[TR] Sulla strada.


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26 Aprile 2012
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[TR] Sulla strada. [FINITO]

Premessa

Prima di iniziare, una dovuta premessa. Questo TR è indubbiamente dedicato a Dreamliner, e non perché lui sia in possesso di qualcosa (portafogli, miglia, autoradio, famigliari) di mia proprietà e io stia cercando di riprendermeli; piuttosto, l'intera idea di questo viaggio è stata sua ed è giusto che glielo si riconosca. Che poi abbia deciso di mollare la preda per andare a farsi i selfie a Varadero, Cap Cana o Acapulco è un dettaglio e, si spera, una parentesi momentanea, ma non gliene vogliamo male per questo, no di certo; Sokol è un po’ come Mick Jagger, cui perdoni tutto, pure quella monnezza degli album solisti.

Dicevo però del viaggio e mi rendo conto di non aver ancora detto di cosa si tratti. In soldoni c'è una strada, ottimisticamente chiamata highway, che collega Osh in Kyrgyzstan a Khorogh in Tajikistan (e, volendo, Dushanbe). Si tratta della seconda strada al mondo per elevazione, con passi sopra i 4.000 metri e un'altitudine media di 3.800 per più di metà del percorso. Una strada di cui, fino all'arrivo di un messaggio di Sokol su Facebook, ero al corrente ma che reputavo impossibile da fare.

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1. L'andata.

Sia come sia, Dreamliner pianta il seme e, pur decidendo di preferire l'all inclusive agli homestay e i giorni senza doccia, il suo esempio rimane. Per mesi mi metto di buzzo buono, elaboro un piano, compro i biglietti e convinco un amico ad unirsi alla spedizione. Comunque sia, vado avanti veloce, fino al sabato 27 maggio in cui dovrei andare, da Londra, a Milano per il matrimonio di un amico, per poi partire da lì per Istanbul.

Se non fosse che BA ha idee diverse.

La storia della débâcle IT di BA é già coperta ad nauseam dall'apposito thread, e vi risparmio un copia&incolla. Fattostà che, sabato, torno a casa sporco, sudato e onestamente incazzato con chi sta buttando una compagnia, come dice Londonfog, "to the dogs". Eccovi giusto due fotazze, fatte col pautafonino, mentre - avendo perso tre voli, e oramai sicuro di non farcela per il quarto - decido di andare a casa. Assieme ad altre 20.000 persone che, in barba alle partenze intelligenti, hanno avuto tutte la stessa idea.


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Parto il giorno dopo, con Alitalia, riprotezione fatta da me medesimo alla modica cifra di 180 euri che, per un volo preso il giorno prima, non è male. Il matrimonio è perduto, ma almeno il viaggio è salvo.

Il Terminal 4 è stato rinnovato pesantemente e non è più la ciofeca di una volta. Hanno persino incrementato le vetrate, cosa positiva finché non vedo quanti aerei BA sono parcheggiati ovunque. Non si vedevano scene del genere dal vulcano islandese. È mattina presto, ma mi risale il Vallanzasca.


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Torno su Alitalia dopo due anni dall'ultimo volo, per Rio, ed è quasi confortante trovare che gli stessi problemi sono ancora lì. Ancora una volta ci sono quattro persone con lo stesso sedile sulla carta d'imbarco, ancora una volta l'handler - Azzurra - non ha la più pallida idea di cosa fare. A bordo, comunque, si risolve tutto e partiamo con una quarantina di minuti di ritardo. L'equipaggio è molto solerte, le uniformi francamente inguardabili, gli interni invece non sono per niente male, in foto sembravano una carnevalata ma in carne ed ossa - vabbé, in pelle e Tedlar - hanno il loro perché.


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Del servizio di bordo si sa, o almeno sapevano tutti tranne il sottoscritto: acqua, Coca-cola e biscotti. Chiedo un caffè e l'assistente di volo, con un sorriso amaro, mi dice che non ce l'ha.

