6. Khorog-Dušanbe
Ok, cerchiamo di finirlo, questo TR eterno.
Tra noi e la fine c’è la tratta più lunga del viaggio, quella da Khorog a Dušanbe. I reportages e le informazioni che riusciamo a raccogliere dicono diverse cose; chi parla di 14 ore, chi di 12, chi di 20 di auto. Sono 600 km e la strada è in condizioni pietose per almeno 2/3 della via.
C’è, però, una possibile via d’uscita. Usciamo in cerca di un bancomat funzionante, falliamo, cerchiamo una banca aperta (fallimento pure lì) e, non sapendo che altro fare, puntiamo verso l’aeroporto. La cittadina è gradevole, con un’aria urbana che non eravamo più abituati a vedere, almeno fino a quando il vento non cambia e inizia a scatenare tempeste di sabbia nella valle. Arriviamo a tentoni all’aeroporto, dove troviamo un omino seduto su uno sgabello, e un reticolato. Da qui dovrebbe, pare, partire un An28 della Tajik Air, uno dei pochi voli dove si viaggia
tra le montagne, invece che sopra.
L’omino non sa nulla, e chiama un altro omino, il quale sa tre parole di inglese e una di tedesco. L’An28, a quanto pare, è
”Kaputt”. Spalmato contro una riva o rotto non è dato sapere. Volendo ci sarebbe un Mi8, charter, a $2000. Anche avendo i soldi, e non li abbiamo, non vediamo l’elicottero.
”Dušanbe, Dušanbe”. Vabbé, auto sarà.
Il giorno dopo, essendoci accordati per una partenza alle 7.30 con l’amico del cognato della sorella della nostra padrona di casa, ci spaparanziamo su una specie letto-piattaforma rialzata e facciamo una colazione da campioni. Alle 7.00 qualcuno bussa al portone, urlando frasi incomprensibili. Nessuno in casa sembra farci caso e pure noi ce ne strafreghiamo, se non fosse che, quando la padrona va ad aprire alle 7.15, scopriamo che si tratta del nostro autista, già incazzato a morte malgrado fosse lui ad essere in anticipo clamoroso. Da queste parti, se vi dicono alle 9.00, fatevi vedere alle 8.00.
C’impiliamo a bordo dell’ennesima Land Cruiser e l’autista, che vanta una buona somiglianza con Nicola Berti, corre a perdifiato fino al parcheggio delle Land Cruiser perché questa, amici e vicini, è una
marshrutka, un taxi collettivo.
Ci parcheggiamo di fianco a una casa da cui entrano ed escono cooperanti e altri stranieri, ma di compagni di viaggio non se ne vede l’ombra. Nicola Berti vuole caricare altre 5 persone oltre noi, ma una prima analisi di mercato fa propendere per una cronica
sovracapacità sulla rotta Khorog-Dushanbe, con yield in sofferenza. Il parcheggio e la strada sono pieni di Land Cruiser, e non mi sembra che ci sia molta gente disposta a viaggiare. Dopo un’ora, Nicola Berti torna da dov’era andato a nascondersi e mi appoggia un telefono. Segue una quindicina di minuti di contrattazione frenetica, e raggiungiamo un accordo: per 1000 somoni, l’equivalente di 100 euro, M. ed io decidiamo di comprare altri posti, e prenderemo un altro compagno di viaggio. Risaliamo in auto e andiamo ad appostarci ad un distributore di benzina ai margini della città, in attesa del terzo uomo. Nicola, nel frattempo, rimane di umor nero.
Su tutto veglia lui, il Presidente Clamoroso Dott. Ing. Cav. di Gran Croc. Mascalzon. Farabutt. Visconte Emomalii Rahmon o, per gli amici,
"The Founder of Peace and National Unity, Leader of the Nation, President of the Republic of Tajikistan, His Excellency Emomali Rahmon,". Ero stato in Oman, dove i ritratti di Qaboos erano abbastanza comuni, ma Rahmon è su un altro livello. Purtroppo fotografarli è vietato, anzi vietatissimo, ce n’erano alcuni – tipo quello di Rahmon nel campo di papaveri, Rahmon con Putin, Rahmon sul bagnasciuga – che erano epici.
