[TR] Aerei, Highball e Jet Lag: la mia prima volta in Giappone


Brendon

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14 Agosto 2016
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Premessa

Durante un meeting con alcuni colleghi dell’HQ regionale a Singapore, io e il mio manager veniamo invitati in Giappone per una serie di incontri con un partner locale e per visitare alcuni esercizi commerciali che utilizzano il prodotto sviluppato dal mio team.

Il mio manager, con l’esperienza di chi ha già collezionato troppi timbri sul passaporto, si defila immediatamente (“viaggia anche troppo”, dice lui). Io, invece, mi ritrovo già in chat su Teams, pronto a scrivere con faccia tosta: “Sono libero, posso sacrificarmi per il bene del team.”

Qualche giorno dopo, riceviamo l’agenda ufficiale: quattro città in quattro giorni, partenza da Tokyo e rientro da Kyoto.
Perfetto. È il tipo di “sacrificio” che riesco a sopportare.

Mi fiondo su Concur in cerca di voli per Tokyo Haneda in andata e Osaka-Washington per il ritorno.
Sull’Haneda operano nonstop sia United Airlines (UA) sia All Nippon Airways (NH). La mia preferenza va sempre a UA: posso usare miglia e strumenti per eventuali upgrade, visto che la policy aziendale ci consente al massimo la Premium Economy. I privilegi del proletariato aziendale.

Per il ritorno, UA propone un comodo KIX–SFO–IAD tutto su metallo United. L’andata, però, è un'altra storia: il volo UA803 costa circa 600 dollari in più rispetto al codeshare NH. Per evitare commenti acidi in sala mensa, opto per NH e mi rassegno a passare 14 ore in Premium Economy, senza alcuna speranza di upgrade.

Piccola parentesi: ho delle… premonizioni. Robette, eh. Tipo: mi viene in mente una banalità, e si avvera. Niente numeri del Superenalotto, purtroppo. A quanto pare, i miei poteri sono destinati a un bene superiore, quale ancora non mi è chiaro.

Una decina di giorni dopo, ho questa sensazione: “Controlla se il volo UA803 si può cambiare senza svenarti.”
Lo faccio. E boom: il cambio è a costo zero. Neanche il tempo di pensarci e ho già convertito la prenotazione su metallo United. Subito dopo, vado a caccia di upgrade per andata e ritorno: 30.000 miglia + 450$ di co-pay. In waitlist, ma sono fiducioso.
Non proprio un regalo, ma considerando che il biglietto non l’ho pagato io, e il volo è lungo quanto un’intera stagione di Breaking Bad, non ci penso due volte.

Nota a margine: la parte OT sarà incentrata principalmente sul cibo. È stata una settimana piuttosto intensa e, tolte camere d’hotel e meeting rooms, ho visto praticamente solo ristoranti e bar. Un tour gastronomico mascherato da trasferta aziendale.

A breve con il volo di andata…
 
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Andata

A quindici giorni dalla partenza, arriva la conferma: upgrade approvato.
Due le mie gioie immediate:
  • Il pigiama.
  • Il menù giapponese.
    Sì, forse un giorno volerò con NH, ma non da prigioniero della Premium Economy.
Due giorni prima del volo completo la registrazione su Visit Japan Web: con il QR code passo l’immigrazione in due minuti netti, stile Global Entry made in Japan. Prenoto anche il menù giapponese a bordo. Tutto sotto controllo.

Arrivo a Dulles e mi dirigo al banco per il drop-off bagagli. C’è meno staff rispetto a qualche mese fa e molte più macchine per l’etichettatura self-service.
Sarà anche il desk Polaris / 1K, ma... non fa proprio una gran figura. Siamo sinceri.

Comunque, in meno di due minuti sono airside.
TSAPre è deserto. Clear + TSAPre ha sì e no quindici anime in coda.

Nota polemica: chi ha Clear e vede che TSAPre normale è più veloce… perché insistere? Non è che se lo paghi lo devi usare sempre, eh. Lo userò a SFO, dove davvero fa la differenza.

Mi imbarco sul trenino verso i gate C e, come da tradizione, visita alla mia Polaris Lounge preferita.

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Colazione: avocado toast — fenomenale.
Doppio Illy, posto comodo, e per ingannare l’attesa… Aperol Spritz.
Che poi: è sempre l’ora giusta quando attraversi fusi orari, no?

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A dieci minuti dall’imbarco mi avvio al gate. C’è una persona che tiene un cartello NH101 — e no, non è il nostro volo. Il nostro è UA803, ma la confusione è comprensibile: ANA parte a pochi minuti di distanza, ma dai gates B. Gli annunci lo ripetono a raffica, ma qualcuno sbaglia lo stesso. Sempre.

