[TR] Della Repubblica Democratica Socialista dello Sri Lanka, e di come arrivarci.


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Sono tempi duri per il triperportismo su Aviazione Civile. Il Gazza dei tripreportisti è ormai in vacanza permanente (le ultime lo davano in qualche resort all inclusive di Varadero, vestito di lino e dedito al fumo di sigari Havana), mentre la conclusione del viaggio polare di Dancrane è talmente dispersa che, in confronto, cosa accadde alla spedizione artica di John Franklin del 1845 è dominio pubblico. Il settore è in ginocchio, puntellato da pochi valorosi tipo I-DAVE, ma non temete: eccomi qui, pronto a dare al tripreportismo la finale rivoltellata nella nuca. Ma andiamo con ordine.

Siccome sono paraculo, vi propino un po’ di disclaimer e una promessa elettorale: il TR è lungo, ma pure tanto, perché tanto c’è da dire e da riportare. Secondo, non posso esimermi dal lanciare un po’ di bolemmiga sul mio amato-odiato datore di lavoro; se non v’interessa, quando vi trovate l’hashtag #BAchetistaifacendo saltate il capoverso a piè pari. Terzo, siccome la volta scorsa la GoPro non era piaciuta a nessuno, eccola che ritorna . La promessa elettorale è che questo TR verrà finito prima di quello di Dancrane.

Iniziamo.

Non è stato un periodo facile, quello da settembre ad oggi. Al di là dei soliti problemi lavorativi, l’intera sede centrale è alle prese con un periodo di tagli che oramai tutti chiamano culling, che è il verbo albionico adoperato quando si parla dell’eliminazione di animali divenuti infestanti, tipo i conigli o i cinghiali. La faccio breve, che le cose brutte interessano a nessuno; dopo cinque mesi in cui sono andato a più feste d’addio che cene di piacere, non vedo l’ora di cambiare aria per un po’.

La destinazione, Sri Lanka, è stata scelta per caso, guardando ai voli con più spazio a disposizione tra una lista di luoghi tropicali o semi-tali. L’itinerario è volutamente tranquillo, scansando le città più grandi e concentrato sul centro-sud del paese: Colombo, Galle, Mirissa, Udawalawe, Nuwara Eliya e, infine, Negombo. Per quanto riguarda l’IT di questo report, ossia gli avioni, l’itinerario è ugualmente semplice: LHR-DOH-CMB e ritorno, con le due tratte lunghe su BA, e il DOH-CMB affidato a Qatar Airways e Sri Lankan.

Andata: dove BA delude, e dove QR fa il minimo sindacale
Partire a tarda sera di un giorno feriale è un po’ una fregatura. Hai tempo, ma qualcosa, nel tuo subconscio, continua a ricordarti che hai un impegno, e finisce che passi la giornata a guardare l’orologio. Alla fine, due ore prima del volo, siamo al Terminal 5 dove, mi rendo conto con sdegno, qualche anima candida di Heathrow Airport Limited ha trovato un nuovo modo di fare soldi con la pubblicità, appendendola alla volta, rovinando così il colpo d’occhio.


Andiamo da Wagamama per una cena pre-volo, e m’imbatto nel foglietto che vi ripropongo qui sotto. Wagamama – e così anche Gordon Ramsay’s Plane Food, Itsu e altri – ha sempre fatto take-away, ma la pubblicità è apparsa solo da quando BA ha introdotto il buy onboard sul corto raggio. #BAchetistaifacendo…


Annunciano il gate, ed è al C, per cui si va con quello che l’aeroporto chiama TTS, acronimo per Track-transit system e tutti gli altri “trenino”. E qui, signori miei, ecco un altro #BAchetistaifacendo, per la precisione queste poracciate di stickers che qualche fenomeno ha deciso di appiccicare sui vetri e sulle porte del TTS, rimpiazzando i precedenti messaggi che datavano dall’inizio delle operazioni al T5.


Ora, BA ha cambiato partner di marketing, da Ogilvy & Mather a un’altra azienda, che non cito per pudore e perché proprio non me la ricordo. Ogilvy è quella della pubblicità The Aviators, che quando l’hanno svelata all’auditorium di Waterside non c’era un occhio asciutto a contarlo e tutti avevano il petto gonfio, il groppo in gola e la voce strozzata. E ora c’abbiamo questi qui, che oltre a questa meraviglia (già spelacchiata, notare che ”at” è andato disperso) hanno riempito pure Gatwick di immondizia, guardare qui per credere.

Sia come sia, arriviamo all’aereo – altra delusione, a sbrigarsi il BA123 di oggi è G-VIID, di solito questo volo è operato dai 772 (non –ER), che ancora mi mancano – e imbarchiamo. I posti sono i soliti, 10F/G, dato che, con grande sorpresa dei bookies, 8200 ancora non m’ha dato il benservito. L’intrattenimento di bordo è con i Thales, che mi piaceva molto finché non ho avuto modo di provare il Panasonic eX3 montato sui 747 retrofittati; però, chicca delle chicche, nella categoria folk c’è lo splendido Cold Fact di Rodriguez. Rodriguez, sciampagn e lie-flat: non può andare meglio di così.


Menu. Decido di saltare a piè pari la cena, puntando alla colazione. Avevo vaghe memorie di voli da e per Dubai, in cui la cena era uno spuntino, e il vero pasto era la colazione, col servizio conosciuto come “Goodnight express”.





Dormo per cinque ore, e al risveglio capisco che non ho capito una bega, e che il “Goodnight express” esiste, ma sui voli dal Medio Oriente verso Londra, quelli che partono tardi, verso mezzanotte. La colazione, infatti, è la più patetica che abbia mai mangiato su BA (eccolo, un altro #BAchetistaifacendo!).. Il menu parla di “frutta fresca”, e quella che arriva è una minuscola selezione di pezzi di legno acerbi conditi con una salsina di mango presentata in un elegantissimo dosimetro da detersivo, più una vaschetta colma di una squisita miscela di ossigeno, azoto, anidride carbonica (e, mi sa, anche un po’ di metano). Aria, nzomma.