Mentre noi ammiriamo il presidente e il presidente ammira noi, una Land Cruiser ultimo modello, nera coi finestrini neri, si ferma di fianco alla nostra. Il finestrino del guidatore si abbassa, a rivelare tre facce da galera. Nicola Berti corricchia da loro e in maniera nemmeno troppo nascosta Faccia da Galera 1 passa a Berti una busta bianca bella rigonfia. Eccallà, come diceva la sora Lella
”annamo proprio bbene”. M. ed io iniziamo già a pregustare una recensione su Tripadvisor del gabbio tajiko. Pensiamo un po’ a che fare – fuggire, restare – ma un ragionamento ci convince a rimanere. Questo paese, non è poi così brutto dirlo, è quanto di più vicino a un narcostato ci sia al di fuori dell’America Latina, con almeno 90 tonnellate di eroina in transito ogni anno. Le chances che noi si venga beccati per quello che, pur assumendo sia droga, sarà meno di 100 grammi sono poche. Inoltre il nostro Nicola Berti non sembra granché preoccupato, piazzando la busta nel portaoggetti centrale. Certo, rimane sempre la possibilità che lui sia un cojone, ma mi sembra poco credibile.
Ad ogni modo, arriva il terzo passeggero che non è, come pensavamo, un donnone locale con sei valigie e due galline, ma una diciottenne olandese di nome Marieke; il pensiero di avere tre turisti a bordo getta Nicola nello sconforto più totale, ma partiamo.
La strada costeggia per quasi metà percorso l’Afghanistan. La novità di vedere questo paese non se ne va per praticamente l’intero tragitto, e rimaniamo imbambolati a guardare l’altra sponda del fiume Panj per ore. La differenza tra “noi” e “loro” è come il giorno e la notte: di qui, una strada abbastanza ampia, a tratti persino asfaltata; tralicci dell’energia elettrica, case con bagni, negozi con frigoriferi, persino un paio di lampioni, muri dipinti a colori sgargianti, traffico. Di là, un tratturo, case di fango, gente in moto a coppie e in gruppi di tre, zero ‘padelle’ del satellite o tralicci. Spesso la valle si amplia, soprattutto sul lato afghano, e appaiono appezzamenti di terreno lussureggianti, di un verde meraviglioso, ombreggiati da alberi da frutto e tenuti con scrupolo calvinista. Lungo le spiagge si vedono bambini correre in bicicletta e, in un paio di casi, giocare a cricket, poracci loro, sotto il controllo di vegliardi dalla barba grigia. Chissà se ci notano, chissà cosa penseranno di noi.
Dopo ore senza una sosta, passando villaggetti e pattuglie di soldati tajiki, arriva finalmente il momento di abbandonare l’Afghanistan. Nicola Berti ci aveva fatto chiaramente capire che le soste per le foto erano contrarie alla sua religione, ma la vista di ciò che si palesa di fronte a noi ci fa prendere il coraggio a tre mani e obblighiamo Marieke a chiedere una sosta pipì. Ci spariamo fuori dall’abitacolo tutti, e andiamo a vedere un panorama per me incredibile.
Le foto non fanno giustizia al posto, per cui provo a descriverlo. Siamo alla confluenza di una vallata con quella del fiume Panj. La vallata è larga come la Valle d’Aosta a Donnaz, e va avanti per km. Eppure, qui, c’è solo una casa. Solo una. Il resto è completamente, totalmente vuoto. Il torrente ha scavato, con le piene, un alveo profondo, guardate le scarpate; sono almeno una ventina di metri, se non di più. Rimaniamo ancora un po’, poi Nicola Berti ne ha le palle piene e inizia a sgasare. Muovetevi, o parto senza di voi.
