
rivincita del mercato sullo Stato in un periodo nel quale il primo non se la
passa notoriamente troppo bene. Infatti, se Alitalia fallirà, come non
speriamo, sarà una soluzione di mercato e se Alitalia sarà finalmente
venduta prima del fallimento a chi forse è ancora disponibile a pagare per
averla, sarà un'altra soluzione di mercato e molto meno traumatica della
precedente.
Perché è fallita la trattativa
La trattativa è fallita per l'eccessiva penalizzazione, non giustificata da
un punto di vista di strategia industriale, che il piano CAI avrebbe voluto
imporre al fattore lavoro in termini di minore occupazione e minori livelli
retributivi. Air France secondo il piano del marzo scorso avrebbe ridotto le
attività di Alitalia di circa il 22% (nel 2008 rispetto al 2006), ma con
l'orario estivo 2007, entrato in vigore a inizio aprile, Alitalia ha già
realizzato autonomamente una riduzione dell'offerta del 16%. Il piano CAI
riduceva invece del 44% (il doppio di Air France) l'insieme di Alitalia e
AirOne, in realtà assorbendo il 100% degli aerei di AirOne e solo il 40% di
quelli di Alitalia.
Non sono notoriamente tenero con i sindacati e ne ho criticato in molte
occasione il ruolo improprio di azionisti di fatto delle aziende pubbliche
che perdura nella totalità di esse ed è permesso dalla latitanza della
politica. In questa occasione sarei stato d'accordo se CAI avesse detto:
«Signori, non c'è posto per tutti e i costi industriali di Alitalia per
posto km offerto sono troppo elevati rispetto alla disponibilità a pagare
dei consumatori; è quindi necessario risparmiare il 30% del costo del
personale (ad esempio attraverso: dipendenti -16% e salari pro capite
-16%)». Invece è stato detto: «Signori, poiché useremo solo 137 aerei
rispetto ai 243 delle due compagnie (perché anche se i passeggeri ci
sarebbero non abbiamo abbastanza soldi per far volare più aerei) allora
nella CAI c'è posto solo per il 60% dei piloti (e degli altri lavoratori) e
ad essi daremo solo il 70% della remunerazione precedente (in questo modo
risparmiando a spese dei lavoratori ben il 58% della precedente massa
salariale)».
Le frasi in parentesi non sono state ovviamente esplicitate ma non occorreva
essere dei falchi per desumerle. Poiché neanche O'Leary di Ryanair avrebbe
preteso tanto, non mi stupisce che i sei sindacati abbiano detto no alla
proposta, evitando a noi consumatori il primo caso al mondo di una compagnia
low cost e high fares (a basso costo, bassa concorrenza ma alte tariffe).
Colaninno si è opposto ai sindacati con finalità almeno in parte rilevante
non condivisibili: far ricadere sul personale il fatto che la cordata ha
messo a disposizione troppo pochi soldi rispetto a quelli necessari
(servirebbero infatti almeno 2,5 miliardi per rilanciare la compagnia). I
sindacati si sono opposti per ragioni, almeno in questo caso, condivisibili.
I numeri incoerenti del piano industriale
A differenza di Veltroni che ha detto di avere stima nell'imprenditore
Colaninno, a mio avviso un bravo imprenditore dovrebbe essere in grado di
predisporre piani d'impresa ineccepibili, a maggior ragione se implicano
oneri per la finanza pubblica. Il piano CAI, invece, che non risulta essere
stato valutato da advisor indipendenti prima che il governo se ne facesse
garante in maniera acritica verso i media e l'opinione pubblica, presenta
numeri chiave contradditori e di impossibile realizzazione.
Il piano prevede infatti una consistente riduzione degli aerei utilizzati
dalla nuova compagnia: 137 nel primo anno di attività, destinati a salire
poco sopra i 150 negli anni successivi, a fronte di oltre 240 impiegati
complessivamente da Alitalia e AirOne nel 2007. La riduzione è consistente e
supera il 40%, così come quella del personale (da 21.500 occupati
complessivi delle due aziende a 12.500 dipendenti della nuova compagnia più
1.500-2.000 esternalizzazioni). A fronte di una diminuzione così elevata nei
fattori produttivi, il fatturato e i passeggeri trasportati si ridurrebbero
invece, secondo i numeri indicati dal piano, in misura trascurabile: il
fatturato previsto nel primo anno di attività è indicato dai media in 4,3
miliardi di euro (destinati a crescere negli anni successivi sino a 5,2
miliardi) mentre il dato aggregato di Alitalia e AirOne era nel 2007 di 4,9
miliardi; inoltre, a fronte dei 31,5 milioni di passeggeri totali di
Alitalia e AirOne nel 2007, trasportati da oltre 240 velivoli, ve ne
sarebbero ora, sempre secondo i media, 28 milioni nel primo anno trasportati
da appena 137 aerei.