Mangio ciò che passa per “frutta fresca”, e poi arriva un assistente di volo – ah, menzione per loro, sono stati molto bravi – con un cesto e l’aria più imbarazzata che ho visto dai tempi delle conferenze stampa di TEPCO all’indomani della fusione a Fukushima. ”May I offer you a… (pomo d’Adamo che va su e giù) …erm, a pesto Danish pastry?” mi dice l’uomo, prima di offrirmi un triangolo di tre cm di ipotenusa, della consistenza del cartone, che sapeva di pesto e funghi quanto la mia coscia destra una volta cotta alla piastra. Non so immaginarmi come ci si debba sentire a dover servire quest’immondizia a 48 passeggeri che hanno pagato duemila sterline a cranio. Mr Cruz dice che l’anno prossimo verranno investiti 400 milioni su Club. Speriamo che trovino anche una sterlina per comprare un panino al bacon da Greggs.



Scendiamo parecchio delusi e, personalmente, preoccupato per lo stato delle cose. Certo, il sole è alto, i conti bene in ordine e gli aerei pieni; ma per quanto? Come diceva George W Bush, c’è un detto in Tennessee (o Texas?) “Fool me once…”. E non tutti sono boccaloni come W.

Siamo a Doha, aeroporto noto e stranoto, e quindi mi limito ad includere solo qualche foto. Personalmente trovo che Hamad Int’l mangi in testa a DXB, e usi AUH come straccio per i pavimenti, malgrado i colori un po’ troppo bui. In più s’è anche dotato di uno splendido trenino automatico che fa molto futurismo, e che gli fa perdonare – ma solo per poco, eh – quella specie di faro per bimbiminkia che è l’orsetto con la lampada in testa.












Ci fermiamo a prendere un caffè e fuori c’è lui, India Delta. Guardiamo il pilota fare il suo bravo walkaround, controllando che tutto sia come deve essere. Guardo ancora una volta la coda BA, sola in mezzo a una marea di orici. Dai, nonostante tutto ti voglio ancora bene.


M’ero ripromesso di non volare più QR, ma tariffe basse su staff travel, l’Airbus A340-600 e i tanti posti liberi mi fanno cambiare idea. Saliamo a bordo per il secondo volo della giornata: il ferro, che ero solito vedere su LHR fino a qualche anno fa, è oramai sulla via del pensionamento (”We don’t fly crap airplanes”, diceva non troppo tempo fa quel capolavoro di understatement e rispetto della safety di Akbar Al Baker), ma su qualsiasi altra compagnia sarebbe un aereo di punta. Anche l’IFE è di livello, se si ignorano le obbligatorie pubblicità prima di qualsiasi programma, l’irritante safety briefing coi calciatori del Barcellona – ripetuto due volte, in inglese e arabo – la preghiera e lo spot sul turismo in Qatar. Voglio dire, c’è “Die Hard”.


Due cose sono rimaste inalterate dalle mie esperienze pregresse con QR. Il cibo, nonostante una presentazione molto carina, è scialbo – ci sono tre cubetti di pollo, e il curry non ha pepe – e il crew è come al solito mediocre. Quanto erano bravi, proattivi e ciarlieri quelli su BA, tanto questi sono svogliati, afoni e con un inglese onestamente non all’altezza. Prendi ad esempio quella che ritengo sia la capocabina di economy, con la divisa scura. Non un sorriso, e alla domanda su cosa sia il piatto vegetariano risponde, senza nemmeno guardare, ”It’s rice and I don’t remember what else. You want it or not?”. Cinque stelle, ah si.








Il volo procede sciolto, in un’atmosfera di esaltata ignoranza. Davanti a me parte la sfida Cechia-Russia a russate; alla mia sinistra il signore seduto al finestrino si trova sotto assedio da parte di nudi piedi mitteleuropei. Dopo quattro ore, sulle ali di una cacofonia di suonerie di telefono, ci allineiamo e atterriamo al Bandaranaike International, dove ci attende uno sbarco dai remoti – cosa che mi piace sempre molto – e l’aeroporto più strano che mi sia capitato di vedere da un po’ di tempo a questa parte, in cui il duty free offre alcol, profumi e… lavatrici, frigoriferi ed elettrodomestici vari.










Nelle prossime puntate: cronache da un’isola meravigliosa, una piacevole scoperta – Sri Lankan – e la redenzione di BA. Più un pacco qatariota. Ma ora, pubblicità!
 

londonfog

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Saro' uno dei pochi, ma viste le schifezze che passava il convento sul corto raggio i panini di Marks and Spencer sono forse meglio. Le colazioni in J sono diaboliche, quando parto da Londra oramai faccio colazione in lounge (e ti dico tutto!)

#stopensandodipassareastaralliance
 

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Saro' uno dei pochi, ma viste le schifezze che passava il convento sul corto raggio i panini di Marks and Spencer sono forse meglio. Le colazioni in J sono diaboliche, quando parto da Londra oramai faccio colazione in lounge (e ti dico tutto!)

#stopensandodipassareastaralliance
Fallo. Onestamente, finche' la gente non votera' coi propri piedi e non passera' ad altri vettori, nulla cambiera'.
 

dreamliner

Il Gascoigne dei Tripreportisti
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Victoria BC
Caro coso! Ti xe rimasto tanto indrio con Varadero, desso l'omo xe sempre su quelle acque ma a Puerto Aventuras nel paese visin. I TR come il mestiere, la casa etc bisogna lasciarle ai giovani. Se loro fa viaggi a NYC e Mia non xe colpa mia. Tanto di capeo al mitico Danusa per il salto di qualità e per essere ultimo dei Mohicans su queste pagine
 
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flyboy

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Grande inizio!
La lavatrice al duty free è il top.
Il piede che sporge invece è purtroppo frequente, e non solo in barbon class.

Mi spiace proprio per BA: servire a colazione una torta salata pesto e funghi è davvero strano. Il muffin però sembrava buono :D
 

I-DAVE

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a Taiwan, nel cuore e nella mente
Comprare un minipimer al duty free di CMB è diventato il mio nuovo sogno.

Bell'inizio scoppiettante, come sempre. Shame on you per due cose 1) la GoPro 2) per esserti perso la toffee apple & pecan pie, che non so come sia ma sembra smaccheramellosa (cit.).

