[Storica] L'incidente del DH Heron I-AOMU dell'Itavia all'Isola d'Elba - 14/10/60


nicolap

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Staff Forum
10 Novembre 2005
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Roma
Il 14 ottobre del 1960 la città di Roma, così come gran parte del Tirreno centro settentrionale, era interessata da una perturbazione che non accennava a mostrare segni di miglioramento.
L’autunno aveva iniziato a portare le prime piogge ed un brusco abbassamento di temperatura, segnando definitivamente la fine di una lunga e calda estate.

Nel primo pomeriggio il comandante Ennio Scipione, 30 anni, e il copilota Francesco Cossu, di 44, preparavano presso i locali della compagnia sull’Aeroporto dell’Urbe i dettagli del volo per Genova, mentre i tecnici predisponevano per il decollo il De Havilland Heron dalle marche I-AOMU.
Questo aereo, il cui numero codice di costruzione era il 14090, era in servizio con l’Itavia dal giugno del 1960 e poteva ancora considerarsi a tutti gli effetti come una macchina relativamente giovane ed affidabile. La configurazione interna prevedeva la possibilità di alloggiare, in modo abbastanza confortevole, sino a quattordici passeggeri ed un assistente di cabina oltre, ovviamente, i due piloti. Il 14 ottobre, tuttavia, l’equipaggio del volo sarebbe stato composto da quattro membri dell’equipaggio, unendosi ai piloti ed alla hostess Giovanna Pertusia anche una giovane allieva hostess, Grazia Candeloro, di vent’anni.

Il 14 ottobre i passeggeri in partenza per Genova con il volo pomeridiano erano sette, e si presentarono puntualmente presso il semplice e spartano check-in della compagnia per conse-gnare i bagagli e registrare la propria presenza a bordo.
C’erano a bordo cinque uomini e due donne. I primi erano Giorgio Bracci, di professione sindacalista, Ernesto Cuomo Ulloa, un avvocato, Elio Perugi, un impiegato, Silvio Schiunnack, un ragioniere, e Naomiche Takashima, di nazionalità giapponese e di professione esportatore. Le donne erano invece Adelaide Rocca Dalmau e la giovane figlia Maria Pia Dalmau, di appena 4 anni. Provenivano dall’Ecuador, per raggiungere il fratello della donna a Genova.
Espletate le formalità ed imbarcati passeggeri e bagagli, l’aereo decollò regolarmente alle 15:02 portandosi lentamente in rotta verso Genova, dove sarebbe dovuto atterrare alle 16:32.
Una volta decollato, il piccolo quadrimotore compì una serie di virate e raggiunse in breve tempo l’aerovia assegnata, puntando in direzione dell’Isola d’Elba, dove avrebbe dovuto successivamente modificare la propria deriva e dirigere verso Genova.

Ben presto le condizioni del clima apparvero pessime, con un panorama in direzione nord in netto peggioramento ed una folta coltre di nubi scure e a bassa quota. A peggiorare la situazione contribuì una pioggia che tendeva ad infittirsi sempre più e che, ben presto, si trasformò in vero e proprio temporale.
Il piccolo Heron, nonostante le condizioni del tempo, non tornò indietro e si infilò nel temporale sicuro di poterlo attraversare e superare senza problemi. Le condizioni del volo dovettero subire certamente un brusco peggioramento quando l’aereo era oramai in navigazione in mezzo al Tirreno e con scarse possibilità di effettuare manovre diversive in direzione di aeroporti alternati in prossimità dell’area.
Il pilota si dovette rendere conto di essere in una situazione estremamente pericolosa e cercò senza dubbio di effettuare una manovra di emergenza per portarsi ad una quota che gli con-sentisse una maggiore visibilità e, eventualmente, la possibilità di operare qualche forma di diversivo.
Come più tardi venne accertato durante l’inchiesta per comprendere le dinamiche dell’incidente, sebbene nell’ambito di un insieme di prove alquanto confuso ed incerto, il pilota non era abilitato per il volo strumentale e quindi probabilmente cercò di uscire dal fitto banco di nubi per cercare di riacquistare degli elementi di valutazione visivi ed uscire da quella situazione di pericolo in cui si era venuto a trovare affrontando un volo in mezzo ad un temporale di così grandi proporzioni.
Evidentemente non in grado di stabilire l’esatta posizione dell’aeromobile, il comandante non si rese conto di essere già sull’Isola d’Elba. Con una quota inferiore di ottocento metri a quella del piano di volo, e con una visibilità comunque ancora estremamente ridotta, l’equipaggio non si rese conto di essere in prossimità dei rilievi dell’isola ed impattò violentemente alle 15:50 contro il fianco del Monte Capanne, sulle pendici sud orientali della Tabella, a 720 metri di quota. Erano trascorsi 51 minuti dal momento del decollo.