Atterro a Linate alle 10 circa e, dopo un importantissimo meeting con una colonna portante del forum e dell'aviazione civile del Nord Italia, corro a Malpensa da cui parte il volo TK per Istanbul.

Di Turkish s’è detto tutto, per cui non mi dilungo molto. Il volo è tranquillo e, in piccionaia, l'A321 ha parecchi posti liberi; in più, ad un non meglio precisato momento durante il volo, appare anche l'IFE. Il menù in economy non cambia da quando Fatih Terim allenava l'Inter, e la qualità dei köfte è declinata col tempo, ma chiedere l'ayran come bevanda mi rende l'idolo dei miei vicini di posto, una nidiata di ottuagenari turchi di ritorno da una crociera MSC.


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Arriviamo ad Atatürk in orario, e purtroppo non c'è modo di uscire in città; una birra al baretto è il massimo che ci si può permettere, poi è il momento di volare su Bishkek.


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Francamente, se non fosse stato per il prezzo e gli orari convenienti, non avrei volato con Turkish, malgrado l'IFE e il baretto del gate 208 con la Efes da 0.75 a prezzi politici. Perché? Perché i red-eyes, amici e vicini, non li sanno fare. Ne ho fatti un po' di voli da IST per il Caucaso e l'Asia centrale, e non puoi avere un volo notturno di cinque ore e tenere le luci accese per tre. L'han capito pure su Ukraine International: quando parti dopo le 22 e arrivi alle 5 vuoi dormire o riposare, non vuoi stare sveglio perché mamma TK deve darti il giro di bevande, köfte o pasta dottò, lu café e poi il duty free. Ma almeno è un 737 Sky interiors, anche se la differenza di larghezza tra la fusoliera di un 737 e quella di un 320 si fa sentire.


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Sia come sia, dopo un altro pasto infimo (seriamente, che è successo?) il volo procede tranquillo a luci accesissime. All'improvviso, dramma. Perché non sarebbe un volo per l'Asia centrale senza un po' di casino, no?

Insomma, una signora kirghisa ha portato a bordo - di nascosto, mi dice il mio solerte vicino che è li pronto a fare portineria - un cucciolo di cane che, ovviamente, ha pensato bene di far uscire dal suo nascondiglio per fare due passi e, ça va sans dire, i bisogni sulla moquette del corridoio.

Gli AAVV devono vederne di cotte e di crude sui 737 mid-haul, e risolvono la faccenda in men che non si dica. Passata l’emozione ci rendiamo conto che manca davvero poco per l'atterraggio, cui segue un taxiing infinito prima di attraccare all'unico jetbridge del Manas international. Ma siccome non c'è tre senza quattro, abbiamo ancora un volo da fare, per Osh.

L'unico volo acquistabile on-line per Osh è su tale Air Manas, che rintracciamo non senza qualche difficoltà in un angolo del terminal, probabilmente usato in precedenza come ripostiglio per le scope. Abbiamo già carte d'imbarco e posti assegnati, ma veniamo comunque mandati ai banchi per farci ri-stampare e timbrare le carte. Nel frattempo veniamo a conoscenza dell'usanza kirghisa in base alla quale chi ha un bambino piccolo, o un anziano, a seguito può saltare la fila. Siccome a non avere né l'uno né l'altro siamo in tre, siamo tra gli ultimissimi a passare i controlli e ad accedere alla zona sterile per i voli nazionali.

Non ho memorie del volo con Air Manas, se non della delusione di scoprire che l'aereo altro non è se non un 737 Pegasus e di una bellissima assistente di volo – tratti asiatici, occhi verdazzurri – di fronte alla quale do sfoggio dello stile italiano, addormentandomi nella maniera più priva di dignità possibile per un uomo.