Com'è il 346?

Lo Sri Lanka era una delle papabili mete, sono molto curioso di vedere l'OT.

DaV
 

aless

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12 Settembre 2006
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Figo, vai! L'isola di Ceylon, patria delle serendipity, dove spero di riuscire ad andare presto. Una volta mi sfuggì una EF per una questione di minuti.
 

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OT: nella Repubblica Democratica Socialista dello Sri Lanka

Sono arrivato in Sri Lanka senza sapere molto del paese, se non qualche nozione sul suo recente – e travagliato – passato, e senza troppe aspettative. Forse è per questo, quindi, che sono rimasto così favorevolmente impressionato da quest’isola a forma di lacrima che se ne sta sotto al triangolone dell’India, spesso dimenticata per via del suo ingombrante vicino. Se non avete voglia di spipparvi tutto l’OT e vi interessano solo gli aerei, la faccio breve: se volete andare in Sri Lanka, fatelo. Ci troverete una natura splendida, un popolo ospitale, cibo interessante e, se vi piace, un sacco di tè.

Il nostro itinerario, come dicevo, è stato Colombo-Galle-Mirissa-Udawalawe-Nuwara Eliya-Negombo, come si vede nella mappa qui sotto. Non mi metterò a fare un report dettagliato, giorno per giorno, del viaggio, ma mi limiterò a scrivere qualche nota e a postare un po’ di foto, spero piacciano. [auto-referenzialismo]Se volete leggere un po’ di più sullo Sri Lanka, e non vi spiace farlo in inglese, cliccate qui in un paio di settimane[/auto-referenzialismo].


Colombo-Galle Fort
Galle, pronunciato gaw, è la nostra prima tappa e, se devo essere sincero, quella che più mi interessa. Un forte sul mare, già noto – si narra – a Re Salomone, citato da Ibn Battuta nel XIV secolo, visitata dall’ammiraglio Zheng He nel secondo viaggio della sua grande flotta, prima che i cinesi decidessero di chiudersi in eremitaggio. Le tracce di questo passato sono molto fievoli, limitate a una stele in cinese, tamil e cingalese – esposta a Colombo – e alla folta comunità di Sri Lankan Moor. La realtà è che Galle Fort ha un’impronta europea, plasmata da quei popoli – portoghesi, olandesi e inglesi – che lanciarono quell’epoca delle esplorazioni che ci ha fatto uscire dal Medioevo.

Primi, infatti, furono i portoghesi, ma del loro dominio rimane poco. Furono gli olandesi della Vereenigde Oost-Indische Compagnie, o VOC per gli amici, a costruire il forte; il suo logo permane ancora sull’architrave di uno dei due ingressi alla città.




Nel corso dei secoli questa rivoluzionaria compagnia, una delle primissime SpA del mondo, installò un forte, un ospedale e un’intera cittadina di splendide chiese, case e ville in quest’avamposto sulla rotta delle spezie. Gli inglesi arrivarono dopo un secolo e mezzo, nel 1796, e non cambiarono granché. Ancor oggi si può respirare l’aria del tempo che fu, guardando per esempio la lavagna – da tanto tempo vuota – delle navi presso l’ufficio dei Lloyd’s, oppure camminando nell’antico ospedale.



















Ma prima di tutto permettetemi una piccola digressione, ché devo parlare dei treni. No, non sono un trainspotter (né un plane spotter), ma è innegabile che il treno sia uno dei modi migliori di visitare questo paese. Estremamente poco costosi, scenici, tutto sommato affidabili (su quattro corse effettuate, per un totale di 12 ore, abbiamo accumulato solo 20 minuti di ritardo, alla faccia di Southern), i treni cingalesi sono anche un tuffo nel passato, con le loro stazioni con il personale vestito di bianco, gli orari scritti sulle lavagne e le porte aperte da cui far ciondolare i piedi, che tanto la velocità massima è quella del pensionato nel parcheggio dell’Eurospin.







La Southern Line ci conduce verso Galle. Attraversiamo le periferie di Colombo, con la sua distesa di slums, e poi entriamo nella campagna cingalese. Da un lato il mare, dall’altro palme, alberi, fiori tropicali e piccoli villaggi. Lo scenario è idilliaco, se si escludono gli occasionali cumuli di rifiuti cui viene dato periodicamente fuoco, ma non posso non menzionare ciò che accadde al Treno 50, Matara Express, giorno di Santo Stefano 2004.

Il 26 dicembre 2004, come tutti ricordiamo, uno tsunami stravolge l’Oceano Indiano. Un quarto di milione di morti, danni incalcolabili colpiscono quel pezzo di mondo che va dall’Indonesia alla Somalia, passando per Thailandia, Birmania, Bangladesh, India e Sri Lanka. La costa orientale del paese, dove incidentalmente è anche in corso una guerra civile – perché la sfiga, sappiamo, ci vede sempre benissimo – è martoriata, ma la forza dello tsunami è tale che pure i litorali meridionali e occidentali, teoricamente dal lato opposto rispetto all’epicentro, vengono colpite. Le onde saranno così forti, per dirne una, da entrare nella rada di Galle, scaraventare i pescherecci nell’interno della città e distruggere lo stadio del cricket. A Peraliya, un centinaio di km a nord di Galle, c’è il treno numero 50, pieno fino all’inverosimile. E’ Natale, è il weekend del Full Moon buddhista, la sfiga ci vede sempre benissimo.

Le ferrovie cingalesi riescono a bloccare tutti i treni sulla linea. Non il Matara Express. Ad Ambalangoda, dove ne avrebbero avuto l’opportunità, tutto il personale della stazione è sul binario, ad aiutare la partenza, e il telefono squilla a vuoto. Il treno 50 parte, e a Peraliya si trova a poche centinaia di metri dal litorale.

La prima onda sorpassa la linea della costa, e lambisce il treno. I passeggeri, cui si aggiungono anche alcuni abitanti del villaggio, si radunano intorno al treno; c’è chi sale sul tetto, chi rimane a bordo, chi si mette dietro. Alla fin fine è un treno, no? E’ grosso, pesante, alto. Meglio lì che nelle capanne di legno, no?