Quando la notizia del disastro iniziò a trapelare, all’aeroporto dell’Urbe accorse una grande folla. Parenti dei passeggeri, impiegati della compagnia, giornalisti e semplici curiosi si ammassarono nell’angusta struttura dell’Itavia cercando di conoscere i dettagli dell’accaduto e, soprattutto, notizie sugli occupanti dell’aereo.
Man mano che le informazioni sulla sciagura si facevano più precise, all’ansia dei presenti fece seguito lo straziante dolore dei parenti delle vittime, come sempre “assaliti” dai cronisti che, insensibili al dolore altrui, cercavano in ogni modo di poter raccogliere le sensazioni di quei drammatici attimi per poter realizzare un “buon pezzo” sul proprio giornale.
Alcuni testimoni narrano di giornalisti che, fingendosi dipendenti del Ministero dei Trasporti, cercavano in ogni modo di accreditarsi presso dipendenti dell’Itavia o dell’aeroporto dell’Urbe cercando di conoscere in tempo utile i dettagli dell’accaduto e le generalità di quanti erano periti nell’incidente.

Le condizioni metereologiche proibitive impedirono una immediata ricerca del velivolo, e per lungo tempo si sperò in un atterraggio di emergenza in Corsica.
Il primo a giungere sul luogo della sciagura, per puro caso, fu un certo Antonio Arnaldi, camminando nel pomeriggio del 15 ottobre alla ricerca di funghi. Dapprima scorse un sacco delle Poste, e poi trovò rottami sparsi, segni di un incendio, e i corpi straziati dei passeggeri.
Corse a valle, avvertendo i Carabinieri, ed in breve tempo la zona fu presidiata e delimitata. Il calare della notte e la pioggia battente impedirono di condurre il recupero delle salme il giorno 15, e così i Carabinieri si accertarono solo che non ci fossero superstiti.
La mattina successiva, grazie anche al ritorno del bel tempo, si potè iniziare a condurre le operazioni di recupero dei corpi e di esame del relitto. La scena si presentò subito agghiacciante.
Tutti i corpi presentavano mutilazioni più o meno evidenti, unitamente a segni di ustioni. Anche la vegetazione circostante presentava tracce di un incendio, provocato con ogni probabilità dal carburante ancora presente a bordo e spentosi poi rapidamente sotto la pioggia costante di quei due giorni.
Le mani del pilota, recise di netto nell’impatto, afferravano ancora saldamente i comandi del piccolo quadrimotore, mentre l’intera area era disseminata di effetti personali, bagagli e rottami dell’aereo. Di cui restavano riconoscibili una semiala, il troncone di coda ed i quattro motori, catapultati a circa 50 metri dal luogo dell’impatto.

La notizia del disastro sconvolse l’opinione pubblica nazionale. Non tanto per il fatto in sé, cui gli italiani al crescere della rilevanza e dei volumi del trasporto aereo dovettero necessariamente abituarsi anche a causa di altri incidenti spesso di ben più gravi proporzioni. Ciò che colpì, soprattutto gli utenti del trasporto aereo, fu la leggerezza e la mancanza delle più elementari norme di sicurezza con cui, si scoprì, alcune compagnie in Italia e nel mondo facevano volare i propri apparecchi.
L’incidente dell’Isola d’Elba era uno di quelli che non avrebbe dovuto verificarsi. Un pilota senza abilitazione per il volo strumentale non avrebbe dovuto decollare in una giornata caratterizzata da intensa nuvolosità e da forti temporali e, soprattutto, non avrebbe dovuto trasportare passeggeri, in nessun caso.
L’Itavia aveva dimostrato di non aver applicato le più elementari norme di condotta dei velivoli e delle norme dettate dall’I.C.A.O., dimostrandosi una spregiudicata società intenzionata solo al perseguimento del mero profitto. E questo a discapito della sicurezza dei passeggeri e degli stessi componenti degli equipaggi naviganti.