Osh si presenta con infrastrutture di un certo livello. Le osserviamo rapiti fino a quando non siamo intercettati da una signora, un tipino minuto con borsa di juta e quel cardigan che la madre superiora delle Rosminiane teneva fino al 20 di giugno, che parla un italiano pressoché perfetto, al punto da sapere la battuta di Totò militare a Cuneo.

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Il donnino ci prende per mano e, con urla alla Waffen SS, si apre una strada tra bagarini, tassisti abusivi e perdigiorno fino al suo autobus, che dirotta fino ad un deposito di taxi in cui ci passa in consegna a uno con una faccia da galera che, assicuratosi che non siamo americani, ci porta in un amen all’ostello, ci dice dove trovare la birra Baltika e se ne va in una nuvola di gas di scarico. Il tutto per un dollaro. Questa è l’Asia Centrale che mi piace, completamente a random ma comunque funzionante. Raccogliamo i nostri sacchi ed entriamo in ostello; fuori ci sono 30 gradi e il sole, per citare Giovannino Guareschi, picchia martellate in testa alla gente.



…Continua.
 
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2. Osh

Uno dei miei piani – naufragato, che ve lo dico a fare – per quest’estate era di visitare il Kyrgyzstan, ma non la valle di Ferghana, dove sorge Osh. E invece eccomi qui, il viaggio nel nord-est del paese riposto nel cassetto, nel pezzo di paese che non intendevo visitare.

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Osh, in questa porzione di Asia Centrale, ha una certa, diciamo, reputazione. A differenza del resto del paese, questa è una zona che guarda all’Uzbekistan più che a Biškek, e gli uzbeki sono una fetta considerevole della popolazione, specie quella urbana. Popolo sofisticato, cittadino, quello uzbeko; più campagnoli i kirghisi, e meno ricchi. I primi in città, a mercanteggiare; i secondi nei kolkhoz, a lavorare la terra: una divisione abilmente creata dai padroni sovietici, che stava in piedi fintantoché l’economia andava bene; col crollo dell’URSS, ecco i pogrom. Giugno 1990, con polizia e soldati locali a dividersi sulle linee etniche anziché controllare la folla, al punto che Gorbaciov dovette mandare l’Armata Rossa. Nel frattempo, in 1000 ci rimisero le penne. Tutto tranquillo fino al 2010, quando a Biškek una rivolta non depone Kurmanbek Bakiyev, il primo ministro. Ad Osh la notizia viene letta come un buon modo per regolare i conti: bande di kirghisi attaccano gli uzbeki, con scene da assedio di Genghis Khan. Mezzo milione di uzbeki ripara in Uzbekistan e, per quando finisce il bailamme, ci sono diverse centinaia di morti in mezzo alle vie.

A passeggiare per le vie, però, si direbbe che la cosa più grave mai successa a questa città sia stata l’arrivo di Adidas, il cui logo tappezza auto, negozi e persone. Intendiamoci, il posto non è né bello né affascinante, ma ha un che di interessante, se non altro per via dell’enorme bazaar che occupa il cuore della città.


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Per chi è affascinato dalle reliquie dell’Unione Sovietica (e io lo sono, non tanto per motivi ideologici ma per puro e semplice interesse per come si stava “al di là” della Cortina), beh, Osh è un posto che dà soddisfazioni. In un cortile del centro, per esempio, si vede ancora – ed in perfetto stato – la mascotte delle Olimpiadi di Mosca del 1980, che per inciso potrebbe andare benissimo in un film horror:


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E giusto a fianco c’è un murale commemorativo di un qualche anniversario di Aeroflot, il cui logo, però, è stato rovinato da qualcuno che ha installato un condizionatore e quindi ve lo risparmio.


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Nel parco principale, oltre alla ruota panoramica arrubbata da Pripyat, c’è pure un aereo dell’Aeroflot. La rampa posteriore, alla MD80 per intenderci, è tenuta chiusa con tre pezzi di fil di ferro a gancio, e un pezzetto di cavo elettrico, perché la sicurezza è tutto da queste parti.