Purtroppo no. Le altre ondate, che arrivano in rapida successione, sono alte almeno nove metri, due o tre metri in più della carrozza più alta. Il Matara Express viene lavato via come un giocattolo; la locomotiva, un affare da 109 tonnellate di peso costruito in Canada, verrà trovata cento metri oltre i binari. Il numero dei morti è tutt’ora ignoto, ma si stima sia tra i 1700 e i 2000. Ci vollero giorni affinché il treno fosse ritrovato e i soccorsi mobilitati. Non ho precisamente idea di dove si trovi Peraliya, ma mentre passiamo su quel pezzo di tracciato è difficile non pensare a quel giorno, così come è impossibile non notare i nuovi muri e frangiflutti eretti ovunque lungo la costa.

Dicevo però di Galle. L’atmosfera è simile a quella che si trova a Vercelli a giugno, solo peggio. C’è vento solo sui contrafforti occidentali del forte, dove le alunne della scuola buddhista vicino a casa nostra – le vedremo pregare il mattino dopo – sono fuori a giocare con gli aquiloni. Al tramonto, gli studenti della madrasa escono per una lezione di astronomia, mentre turisti e amici si godono il breve ma splendido spettacolo del sole che scende dietro l’orizzonte (o della Terra che ruota intorno al proprio asse se siete pignoli).







...Continua!
 
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ormai il top del planefood che si mangia a partire da Londra sul corto e' la scatoletta vegaorganic di U2 ... tutto dire
Vegache? Piuttosto digiuno.

Caro coso! Ti xe rimasto tanto indrio con Varadero, desso l'omo xe sempre su quelle acque ma a Puerto Aventuras nel paese visin. I TR come il mestiere, la casa etc bisogna lasciarle ai giovani. Se loro fa viaggi a NYC e Mia non xe colpa mia. Tanto di capeo al mitico Danusa per il salto di qualità e per essere ultimo dei Mohicans su queste pagine
Queste tue parole mi fanno quasi male quanto l'aver saputo dell'iscrizione a CL di Bertinotti. Moriremo tutti borghesi, moriremo tutti democristi.

Grande inizio!
La lavatrice al duty free è il top.
Il piede che sporge invece è purtroppo frequente, e non solo in barbon class.

Mi spiace proprio per BA: servire a colazione una torta salata pesto e funghi è davvero strano. Il muffin però sembrava buono :D
Ciao flybo'. Tranquillo per il pesto e i funghi, non si sentiva. Era come mangiare il cartone della confezione dei corn flakes. Il muffin era peggio di quello che propinano alla mensa del Terminal 3, secco e privo di gusto. Al ritorno le cose sono migliorate, però, e per fortuna.

Comprare un minipimer al duty free di CMB è diventato il mio nuovo sogno.

Bell'inizio scoppiettante, come sempre. Shame on you per due cose 1) la GoPro 2) per esserti perso la toffee apple & pecan pie, che non so come sia ma sembra smaccheramellosa (cit.).

Com'è il 346?

Lo Sri Lanka era una delle papabili mete, sono molto curioso di vedere l'OT.

DaV
E non solo minipimer! Ventilatori frigoriferi tostapane condizionatori lavatrici lavastoviglie e forni! Più TV color e uno scooter Garelli in omaggio!

Se devo essere sincero, non sono uno da dolce, soprattutto non sono uno da toffee, o da salted caramel, o caramel ebbasta, o fudge... Insomma, sono proprio nel paese sbagliato.

Il 340-600 era meno asmatico del 343, ma le turbolenze - soprattutto per noi in piccionaia - si sentivano di più.

Dalla foto sembra che più che sporgere si appoggia direttamente al poggiagomiti di quello davanti. Roba da morsi negli alluci!!
Bravo! Dal sedile dietro a quello davanti in una comoda mossa. Onestamente il peggio della cafonaggine l'abbiamo visto solo con i turisti occidentali, compreso il fenomeno che ha messo la tavola da surf sulla cappelliera del treno, per poi piazzare le sue tre straca**o di valigie tutt'intorno, sostanzialmente occupando meta' carrozza con le sue cose.

Figo, vai! L'isola di Ceylon, patria delle serendipity, dove spero di riuscire ad andare presto. Una volta mi sfuggì una EF per una questione di minuti.
Iniziato! Tra l'altro, fun fact: Serendib e' il nome della lounge di Sri Lankan all'aeroporto Bandar...quellochee'. Non so come sia dentro, ovviamente, perché io sono barbone, ma quella era l'insegna.
 

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Mirissa-Udawalawe: balene, elefanti e The Suicide Club
A est di Galle inizia la Riviera cingalese. Unawatuna e Weligama sono due postacci, intasati di resort dai gusti dubbi, con spiagge invase dall’immondizia e da chioschi che offrono happy hour e gamberi a 50 pence la manata. Oltre Matare le spiagge sono pulite e deserte; tra Weligama e Matara sta Mirissa, che è la giusta via di mezzo tra antropizzazione e natura.




]










Spiaggiarmi su un arenile, girandomi regolarmente come San Lorenzo sulla graticola, è un’attività che mi può piacere per un periodo misurabile solo da quegli orologi atomici che usano al CERN. Con grande intelligenza – o almeno così mi sembrava al momento – organizzo due attività che possano piacere a 8200 e che mi tengano lontano dalla spiaggia. Una sarà un successo, mentre l’altra… beh, vedrete.

Iniziamo da quella positiva. Lo Sri Lanka, mi dicono i botanici, è terra di tè. Quale sia l’appetibilità di questa bevanda non mi è ancora del tutto chiaro, ma l’intera tribù di 8200 beve tanti infusi quanta vodka viene consumata a un matrimonio russo, per cui l’idea di visitare una piantagione non è poi così peregrina. In Sri Lanka, la zona del tè è quella collinare, ed è lì che si trovano le meglio piantagioni. Ciononostante, ad Ahangama, tra Mirissa e Galle, sta la migliore (almeno secondo la mia modestissima opinione): Herman Tea, altrimenti conosciuta come Handunugoda.