Facciamo a malapena 50 metri, ed ecco una coda. Nicolone nostro prova a farsi largo a sgasate, ma viene salutato con l’equivalente tajiko di
“E secondo te siamo tutti qui in coda perché siamo stronzi?”. Scendiamo, e inizia l’ingorgo più divertente cui mi sia mai capitato di partecipare. In pratica, qualcuno sta rifacendo la strada, e per renderla più sicura stanno eliminando delle rocce dalle ripe che stanno sopra a noi. L’unico modo per farlo è di prendere due ruspe, farle salire in alto e buttare giù i massi, un po’ come facevano i salassi coi romani. Ovviamente, nel frattempo, la strada è chiusa al traffico.
Tutti sembrano abbastanza tranquilli e rassegnati a rimanere fermi per un po’, fino alle 18.00 almeno, e allora tanto vale fare amicizia. Un tizio, proprietario del camion qui sotto, arriva e intavola una conversazione con me dalla quale capisco che si fa Shanghai – Dušanbe (un mese) con un carico di televisori, e poi un altro mese per il ritorno. Il nostro è molto premuroso, al punto da offrirmi un po’ di vodka fatta in casa, direttamente dal flacone di shampoo Nivea che usa come alambicco.
All’inizio della coda, invece, fervono dei lavori. Un tizio ha deciso che l’interno del suo UAZ-452, che effettivamente è sotto il sole, è troppo caldo per i suoi gusti, per cui ha smontato schienale e cuscino del sedile e li ha piazzati all’ombra, contro la massicciata. Un altro, probabilmente un venditore itinerante di ferraglia, tira fuori pezzi di sospensioni ad arco e ingranaggi di una frizione; un altro appare, com’è ovvio, con una bilancia elettronica da salumeria. In un attimo la pesa è fatta, e si ritorna ad ascoltare la musica trasmessa dalla cabina dell’escavatore, piazzato di traverso a mo’ di posto di blocco.
Un tizio mi dà un buffetto sulla spalla. Mi giro e finisco addosso al classico paisà della zona, pantaloni di acrilico, camicia rigida di materiale plastico possibilmente infiammabile, canotta, ciabatte e occhiali da sole alla Gabry Ponte. Parte una raffica di russo, le cui uniche parole che riesco a capire sono “Marco Polosky” o roba simile. Sospetto che si riferisca alla
Marco Polo Sheep, un ovino indigeno provvisto di un paio di corna degne di uno stambecco, ma nel dubbio mi fingo tonto. Per niente scoraggiato, il nostro estrae il suo Samsung Galaxy 180 e, come sfondo del desktop – o come diavolo si chiama – ecco per l’appunto un grosso esemplare di pecora Marco Polo. Ci invita a seguirlo.
Subodoro qualche pacco, ma decidiamo di seguirlo su per un sentiero da capre, che dà su uno strapiombo vertiginoso. Assieme a lui, spuntati da chissà dove, sono almeno una mezza dozzina di persone, per niente sorprese dell’arrivo di due italiani e un’olandese. Un tizio – immaginatevi il ragioner Filini senza gli occhiali, infagottato in una divisa mimetica tipo quella italiana degli anni ’90 – ci allunga un binocolo. Dopo i plane e train, ecco i goat spotters.
La pecora, però, è sparita dietro il declivio della montagna apposta.
Prosti, prosti ripete Filini, quasi fosse colpa sua. Lo assicuriamo del fatto che non gliene vorremo, e ridiscendiamo. La strada è finalmente riaperta.
Nicola Berti è incazzatissimo, e si vede. Parte una corsa tipo Wacky Races con tutte le Land Cruiser, schivando buchi random, gente che attraversa la strada e mucche suicide. Veniamo fermati ad almeno nove posti di blocco, e a ognuno di questi Nicola Berti dovrà pagare una tangente, cosa che aumenterà a dismisura il suo buonumore. Passiamo attraverso Kulob, ci fermiamo brevissimamente per una cena in un localaccio adornato da una limousine Cadillac parcheggiata all’ingresso, e poi facciamo una tirata fino a Dušanbe, che raggiungiamo alle 21, dopo 14 ore e 47 minuti. Ci fermiamo a consegnare la famosa busta, che si rivela contenere solo soldi, e a prendere un paio di birre. Pamir Highway, sei stata meravigliosa.
…Continua, manca poco!