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Infine, camminando per quelle che sembrano ore lungo Leninskaya, arriviamo a vedere lui, il più grande Lenin di tutta l’Asia centrale. In altri posti, Biškek inclusa, le statue di Lenin sono state tirate giù all’indomani dell’implosione dell’URSS, come raccontava benissimo Terzani, mentre qui è rimasta, e non si può nemmeno dire che sia stata una dimenticanza dato che questa è la piazza delle cerimonie per l’anniversario della vittoria. A confermare che i kirghisi non siano rimasti fedeli seguaci del Soviet, però, c’è l’enorme pennone piazzato esattamente di fronte a Vladimir, da cui sventola una bandiera kirghisa gigantesca. Un po’ come a dire ”C’hai collettivizzato le terre, distrutta la cultura nomadica, cambiato il nome della capitale con quello del tizio che c’ha battuto, ma alla fine abbiamo vinto noi”. La vendetta, si sa, è un piatto che va servito freddo.


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Continua…
 
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Bell'inizio. Il tuo stile mi e' sempre piaciuto

Ciao Silvano, grazie per il commento! :)

Promette di essere un altro dei tuoi capolavori, l'incipit è da oscar

Dici che basta a farmi riavere l'autoradio dall'albanoitalosvizzerocanadese?

Prima parte eccezionale! Ti seguo con piacere

Inviato dal King Kamehameha Club

Grazie :)

Ottimo inizio Fabri!

Grazie D!

Applausi.

Magari, le foto un filo più grandi...

DaV

Ciao Dave, purtroppo le foto in aereo le ho fatte col pautafonino, per cui se sono più grandi di 3 pixel per 3 vengono uno schifo. Quelle nel secondo post vanno bene come dimensioni? Quelle della highway vera e propria le metto più larghe, nessun problema.
 
Inizio di TR godibilissimo, come sempre. Non ho mai messo piede in Asia centrale e ho già voglia di partire!

E giusto a fianco c’è un murale commemorativo di un qualche anniversario di Aeroflot, il cui logo, però, è stato rovinato da qualcuno che ha installato un condizionatore e quindi ve lo risparmio.


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Questa foto mi ha incuriosito parecchio: ho cercato ovunque, ma non ho trovato alcun riferimento ad eventi particolari avvenuti in quelle date... poi ho letto la scritta "ТЕЛ." ("TEL.") prima delle cifre: secondo me erano i numeri di telefono dell'ufficio Aeroflot a Osh, che probabilmente non esiste più.
 
La lingua principale qual'è ? Il russo o il kirghiso che se non sbaglio sarebbe una lingua turcofona! Il visto si fa all'arrivo in APT?
 
Inizio spettacolare. Attendo con ansia resto.

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13900,

That's fascinating, ta.

Appartengo alla cerchia di coloro che non sono mai stati da quelle parti ma con particolare interesse alle stesse e seguirò pertanto il prosieguo.

G
 
Grande inizio. Non vedo l'ora di leggere il seguito: l'Asia Centrale e' una regione che non mi ha mai attirato. Vediamo se cambio idea!
 
Da simulazione fatte vedo che la biglietteria di Air Manas è gestita dalla turca Pegasus capisco perchè gli aerei sono ex Pegasus!
 
Bellissimo inizio!
Posso dirti per la mia esperienza dell'inizio degli anni '90, che “al di là” della Cortina si sognava l'occidente e la libertà. Ma con grande dignità!
Fermatevi e fatevi raccontare in loco le storie di quei tempi. Tornerete a casa diversi ed arricchiti.
 
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Inizio di TR godibilissimo, come sempre. Non ho mai messo piede in Asia centrale e ho già voglia di partire!