La cosa migliore di questa piantagione è la sua attitudine rilassata verso i visitatori; a differenza di altri posti, trasformatisi in un parco-divertimenti a base di tè, Handunugoda non chiede soldi per il tour. Si può arrivare in qualsiasi giorno, tra le otto e le cinque, completamente gratis, e qualcuno vi condurrà attraverso un breve tour e degustazione. Noialtri arriviamo di buon mattino, ci infiliamo prontamente prima nelle stalle e dopo in un ufficio contabilità, dal quale siamo ripescati e affidati alle cure di un omino in T-shirt rossa, unitamente a un duo di signore australiane – di quelle che, se le chiedi da dove vengono, ti rispondono ”Straya!” - e una coppia di bielorussi, membri della squadra olimpica di selfie-making.


Siccome Handunugoda non è una onlus, c’è ovviamente un negozio di souvenir. Anche qui, però, lo stile è diverso da quello delle altre piantagioni, e in meglio. Tutti i tè sono degustabili, compreso il famoso White Tea (che pare non venga mai toccato con mano), e il Suicide Club, infuso con brandy, un riferimento alla società coloniale dei planters, immortalata in un libro – “The Suicide Club”, appunto – scritto dall’ex padrone della piantagione. Insomma, se siete in Sri Lanka e volete visitare una piantagione, io vi consiglio Handunugoda. E’ piccola, artigianale, con macchinari dell’epoca, e molto meno commerciale di tante altre.



Torniamo ad Ahangama a piedi, sotto un sole assassino, ma ne vale ampliamente la pena. Camminiamo attraverso una campagna bellissima, con bufali a riposo nelle pozze di fango, statue del Buddha piazzate in mezzo alle risaie, ombreggiati da palme e salutati da tutti, ma proprio tutti, gli indigeni. Quella camminata, che i turisti – se passano – percorrono chiusi nei minibus, diventerà uno dei miei ricordi preferiti di quest’isola splendida. Alle volte la vera destinazione non è altro se non il viaggio in sé.
























Ma parliamo della seconda idea. Whale watching. 8200 era rimasta entusiasta di un giro fuori Sydney a vedere le humbpack, e il punto 125 (o giù di lì) della mia lista delle cose da fare prima di schiattare è di vedere una balenottera azzurra, stanziali nelle acque californiane, antartiche e… dello Sri Lanka meridionale. Vuoi non andare?

Ecco, ci sarebbe solo un problema. Se è vero che l’Italia è un paese di santi poeti e navigatori allora io sono svizzero. Stesso senso religioso di Lenin, capacità poetiche pari a quelle di Trapattoni e quella profonda, profondissima diffidenza nei confronti del mondo acqueo che può venire solo da un quasi-affogamento a dieci anni d’età e a una vita passata in montagna. Ciononostante, un bel giorno all’alba siamo all’ufficio del whale watchers, insieme a un gruppetto di altri turisti tra cui è facile distinguere tra lupi di mare, pesci d’acqua dolce e papere zoppe. Distribuiscono pillole per il mal di mare (ne ingollo subito due) e mi casca l’occhio sulla tabella delle condizioni dell’acqua. Today the sea is quite rough. Swells between 3 and 6 feet. Everyone can be sea-sick! ;-). Per me equivale all’uragano Mitch. Considero diversi scenari – simulare un ictus, scappare via, richiedere piagnucolando un rimborso – ma decido di no. Maledicendomi saliamo a bordo del battello, pomposamente definito “trimarano”, ma che per me sembra un guscio di noce. “SEFTY FIRST” campeggia sulla paratia, scritto papale papale. Qualcuno mi passa un giubbotto di salvataggio con scritte in giapponese e solo un migliaio di gancetti da attaccare finché non sembro un salame cacciatorino.

Usciamo dalla rada e, su un mare mosso ma non troppo, veniamo radunati a prua per un briefing. L’equipaggio è giovane ma molto esperto, o almeno così sembra a me. Ci parlano a lungo delle balene che vedremo e delle balenottere azzurre in particolare. L’animale più grosso della terra, in grado di diventare lungo 30 metri – due volte la nostra barca, noto nervosamente – vive tutto l’anno a meno di venti miglia dalla costa cingalese. Privo di predatori naturali una volta adulto, il suo nemico sono i mercantili che passano esattamente nella sua zona di operazioni. Sforzi internazionali per spostare le rotte mercantili non hanno ancora avuto successo, col risultato che almeno 5 di questi splendidi animali ogni anno muore in incidenti. Ci spiegano anche come effettueremo il whale watching, a distanza di almeno 100 metri a meno che non si avvicinino gli animali, e rigorosamente di lato. ”We do whale watching, not whale chasing” è il commento.

Servono la colazione, frutta. Il mare è diventato mosso, con spruzzi che sorpassano la nostra prua e ci fanno ondeggiare. Sono sicuro che Cino Ricci riuscirebbe a completare un castello di carte in quelle condizioni, ma per me la sensazione è di essere finito sull’Andrea Gail sui Grandi Banchi assieme a George Clooney. L’obiettivo è di non essere il primo a vomitare, e grazie a Dio c’è già un tizio con la testa nel secchio.




Arriviamo a uno sputo dai grossi mercantili, al punto che m’immagino di già le discussioni in plancia (”Capitano, saranno mica clandestini, quelli?” “No, sono i whale watchers. Ero qui mercoledì scorso e m’è toccato ripescarne dieci, metti in acqua una scialuppa, dai”). Balliamo peggio di Julian Assange in quel club di Reykjavík, il motore a pieni giri e l’elica che, a giudicare dal casino, a volte finisce fuori dall’acqua. L’equipaggio ci chiede di sederci a poppa, e passano coi sacchetti di plastica. Inizia a piovere, in orizzontale, manco fossimo in Scozia. Soldini in queste condizioni starebbe tranquillo a dipingere a olio, io invece mi raccomando ai santi.

Poi, succede. Tra un cavallone e l’altro appare una schiena. Sotto il cielo color cromo, e in un mare metallo, quello che emerge è grigio scuro, non azzurro, ma è lunga come la nostra barca. E se pensi che la testa, di una balenottera, non esce mai dall’acqua e la coda nemmeno, se l’immersione non è profonda, quell’affare è lungo almeno 25 metri. Non credevo sarebbe mai successo, ma ho visto la mia prima balenottera azzurra.