Imbarchiamo in orario.
Amenity kit nuovo rispetto ad agosto: promosso.
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Cuffie nuove anche — finalmente decenti, non più quelle che sembravano gadget omaggio di una rivista anni '90.
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Fuori, la vista è monotematica.
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Intanto servono prosecco o acqua.
Scelgo l’acqua.
Mentivo: scelgo il prosecco.
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Leggo il menù, anche se ho già scelto.
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E poi, eccolo: il pigiama. Quanto ti ho desiderato, compagno di voli lunghi e pressurizzati.
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Partiamo in orario. Dopo circa un’ora, inizia il servizio.
La flight attendant si scusa: le sono caduti i ramekin delle noccioline. Non benissimo, ma nemmeno drammatico.
L’impiattamento è discutibile — i pochi passeggeri giapponesi sembrano perplessi — ma tutto sommato buono.
Spoiler: il catering del volo di ritorno da Osaka sarà un’altra storia.
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Il viaggio scorre lento.
Ringrazio mentalmente il karma (e lo status) per avermi regalato questo upgrade.
14 ore altrove sarebbero state una tortura.

Guardo una valanga di film.
Uno, The Surfer con Nicolas Cage, è così assurdo che ancora oggi mi chiedo se sia un capolavoro nascosto o un incubo psichedelico. Forse entrambi. Forse nessuno dei due. Forse è troppo profondo per me.

Sopra l’Alaska arriva lo snack.
Scelgo le empanadas. Scelta geniale: una delle cose più buone mai mangiate a bordo.
Sì, anche sopra i noodle istantanei del volo ANA che non ho mai preso (ma che mi raccontano siano mitici).
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Si fa sera secondo la East Coast Time, ma io cerco di dormire solo due ore. Power nap tecnico, per non sabotare il sonno notturno una volta atterrato.

A questo punto, inizia il delirio.
Il viaggio è lungo, lunghissimo. Mi sento Fantozzi in viaggio mistico, vedo cose che non esistono.
Poi, la salvezza: si accende la luce per la colazione — o meglio, quel pasto misterioso che capita quando è notte a Washington e primo pomeriggio a Tokyo.

Scelgo lo yogurt, temendo un’esplosione glicemica, ma — miracolo — non ha zucchero.
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Ultime virate sopra la megalopoli di Tokyo, talmente vasta che sembra non finire mai.
Sembra una gara tra noi e un aereo accanto per vedere chi tocca terra per primo. Vincono loro.
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Bagno rapido post-atterraggio. Nota culturale: nessun divisorio agli orinatoi.
Immigrazione? Una combo di Mortal Kombat futuristica: passaporto, pollici, QR code e sono dentro in un nanosecondo.
Le valigie si fanno desiderare. Mi aspettavo quella scena vista su YouTube con i bagagli allineati perfettamente, come soldatini giapponesi. Niente da fare. Forse erano fake news.

Welcome to Tokyo.

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Adesso, missione: Go Taxi.
Chiedo indicazioni. Mi dicono “proprio lì, di fronte”. Ma… non si può attraversare. Strada vuota, eh. Ma le regole sono regole.
Quindi? Rientro nel terminal, salgo, attraverso il ponte, scendo. Et voilà.

In meno di un’ora sono a Shinjuku. Hotel di categoria, camera (piccola ma perfetta), e all’accoglienza si scusano per non avermi potuto dare upgrade a junior suite, visto che sono al completo.
Per farsi perdonare: bottiglia di vino in omaggio.
Differenza abissale rispetto agli USA, e tutto senza mancia.

Scatto una foto allo skyline.
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Mi giro.
È notte.
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Manco fossi a Bogotá.

Il jet lag è subdolo.
Non ho fame, o la fame arriva in orari da film horror.
Non ho voglia di uscire. Non ho voglia di sedermi in un ristorante d’albergo.
Alla fine, scelgo la via della sopravvivenza: qualcosa di veloce in lounge, giusto per non svegliarmi alle 3 del mattino con un crampo da fame.
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Chiamo casa: lì è mattina.
Resisto fino alle 21. Cerco di dormire fino alle 5.
Illuso.
Alle 2 mi sveglio e inizio il festival del girarsi nel letto. Alle 5 alzo bandiera bianca.
Mi preparo per affrontare la giornata "libera", quella che nel piano di viaggio è indicata come "riposo".

Spoiler: non riposerò affatto.
 
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