Questa foto mi ha incuriosito parecchio: ho cercato ovunque, ma non ho trovato alcun riferimento ad eventi particolari avvenuti in quelle date... poi ho letto la scritta "ТЕЛ." ("TEL.") prima delle cifre: secondo me erano i numeri di telefono dell'ufficio Aeroflot a Osh, che probabilmente non esiste più.

Venexiano, hai risolto un enigma che - seriamente - ci ha tenuto occupati per un po', grazie! Certo che mettere il numero di telefono in una città in cui telefoni privati non ce n'erano... Vabbè.

La lingua principale qual'è ? Il russo o il kirghiso che se non sbaglio sarebbe una lingua turcofona! Il visto si fa all'arrivo in APT?

Bella domanda. Il russo è parlato da tutti ma come seconda lingua, ci dicevano in Tajikistan che è insegnato come lingua straniera (le lezioni si fanno in lingua locale). A Osh la lingua che si sentiva più di frequente era l'uzbeko, col kirghiso secondo a poca distanza; entrambe sono turcofone. Fuori città, quasi 100% kirghiso. Al di là del confine, nel Gorno-Badakhshan, il kirghiso è abbastanza comune (in tutte le yurt troverai un kirghiso), ma il tajiko è la lingua principale, ed è un dialetto del farsi, un po' come il dari nella zona di Herat in Afghanistan. Inglese abbastanza non pervenuto.

Inizio spettacolare. Attendo con ansia resto.

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Grazie!

13900,

That's fascinating, ta.

Appartengo alla cerchia di coloro che non sono mai stati da quelle parti ma con particolare interesse alle stesse e seguirò pertanto il prosieguo.

G

E' una zona che merita!

Grande inizio. Non vedo l'ora di leggere il seguito: l'Asia Centrale e' una regione che non mi ha mai attirato. Vediamo se cambio idea!

Ciao Console, di sicuro quanto a surf sono messi maluccio, ma tutto il resto è bellissimo.

Da simulazione fatte vedo che la biglietteria di Air Manas è gestita dalla turca Pegasus capisco perchè gli aerei sono ex Pegasus!

Si, un po' una delusione :(

Bellissimo inizio!
Posso dirti per la mia esperienza dell'inizio degli anni '90, che “al di là” della Cortina si sognava l'occidente e la libertà. Ma con grande dignità!
Fermatevi e fatevi raccontare le storie di quei tempi. Tornerete a casa diversi ed arricchiti.

Purtroppo son già tornato dove le Bentley regnano sovrane.
 
Bravo Fabbbri, veramente un bel TR! Sei il degno erede del canadese che ormai passa le sue vacanze nei resort all inclusive ai caraibi :D

Nel parco principale, oltre alla ruota panoramica arrubbata da Pripyat, c’è pure un aereo dell’Aeroflot. La rampa posteriore, alla MD80 per intenderci, è tenuta chiusa con tre pezzi di fil di ferro a gancio, e un pezzetto di cavo elettrico, perché la sicurezza è tutto da queste parti.

Giusto per curiosità, non c'era un bar all'interno? Un giro sulla ruota potevi anche farlo però
 
3. La prima tappa: Osh-Sary Tash-Karakul-Murghab

Quando avevo 13 anni dissi a mia nonna Carola che volevo fare il liceo scientifico presso l’ITIS della mia città, alla cui notizia lei rispose ”T’anteresa nen la ragiuneria?’. Svegliandomi a Osh il giorno fatale capisco che la nonna, buon’anima, aveva ragione e avrei dovuto fare il ragioniere, come Fantozzi. Perché, dopo tre settimane di sole sul Pamir, il giorno che dobbiamo partire piove.

Prendiamo la cosa bene, maledicendo Giove pluvio e varie altre divinità, e ci prepariamo alla partenza. Ma, prima di iniziare col viaggio in sé, permettetemi un breve excursus, che potremmo intitolare ”Come fare la Pamir Highway’.