Continuiamo così per cinque ore, cinque ore che passo a tratti rattrappito dal freddo, nello sconforto della sensazione innaturale di salire e scendere lungo i crinali delle onde, con la serenata di gente che vomita, il tutto dimenticato al momento in cui si vede uno sbuffo alto sei metri, e appaiono di nuovo loro. Una, due, tre, quattro, cinque, sei volte; le balene emergono, accolte dai nostri schiamazzi da bambini esaltati, e poi ritornano sotto. L’ultima volta, una coda lunga tre metri appare. Non posso fotografarla, ma l’immagine rimarrà impressa a fuoco nella mia mente.









Alla fine giriamo la prua e torniamo, veloci, verso riva. Il mare s’è fatto calmo, e mi concedo la colazione della vittoria: omelette, salsiccia, mango e pane. Miracolosamente sono uno dei pochi che non ha dovuto usare i sacchetti di plastica e questa, signori, è una vittoria.

Lasciamo Mirissa e, tre bus e sei ore di pop Tamil dopo, arriviamo a Udawalawe, sede dell’omonimo parco nazionale.





Montiamo su una jeep e, in una terra che sembra più la savana africana che il subcontinente, passiamo un giorno ad ammirare la fauna di quest’isola: spotted deer, peacock, Sri Lankan macaque, flycatcher, tucani, martin pescatori, bee eaters, fish eagle, snake eagle, white sea eagle, serpent eagle, mugger crocodile, cicogne, water buffalo, land monitors e, ovviamente, gli elefanti asiatici, svegli e addormentati. Taccio e lascio parlare le foto.


















































…per oggi basta, continua nel week-end.
 

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Nuwara Eliya – Negombo: colline, tè e treni
La zona di Nuwara Eliya, Hatton e Ella è nota come “The Hill Country”, l’epicentro della produzione del tè nel paese. Immaginatevi panorami verdissimi, con colline coperte di morbidi cespugli di tè, punteggiati da villaggi indù e, dove le salite sono troppo ripide, boschi e templi buddhisti.
Arriviamo a Ella con un mezzo colpo di fortuna: il nostro albergatore conosce un tassista che, dovendo tornare a Ella a vuoto, ci propone di viaggiare con lui per metà della tariffa solita (4000 rupie contro 7/8000). Accettiamo, ed è un buon affare; viaggiando sulla via che ci eravamo prefissati, Udawalawe-Wellawaya-Ella, non vediamo un autobus. Ad Ella ritroviamo il treno, e iniziamo uno dei tragitti più spettacolari che abbia fatto.


















Scendiamo a Nanu Oya, la fermata per Nuwara Eliya, il villaggio a 1800 metri dove staremo. A dispetto del nome, NE è cingalese quanto è italiano il menu da Jamie Oliver’s Italian, essendo stato creato come una specie di parco di divertimenti per gli aristocratici inglesi, un posto dove sfuggire dal calore della pianura per dedicarsi ai passatempi preferiti dai toffs: golf, polo, corse di cavalli, passeggio attraverso i giardini botanici.











L’idea è affascinante, ma non ci metto molto a decidere che Nuwara Eliya non mi piace. I prati ben curati ci sono tutti, le ville sono eleganti, c’è pure la piccola copia di Ascot e il clima è quello frizzante della Val d’Aosta d’estate, ma l’intero posto ha l’aria di un esperimento non riuscito e abbandonato a metà. Aggiungiamoci un livello di povertà e di disagio sociale che non avevo mai visto, fin’ora, in Sri Lanka e il quadro è completo. In più la piantagione di tè Mackswood è stata rilevata da un nuovo proprietario, che ha buttato giù la vecchia insegna e ha tramutato il tutto in una specie di Disneyland. La differenza con Handunugoda è massima.







Non tutto, però, è da buttare. I tramonti sono qualcosa di eccezionale, soprattutto se visti con il suono dei mantra buddhisti, cantati da un monastero che riusciamo solo ad intuire.






Ripartiamo per Colombo, un viaggio in treno lungo 7 ore, e poi proseguiamo per Negombo, una cittadina di mare a poca distanza dal Bandaranaike international. Il posto in sé è completamente dimenticabile, ma offre il vantaggio di essere sul mare e più vicino all’aeroporto della capitale, il cui traffico spesso è indegno, provare per credere.









..continua con l’ultima tappa. Il ritorno.
 

OneShot

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Belle foto, complimenti, sopratutto l'OT. J'adore Srilanka!
Una curiosità la foto in bn dei due appoggiati alla porta, quella dei cingalesi affacciati dai finestrini del treno e quella dell'uomo seduto in panchina col cappellino rosso sono molto belle: è per questo che le hai postate sia in prima tappa che in terza tappa??
 

Edoardo

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Mamma mia che ciofeca il catering di BA. Forse meglio non essere upgradato se devo mangiare così male :D
Comunque grazie per le foto, mi stai facendo scoprire un paese che non mi ha mai attirato.
 

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Belle foto, complimenti, sopratutto l'OT. J'adore Srilanka!
Una curiosità la foto in bn dei due appoggiati alla porta, quella dei cingalesi affacciati dai finestrini del treno e quella dell'uomo seduto in panchina col cappellino rosso sono molto belle: è per questo che le hai postate sia in prima tappa che in terza tappa??
Errore mio! Quelle tre foto sono della Main Line, e non della Colombo-Galle. Tolte, grazie della dritta :) E grazie per leggere.

Mamma mia che ciofeca il catering di BA. Forse meglio non essere upgradato se devo mangiare così male :D
Comunque grazie per le foto, mi stai facendo scoprire un paese che non mi ha mai attirato.
Volpe e l'uva, eh? :D
Ad onor del vero, il ritorno - vedrai - sara' molto meglio. Il problema, purtroppo, e' il catering ex-LHR, specie le colazioni e la frutta. E' un paradosso, considerando che dovrebbe essere la base d'armamento e considerando anche che ci sono compagnie che riescono a fare del cibo decente da Londra.

La penultima foto (i tizi che si sporgono dal finestrino) è davvero bella. Anche le altre, ma quella di più.