La Procura Generale della Repubblica di Firenze aveva richiesto il 21 dicembre del 1960 alla Procure di Livorno di espletare nuovi indagini, dopo l’archiviazione del 25 novembre precedente. Al termine dell’istruzione formale, vennero quindi rinviati a giudizio Luigi Petragnani, presidente della Società Itavia, Renato Panini, consulente della stessa società, il Generale di Squadra Aerea Renato Abbriata, direttore generale dell'Aviazione Civile e Riccardo Rubbiani Piva direttore dell' Aeroporto dell'Urbe.
Venne nominata una Commissione di Inchiesta dall’Ufficio del Segretario Generale del Ministero della Difesa Aeronautica, e nel febbraio del 1961 venne individuata come causa probabile dell’evento “l’accidentale falsata indicazione della radiobussola, dovuta all’influenza di un cumulonembo, in concomitanza di una improvvisa mancanza di visibilità esterna”.
Il processo destò particolare interesse perché per la prima volta nella storia giudiziaria italiana veniva affrontato il tema del disastro aereo colposo. Sino ad allora, infatti, le indagini sugli incidenti aerei erano state condotte dal Ministero Difesa – Aeronautica nell’osservanza degli obblighi del segreto di Stato, senza l’esame del magistrato penale.
Fu interessante anche la disamina circa l’osservanza delle norme ICAO, accettate ma all’epoca non recepite ufficialmente dall’ordinamento italiano, e quindi non richiamabili in sede di processo.
Il processo per accertare le cause del disastro si tenne a Livorno nel 1965 e, nonostante il grande clamore, non produsse alcun effetto concreto nei confronti dei vertici della compagnia. La stampa seguì con grande interesse la faccenda, spesso accanendosi con particolari e dati privi di fondamento nel tentativo di rendere ancor più cupo il quadro relativo alla compagnia ed al sistema dei trasporti in Italia.
Con estrema probabilità anche i vertici dell’Alitalia alimentarono la polemica, indicando quali dovessero essere gli standard minimi di sicurezza per il trasporto aereo, nel non difficilmente immaginabile intento di screditare una minaccia di tipo commerciale e per rendere assai difficoltosa la possibilità ad altri operatori di accedere ad un mercato che, di fatto, era oramai divenuto monopolio della sola compagnia di bandiera.
Nonostante i toni e la portata delle polemiche seguite all’incidente, però, la causa si concluse con un nulla di fatto con la sentenza del 26 febbraio 1965, e con una conferma dell’assoluzione per tutti gli imputati anche in Appello a Firenze nel 1966.

L’Itavia, comunque, aveva dovuto sospendere all’indomani della sciagura dell’Isola d’Elba tutti i suoi collegamenti e, di fatto, cessare ogni tipo di attività connessa con il trasporto aereo.
I soci, però, non erano dell’avviso di considerare chiusa l’attività e ben presto, quando ancora la causa per l’accertamento delle responsabilità dell’incidente era in pieno svolgimento, definirono una nuova strategia per la ripresa delle attività.

Per ironia della sorte, il giorno successivo a quello dell’incidente avrebbero dovuto arrivare a Roma i funzionari di una società elvetica di investimento, cui precedentemente era stato proposto di investire nella compagnia.
Già da tempo, infatti, l’Itavia era alla ricerca di investitori che potessero dare respiro finanziario alla società e permettere l’ingresso di macchine più moderne e capienti.
Grazie all’intermediazione di persone vicine alla società, quindi, era stata individuata in Svizzera una società interessata ad entrare nel capitale sociale e grazie al cui apporto l’Itavia avrebbe potuto radiare i modesti Heron ed acquistare sul mercato dell’usato apparecchi di dimensioni superiori, necessari per poter compiere quel salto di qualità da tempo agognato.
L’incidente, però, arrestò ogni valutazione in tal senso e l’investitore elvetico in breve tempo si ritirò dall’affare.


Il DH Heron I-AOMU


I resti sul Monte Capanne

Un video sull'incidente
 

Doctorstein

Utente Registrato
2 Dicembre 2007
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Ottimo come al solito.

E' incredibile come in pochissimi anni, dal 60 l'aviazione abbia cambiato completamente faccia.
 

Nibbio

Utente Registrato
5 Dicembre 2008
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Francia/Ginevra
Ottimo Articolo Grazie mille! Certo che fa impressione che dopo 50 anni alcuni giornalisti alla notizia di un disastro si comportino allo stesso modo se non peggio!