Supponendo che vogliate fare la Pamir Highway, in che modo potreste soddisfare questo vostro desiderio? Beh, in tre modi, principalmente. Il primo (metodo i), chiamiamolo così), è di farvela a piedi. Particolarmente indicato se avete un mesetto a disposizione, e se siete dei duri. Il secondo (ii))- sempre per duri, ma con meno tempo a disposizione – è quello di farvela in bici. Richiede due/tre settimane, a seconda del livello di preparazione, ed è particolarmente indicato se siete belgi (su 10 ciclisti incontrati, 6 erano coppie di belgi fiamminghi. I valloni rimangono probabilmente a casa). L’ultimo, iii), se siete dei bari, è di farla in auto e se siete doppiamente bari, la farete con auto e autista. Indovinate quale sarà il nostro.

A nostra parziale discolpa per questo borghesissimo modo di viaggiare in quello che, non dimentichiamolo, è dirimpetto al retroterra spirituale degli hippy va la mancanza di tempo. Tutti gli altri viaggiatori sono in giro da settimane, se non mesi, e vi rimarranno altrettanto a lungo; gli unici stronzi con lavori, impegni e mutui – maledetti mutui – siamo noi due. La cosa assumerà contorni farseschi a Dušanbe dove, ad una tavolata di europei, il nostro oste tajiko sottolineerà come, su nove persone – tedeschi, olandesi, un inglese, belgi, noi – gli unici ad essere membri produttivi della società fossero gl’italiani, ma vado troppo oltre.

Il nostro autista (oddio, suono veramente come uno di quegli esploratori vittoriani) è già fuori dalla porta alle 7.30 quando l’appuntamento è alle 8.00 e siccome non siamo dei cafoni lo invitiamo dentro a farsi due chiacchere. Kudaibergen, questo il suo nome, si rivela essere una persona d’oro. Etnia kirghisa, nato in Tajikistan, più giovane di noi di qualche anno, orgogliosissimo della sua Toyota Land Cruiser annata 2003 proveniente dal Canada; se mai vorrete andare nei Pamir ho l’uomo per voi.

La città dura poco, e siamo quasi subito in mezzo alle colline. I pascoli sono verdi, i fiumi scavano canyon profondi nel terreno morbido dei declivi, subito appaiono le prime colonne di pecore, capre, cavalli e mucche. Questa zona è kirghisa al 110%, come dimostrano le prime yurt. Farei bene a puntualizzare che il mio compagno di viaggio, che potremmo chiamare M, di mestiere fa il fotografo, per cui è arrivato con tutto un armamentario di arnesi marchiati Canon, dallo scopo oscuro e l’aria parecchio costosa, e di tanto in tanto si scaraventa fuori dalla Land Cruiser (ferma o meno non ha importanza) per immortalare qualcosa.


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È ad una di queste soste che Kudaibergen ed io iniziamo a fare due chiacchere. Siamo fermi sotto la pioggia, lui a riparare un pezzettino del tergicristallo, io a prendermi l’acqua, quando mi indica un vedere un monumento, una yurt stilizzata di fronte alla quale sta seduto, nella posizione del loto, un vegliardo. Alla mia ovvia domanda (”Cazz’è quello lì?’) Kudaibergen risponde che si tratta di Almanbet, capo dei basmachi della zona. Sapere chi sono mi garantisce il suo rispetto perenne, credo.

I basmachi, o basmacci per i figli della lupa, erano i guerrieri anti-russi che, soprattutto all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, diedero filo da torcere ai colonialisti russi. In Tajikistan la loro storia sarà talmente epica da garantirsi un blockbuster holliwoodiano, ma anche qui non furono da meno. Nella migliore delle tradizioni bravehartiane, però, persero – cruciale fu l’arrivo del genio militare di Mikhail Frunze – entrando nel pantheon di questa giovane nazione che, tolti loro, può solo vantare figure molto più antiche e fumose, come il mitologico Manas.