DaV
Grazie :) Unitamente a quella della serpent eagle sul ramo, i musulmani al tramonto e il cane che si silhouetta [cit.] sul forte e' quella di cui sono piu' fiero dell'intero viaggio.
 

londonfog

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Foto molto belle, fino ad ora non avevo mai pensato ad un viaggio in Sri Lanka, adesso ci sto pensando.
 

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Il ritorno. Dove Sri Lankan sorprende e British Airways si redime
Mercoledì, il ritorno incombe. Partiamo da Negombo e l’Uber prenotato si rivela essere una Tata Nano, ve la ricordate quella specie di trabiccolo su ruote da carrello della spesa? Beh, sotto un certo punto di vista non è poi così male, specie quando si prendono curve a gomito e sembra alzarsi su due ruote.
L’approccio al Bandaranaike sembra un po’ elaborato. Invece di andare dritti lungo il viale che porta al terminal, le macchine sono costrette a passare su una strada laterale, attraverso un giardino all’iraniana, per poi fare qualche curva a 90 gradi e, infine, sbucare giusto a fianco delle partenze. Qui e li si vedono guardie armate col kalashnikov. Il motivo di tutta questa paranoia, a differenza degli Stati Uniti, è ben giustificato anche se un po’ tardivo; di sicuro sarebbe servito prima dell’attacco del 24 giugno 2001, quando quattordici terroristi suicidi delle LTTE, le Tigri Tamil, penetrarono nell’aeroporto, uccidendo 7 persone ma, soprattutto, distruggendo o danneggiando 26 aerei, incluso un terzo della flotta di Sri Lankan Airways e una buona fetta dell’aviazione militare del paese.

Anche entrare nell’aeroporto è una questione di sicurezza, roba che l’Atatürk dopo i recenti attentati sembra una scemenza. Per prima cosa, l’ingresso alle partenze in sé è limitato ai passeggeri in partenza sui voli previsti nelle prossime sei ore; si deve avere una prenotazione stampata, o su telefono/iPad (ho però visto che vendono biglietti per visitatori, come nelle stazioni un bel po’ di anni fa). Fatto questo, si può entrare, passando il primo controllo radiogeno, che conduce in uno stanzone con delle sedie, bagni e un negozietto/supermarket. Per arrivare ai banchi check-in c’è un nuovo controllo con metal detector; dopo l’emigrazione, prima di accedere al gate, un terzo. Ma sto andando troppo in avanti.

Siamo in standby con QR e UL, e decidiamo di provare Sri Lankan per prima. Il banco staff fa anche da drop-off per gli equipaggi, per cui stiamo pazientemente in coda assieme agli assistenti di volo e ai piloti che, curiosamente, parlano tra di loro in inglese. Arriviamo al banco, che è ricoperto di stampe delle varie GenDec (General Declaration, i nomi e numeri di passaporto di tutti gli impiegati della compagnia a bordo di un determinato volo). Insomma, un qualsiasi staffer – ma anche un passante – potrebbe arrivare li e leggere i nomi di chi opererà i prossimi voli di Sri Lankan. Sembra poco, ma stride e non poco con tutta l’operazione di sicurezza che si vedeva prima…

Comunque, cattive notizie. StaffTraveler mi diceva che il volo per Doha è operato da 332 e c’erano 40 posti a disposizione in Business ed Economy. La signorina al banco, splendente nella sua bella uniforme UL, mi dice che il volo è operato con A333 (si vede anche sulla GenDec stampata davanti a me), è ”full to capacity” e ci sono altri 5 staff davanti a me. Scrivo a un amico che ha gli accessi necessari, e mi dice che pure il primo di QR è pieno.

A volte staff travel funziona, e alle volte no. Ci sediamo in un angolo, e meditiamo il da farsi. Non ho voglia di aspettare il red-eye di QR, abbiamo preso un hotel a Doha apposta, e quindi decidiamo di comprare un biglietto. Il problema è che la biglietteria di UL non vuole saperne, e quella di QR non ha ancora aperto; internet non dà spazi su UL, e prezzi alti su QR. Provo l’ultima, guardare su ba.com per voli con Avios. Miracolo! 20.000 Avios e solo £50 in più rispetto al prezzo di staff travel a testa. Compriamo, e proviamo a fare check-in. Possiamo riservare i posti, ma finisce li.

Andiamo al banco e dopo un po’ di fatica (trova un addetto che parli inglese, spiegagli che non dobbiamo avere il visto per Doha, spiegagli che i cittadini UE possono fare visa on arrival, spiegagli cos’è l’UE, spiegagli dove abbiamo preso l’informazione, spiegagli cos’è Timatic e come accedervi da Altéa) riusciamo ad avere i posti. Il mio bagaglio a mano risulta essere più pesante dei 7 kg massimi previsti, per cui mi tocca imbarcarlo. Fatto ciò mi rendo conto che ho lasciato il telefono dentro, per cui… GoPro it is.

Airside sembra Gatwick, solo con un po’ più di vista. Mentre 8200 si lancia nell’acquisto di cose la cui utilità o scopo mi sfugge decido di sedermi in un angolo in attesa degli eventi. Dopo non molto il gate apre, ed effettuiamo il terzo controllo della giornata.


Non avevo mai visto granché di Sri Lankan, per cui le mie aspettative erano bassine, ma la realtà è che il CMB-DOH è stato il secondo miglior volo che ho mai fatto in economy, dopo l’inarrivabile JAL NRT-HAN. Molto, ma molto meglio di QR all’andata.

Il 333 ha ottime sedute con un sacco di spazio; mood lighting; Wi-Fi (non che mi serva, anzi); ottimi schermi con un programma di grande qualità; e gli assistenti di volo sono tutto ciò che quelli di QR non sono, ossia gentili, proattivi, con un buon inglese e voglia di fare, anche per chi lavora in barbon.




Partiamo in perfetto orario mentre accendo l’IFE (visto cosa intendevo quando parlavo di grande qualità?) e mentre gli assistenti di volo fanno un breve passaggio di acqua su richiesta, cosa mai vista a terra in economy.


Segue anche un menu, che cerco di fotografare. Ad essere del tutto sincero i contenuti del menu sono stati un po’ diversi da quelli poi offerti – c’era un “seafood pasta” e “curry chicken” – ma chissenefrega, apprezzabile il tentativo.