La mia stima, come ho già avuto occasione di scrivere in un precedente
contributo, è che con soli 137 aerei non si possano superare i 22 milioni di
passeggeri anno (pur incorporando una crescita notevole del load factor) e
anche qualora tutti gli aerei viaggiassero sempre con tutti i sedili
occupati non si potrebbero superare i 26-27 milioni (visto che non si
possono trasportare persone in piedi, nella stiva o sulle ali). Infatti nel
2007 i due vettori hanno complessivamente offerto 44 milioni di posti,
corrispondenti a 181 mila posti annui per velivolo. Di questi 44 milioni di
posti 31,5 sono stati venduti e i rimanenti hanno viaggiato vuoti. Nel 2009
se i 137 aerei previsti offriranno ancora 181 mila posti annui ciascuno, CAI
arriverebbe ad un'offerta totale annua di 24,8 milioni di posti. È possibile
che ogni aereo offra più posti all'anno solo compiendo più voli; ipotizzando
ottimisticamente un 10% di voli in più si arriverebbe a 27,3 milioni di
posti sui quali non si possono tuttavia sedere 28 milioni di persone. Da qui
la mia previsione di 22 milioni di passeggeri, corrispondenti ad un tasso di
occupazione dei posti di poco superiore all'80%.
Ma 22 milioni di passeggeri non possono garantire 4,3 miliardi di ricavi se
non attraverso un incremento delle tariffe superiore al 20% e un tale
incremento non è realizzabile se non eliminando totalmente la concorrenza
dal mercato. Inoltre 22 milioni di passeggeri implicano che altri 9,5
milioni di viaggiatori pur essendo disponibili a pagare tariffe non da
vettore low cost non troveranno posto a bordo delle nuova compagnia.
Cosa bisogna fare per uscire dall'attuale impasse
Per uscire dall'attuale vicolo cieco sono necessarie a mio avviso le
seguenti azioni:
1. In primo luogo la richiesta pubblica da parte della gestione
commissariale di Alitalia a manifestare interesse per l'acquisto
dell'azienda o di sue singole attività. Questa azione è stata avviata solo
nella giornata di ieri, dopo oltre tre settimane dalla nomina del
Commissario. In maniera corretta avrebbe invece dovuto essere emanata già ai
primi di settembre, in modo da verificare la possibilità di offerte più
favorevoli rispetto a quella di Cai.
2. Rivedere profondamente il piano industriale, cancellando la riduzione
dimensionale del vettore. Una compagnia in ritirata, non in grado di
presidiare il mercato, non potrà avere alcun successo. È già stato un errore
grave sia la riduzione permanente di attività dopo il 2001 sia quella
realizzata ad aprile scorso e non è il caso di insistere in questa
direzione. A mio avviso, inoltre, il Commissario ha precisi compiti in tema
di elaborazione di un piano di ristrutturazione e non può delegare il
medesimo in via esclusiva ai possibili acquirenti.
3. Creare le premesse affinché i dipendenti possano sottoscrivere azioni di
una nuova società destinata ad acquisire Alitalia. I dipendenti potrebbero
pervenire ad una sottoscrizione di un centinaio di milioni di euro e
destinare all'iniziativa anche il fondo per il trattamento di fine rapporto,
avvicinandosi in tal modo ai 300 milioni complessivi. L'annuncio di ieri da
parte dei sindacati autonomi dei piloti e assistenti di volo copre
pienamente questa esigenza.
4. A condizione che la nuova azienda non riduca ulteriormente l'attività
rispetto ai livelli attuali, i dipendenti dovrebbero accettare ex ante
rispetto a qualsiasi manifestazione esterna di interesse una riduzione
salariale annua a parità di lavoro attorno al 15% (Di più di tale
percentuale per i piloti, di meno per gli altri dipendenti). Nella giornata
di ieri i sindacati autonomi hanno manifestato disponibilità verso i
possibili acquirenti ad accettare il contratto di un grande vettore europeo
con la parte economica ridotta del 30%. Ritengo che questa formulazione sia
sostanzialmente equivalente alla mia proposta.
5. Questi impegni dei dipendenti dovrebbero essere in grado di segnalare ai
possibili investitori esteri che Alitalia sarà gestibile nei prossimi anni
dal punto di vista delle relazioni industriali. L'arrivo di un partner
straniero, inevitabile nel medio periodo se si considera la rapida
ricomposizione dei cieli europei (in pochi mesi annuncio di fusione tra
British e Iberia, acquisto di Brussels da parte di Lufthansa e messa in
vendita di Austrian) , a sua volta è una condizione ormai indispensabile
anche a breve per convincere i consumatori che Alitalia volerà anche nelle
prossime settimane e mesi e indurli in conseguenza a riprendere le
prenotazioni e a far riaffluire ricavi.
Nella sua azione il Commissario deve saper valorizzare gli asset pregiati
della compagnia i quali sono essenzialmente due: i passeggeri (24 milioni di
clienti nel 2007, disposti complessivamente a spendere oltre 4 miliardi di
euro l'anno) e gli slot (circa 500 diritti di decollo e atterraggio al
giorno in aeroporti italiani e altri 150 nei principali aeroporti europei e
di altri continenti). Su 4 miliardi di euro di ricavi una buona compagnia
europea dovrebbe essere in grado di realizzare un Ebit tra i 200 e i 400
milioni, cifre tali da poter dire che il gioco dell'inserirsi nel mercato,
rilevando il principale operatore nazionale, vale la candela.
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