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Arriviamo, sotto la pioggia, all’ultimo centro abitato degno di questo nome prima del confine, Sary Tash. Ci sono montagne all’orizzonte (nelle giornate buone si dovrebbe vedere il Pyk Lenin, uno dei 3 7.000 del Pamir), ma oggi l’impressione è di essere nella sterminata taiga siberiana. Ci fermiamo per pranzo in una casa ottimisticamente marchiata “Hotel”, dove Kudaibergen ordina manty – delle specie di dumpling – tè nero e pane per tutti. A tavola ci parla un po' di sé. Con un mezzo sorriso, un po’ imbarazzato, Kudai ci racconta una storia fatta di decisioni difficili e di difficoltà che mi fanno sentire un privilegiato, cosa che in effetti sono. Ex assistente di cinese all’università di Biškek, emigra in Russia per due anni a fare il cameriere, ma ritorna prima del previsto. Non ci sentiamo di chiedere di più dopo che la risposta, alla domanda su come si stava in Russia, era un ”I didn’t fit in” accompagnata col gesto di un pugno. Il pensiero vola alle tante notizie, lette e sentite, sul trattamento degli immigrati in Russia e ci scambiamo un silenzio imbarazzato. La discussione passa sul presente, sulla sua carriera nel turismo, e sull’inglese che, ci dice, sta studiando da sole 6 settimane. Una persona notevole.


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Appena fuori Sary Tash, c’è un bivio. A destra la strada – in condizioni accettabili – prosegue in Kyrgyzstan, verso zone remote del paese. A sinistra, invece, si va verso il Tajikistan e, immediatamente, il manto stradale peggiora. ”It’s worse in Tajikistan” ci dice Kudaibergen, e non gli crediamo. Faremmo meglio a farlo, invece. Nel frattempo il termometro della sua macchina indica i 30F, che se non erro corrispondono allo zero, e ovviamente inizia a nevicare. È il 30 di maggio.


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Il pezzo di strada fino al confine è un degno antipasto di quello che sarà la strada successivamente, e anche con la visibilità ai limiti è un posto incredibilmente scenografico. Attraversiamo il confine kirghiso a 4200 metri, passando i controlli effettuati da soldati simpatici e con un buon inglese, e poi entriamo nella terra di nessuno. La strada sale fino ai 4255 metri, e Kudai si guadagna veramente la pagnotta; inforca gli occhiali da sole, inserisce le ridotte e via, nella nebbia che fila fitta a cinque metri dal cofano e la strada, posto che mai ci sia stata, scomparsa sotto la neve.


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Se il posto di confine tajiko è indicativo di come sarà il resto del paese (e lo è fino ad un certo punto) allora sarà veramente un paese interessante. Il primo controllo è dai doganieri, che vivono in un prefabbricato in cui tutte le finestre sono sostituite da pezzi di compensato. I doganieri – o almeno crediamo che lo siano, dato che qui sono tutti in tuta Adidas, ciabatte, piumino mimetico e AK47 – ci chiedono di portare due loro compagni a Karakul e un altro a Murghab. Siccome loro hanno i nostri passaporti la risposta non può essere altro che “certo”.

Assieme ai nostri nuovi amici, che si lanciano con entusiasmo in una gara di scoregge, andiamo al controllo successivo, stavolta delle guardie di frontiera, o almeno crediamo. Questi, se possibile, sono ancor meno marziali dei doganieri. In una baracca piazzata in cima a cinque gradini, già coperti da venti cm di neve, stanno tre uomini e una stufa a legna del tipo che aveva il mio bisnonno, se non fosse che è alimentata a torte di vacca secche. In Kyrgyzstan c’erano computer, scanner per le impronte e telecamere; qui c’è un tavolaccio con un registro, sopra al quale sta un Kalashnikov. Il capo della banda, pure lui nell’irrinunciabile tuta Adidas, sposta il pezzo per arrivare al registro e, sovrappensiero, fa per allungarmelo. Mi schiarisco la voce, lui si ferma col Kalashnikov in mano, ci ripensa e ci fa che possiamo aspettare in auto. Meglio così, capo.