Il rancio è meglio di quanto non appaia: porzioni decenti, e molto gusto – ancora una volta, meglio di quanto non abbia mai mangiato su QR o EK, dove tutto (che sia vegetariano, agnello, pollo) ha lo stesso sapore. Il dessert è una crema al mango che è semplicemente ottima, semplice e leggera. Se penso al toffee al caramello che BA si ostina, da cinque anni a questa parte, a servire in economy mi viene lo sconforto.


Mi godo appieno il viaggio e faccio due chiacchere col crew nel galley, dove vado in cerca di una toilette (ecco, ce n’è solo una in fondo). Ancora una volta gentilissimi, fanno drink runs ogni mezz’ora e rispondono sempre al call bell (che suona ogni dieci minuti, tanti lo confondono col tasto per accendere la luce di lettura). Il galley ha un pavimento in finto legno che non m’era ancora capitato di vedere.

Insomma, la faccio breve. Arriviamo e sono triste che siano già passate 5 ore, anche perché ad aspettarci c’è Doha, probabilmente il posto che preferisco di meno dopo Chivasso. Poliziotti scazzatissimi che insultano i passeggeri e passano il tempo al telefono, impiegati dell’immigrazione che non rispondono a buongiorno, buonasera, grazie e arrivederci e sbuffano quando chiedi di pagare il visto con la carta. Certo, è proprio un piacere visitare il tuo splendido paese e spenderci dei soldi, altroché.

Il resto della permanenza a Doha è pure peggio. Avevo prenotato, come “treat” finale, una stanza in un hotel a 5 stelle del centro cui, per pudore, evito di fare il nome. Di sicuro sarà colpa mia, alla fine sono un gonzo e dovrei limitarmi a stamberghe, catapecchie e lupanari che conosco e so scegliere. Arriviamo e ci dicono che ci danno un upgrade a una suite, caffè turco e datteri, e il vostro che è sceso giù a valle con la piena è contento e ammirato come Paperino quando va a conoscere lo zio ricco. 8200 è più scettica, e infatti ha ragione. Ci rifilano un bagno in cui non funziona l’acqua calda, l’aria condizionata fa lo stesso rumore di un diesel e metà delle luci non si accendono o non si spengono. Quando finalmente riusciamo a venirne a capo sono le due di notte e dobbiamo alzarci alle 5 e mezza.

Il giorno dopo non vedo l’ora di andarmene, ma con calma. Due Uber accettano la nostra chiamata e poi, letteralmente, spariscono, probabilmente per alzare la tariffa. Chiedo al concierge se non può chiamare un taxi e ci dice di andare all’angolo. Alla fine riusciamo a trovare una scornacchiatissima Toyota per andare all’Hamad. Probabilmente in Qatar hanno un filtro anti-barboni e io ci sono cascato dentro, ma di sicuro io e questo paese non andiamo molto d’accordo.

Landside l’Hamad è, oltre che essere bello, pure luminoso, cosa che non è airside. Le volte sono veramente splendide, e la zona check-in di First e Business, in cui entro per puro sbaglio, sembra veramente qualcosa di notevole e premium. L’intero terminal è dedicato ai voli QR, con tutti l’artri relegati in fondo. Sbrighiamo le nostre pratiche in un secondo e, devo ripeterlo, questo terminal landside è veramente uno dei più belli in cui sia stato di recente. Fa sembrare il T3 di Dubai, con le sue colonne di marmo e i soffitti riflettenti, veramente troppo Anni ’90.















Passa poco tempo e chiamano il nostro volo, stavolta effettuato da G-RAES, su cui avevo volato 5 anni fa, qualcuno si ricorderà del TR di consegna (che potete trovare qui). Il volo è al 60%, come un po’ tutti i voli per DOH che, fino all’arrivo della joint venture con QR, erano infatti coterminalizzati con Bahrain per riempirli un po’ di più.




Oggi la musica su BA è completamente diversa. Il crew è di nuovo molto buono, con vette di eccellenza: il CSL e uno degli international crew basati a Bahrain potrebbero metter su un duo di cabarettisti, e sono impeccabili. E’ quel genere di servizio che non a tutti piace, ma che per me è il meglio: spontaneo, spiritoso e dissacrante. Poi viene fuori che l’ICC ha studiato italiano nel piacentino e a Milano, ed è la fine. Ho provato a chiedere se conoscesse Falkux o Dancrane; un’ombra – orribili ricordi, penso – è scivolata sul suo volto. E’ stato un attimo, e non mi sono osato a chieder di più. Certe cose è meglio lasciarle sepolte, dove stanno.




Ma parliamo del cibo. L’andata è stata traumatica, come sarà il ritorno? Beh, sembrava una compagnia aerea diversa. O di sicuro due fornitori diversi. L’antipasto arabo, con mezze e hummus, era da leccarsi i baffi; il main di agnello con moghrabieh era da ristorante. Unica nota negativa i formaggi, col solito cheddar che, sembrerebbe, costituisce il 50% del formaggio prodotto in quest’isola dannata e che ha lo stesso gusto del Fontal. La massima di Stella Gibbons (”puoi mettere il rossetto a un maiale, ma pur sempre un maiale rimane”) si applica al cheddar.









Frattanto, fuori, Iran e Kurdistan turco si danno il cambio nell’offrire gran panorami in una zona di mondo in cui devo tornare al più presto.







Il volo è diurno e, a un’ora dall’arrivo, appare anche una specie afternoon tea, gli scones sostituiti da falafel. Non sono mai stato un fan dei sandwich dell’afternoon tea e questi non fanno differenza, ma il mini falafel wrap è un gradito sostituto degli scones.




Il resto è storia. Un po’ di holding su Londra sudde, e un atterraggio veloce a LHR, con ormeggio al T5C. Dei venticinque e-gates al T5 ne funzionano quattro, ma almeno le valigie priority escono per prime. Dopo poco siamo sulla metro che, tra un red signal e l’altro, ci deposita a casa. Come disse Enrico La Talpa, ”That’s all bifolks”, grazie a chi ha letto e commentato.