La strada, in Tajikistan, diventa spettacolare. Costeggiamo la cosiddetta ”Neutrality zone’, il confine tra Tajikistan e Repubblica Popolare Cinese. Non succederà, ma se mai Trump passasse di qui andrebbe in brodo di giuggiole perché qui, amici e vicini, c’è il muro:

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Costruito dopo lunghe negoziazioni (la Cina, in virtù di una vittoria del 1769, rivendicava in pratica l’intero Gorno-Badakhshan, è già un buon indicatore di chi comanda da queste parti; come ci dice Kudaibergen, infatti, il muro (una serie di tralicci sormontati da filo spinato, con altro filo spinato in mezzo) sorge a una media di 14 – 16, lo correggono i soldati – km dal confine, all’interno del territorio tajiko. ”China” dice uno dei due soldati seduti dietro, prima di flettere il bicipite. Eppure Theresa May dice che ci farà un accordo commerciale equo, mi vien da pensare.

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La geopolitica viene interrotta da due avvenimenti: primo, il passaggio di due camion in convoglio, i primi mezzi da Sary Tash; secondo, l’apparizione di acqua. Siamo a Karakul.

Karakul, 3900 metri, il lago navigabile più alto del mondo, è anche il nome di un villaggio sulla sua riva nord-est. Lasciamo due dei marmittoni qui, e andiamo a vedere il lago. L’atmosfera è lugubre, il vento ci scaraventa addosso manate di sabbia e il lago è agitato al punto che il sale schiumeggia. Secondo alcuni l’isola che sorge in mezzo al lago, un tempo, ospitava un campo d’internamento per prigionieri di guerra tedeschi, qualcosa che Memorial, l’ONG russa che si occupa di questi argomenti, non conferma. A me sembra un buon posto per una prigione.


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Ripartiamo e, appena fuori città, vediamo i primi ciclisti della stagione. Dopo di loro, incocceremo solo un’auto per le 4 ore successive fino a Murghab.


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Queste 4 ore saranno anche le mie preferite. Passiamo lungo il famoso Pamir Gap, la confluenza tra le valli che portano all’Afghanistan, Tajikistan, Turkestan cinese, Kyrgyzstan e, soprattutto, Kashmir da cui gli inglesi temevano che potesse arrivare un’invasione cosacca dell’India. Mi tornano in mente le pagine del libro di Peter Hopkirk, The Great Game. Non troppo lontano da qui, per esempio, passò T.E. Gordon, e Mirza Pundit, il primo degli indiani mandati in missione segreta di esplorazione. A una giornata di cammino da qui Francis Younghusband si svegliò una mattina, in una zona che credeva deserta e soggetta al controllo degli afghani, ed ebbe la sorpresa di trovarsi venti cosacchi davanti al campo. Ecco, se mai avessi avuto l’intenzione di vivere nel passato, mi sarebbe piaciuto essere uno di questi ufficiali dell’Indian Army che, apparentemente, potevano prendersi un anno di ”shooting leave” senza problemi. Divago, eccovi le foto.


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Ci fermiamo poco prima di Murghab per rimboccare l’aria delle gomme, e ne approfitto per allontanarmi un secondo. Ecco un video, fatto col pautafonino. Se ho un rimpianto, è di non aver continuato verso Est, verso quella valle che porta in Cina e in Pakistan.



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Riprendiamo la marcia, ed ecco il varco per Murghab.

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Un dust devil ci insegue, mentre entriamo in quella che sarà la città più strana ed affascinante che ho visto in tutta la Highway.

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Continua in settimana… spero.
 
Spettacolo F. - avanti col resto.
Curiosita', hai sofferto mal di montagna? Io a 4/4,5k ho scoperto di soffrire.