4. Nel regno della paranoia.
A meno che non abbiate deciso di diventare coinquilini di Patrick Starfish sotto al sasso di Bikini Bottom saprete tutti della situazione in Xinjiang. Saprete dei campi di concentramento per uiguri, della sinizzazione forzata, del controllo, del “surge” delle forze di sicurezza a seguito di
molti, alcuni invero scioccanti e sanguinosi, attentati islamisti commessi dentro e fuori la regione.
Perché andarci?
La risposta è la stessa che ho dato a chi mi chiedeva la stessa domanda per Aralsk o per Ramallah e Betlemme. Per vedere coi miei occhi e, forse, per capirci qualcosa.
Ma andiamo con ordine. Questa é la cronaca, fredda cronaca, del mio ingresso in Cina dal varco di Irkeshtam. E' un post lungo e con poche foto, per ovvi motivi.
Shamurat si offre, per $50, di portarmi al confine e fino alla fine della “terra di nessuno”. La strada, per arrivarci, é di una bellezza che fa male. Questo é il mio ultimo viaggio in Kyrgyzstan, ma sembra che il paese mi stia dicendo
”Eddai, ancora una volta”. Questo paese è crack.
In Kyrgyzstan ci sono tre controlli: uno all’inizio della zona di confine per accertarsi che si abbia o un permesso speciale o si voglia andare veramente in Cina; il confine vero e proprio; un ultimo milite alla fine della parte di competenza kirghisa. Sbrigo tutto in un’ora e mezza dalla partenza da Sary Tash.
E poi inizia il bello.
Controllo n.1
Mi inerpico su per una salita, usando un sentiero per capre che aggira i tornanti indicatomi da un complice camionista. I camion sono ovunque, in una fila enorme verso la Cina. Ricordiamoci che questi camion o sono vuoti o portano carbone.
Il primo controllo è alla cima del crinale. Filo spinato in triplice fila ovunque. La strada è delimitata da una barriera metallica con in cima filo spinato e rete elettrificata. Su una collina ci sono slogan in cinese, e una mappa del paese disegnata con le pietre.
Un soldato sta in una garitta di metallo e vetro, piazzata in pieno sole. È comprensibilmente incazzato di dover essere lì a guardarmi e a scrivere i miei dati in un libraccio. Fatto questo mi tira il passaporto indietro, grugnisce qualcosa al mio
”xie xie”. Penso di dirgli
”Viva il grande timoniere!” ma decido di non fare il pirla: il consiglio ricevuto da chi ha fatto questo confine prima è PSC:
Patience, Smiles, Compliance.
Controllo n.2
Il secondo controllo è pochi passi dopo il primo. Una Portakabin della polizia, decorata con lo slogan
Sunshine service, che suona brutto quanto sembra. Dentro ci sono 5 poliziotti e i loro equipaggiamenti. Il mio passaporto viene passato di mano in mano, di nuovo vengono trascritti i dettagli su un registro e, nel frattempo, mi spiegano i passi successivi. L’immigrazione è a 24 km di distanza, e non posso andarci da solo.
”You get lost”. Come possa perdermi, considerando che c’è una strada e un reticolato che non posso scavalcare, ma sorvoliamo. I poliziotti si offrono di mettermi su un camion, e di li a poco arriva Rakhmat, direttamente dall’Uzbekistan. Lui sembra felice di avere compagnia e, ovviamente, finiamo a cantare Toto Cotugno insieme.
Mi aspettavo di procedere abbastanza spediti ma, no, l’intero percorso è un ingorgo di camion. Solo in ingresso, nessuno in uscita. Rakhmat la prende con filosofia, ma si vede che è esasperato: Uzbekistan e Kyrgyzstan timbrano e via, mi dice.
”Khitai, stop stop stop. Blyat.”
Rimaniamo fermi per un’ora sotto al sole, parlando - per modo di dire - col resto del convoglio uzbeko. Mi offrono caramelle, tè, pane. Ad un certo punto - siamo entrati in camion di nuovo, sembra che le cose si stiano per muovere - Rakhmat si sporge dal finestrino e grida qualcosa.
”Italiano, tùrist, tùrist!”. Poi si gira, indica in basso e fa
”Fabr’ssio, taxi, davai!”. Scendo e vedo che il “taxi” fermato da Rakhmat altro non è che un SUV della polizia, con a bordo un milite sorpreso di vedermi quanto io lo sono di lui. Ringrazio Rakhmat e corro su; tutti gli uzbeki mi salutano mentre percorriamo in minuti il percorso che loro prenderanno ore a fare.
Controllo n.3
L’immigrazione è un capannone enorme: da un lato c’è l’enorme macchina a raggi X che ispeziona tutti i camion, dall’altro la zona pedoni. Un donnino in divisa nera mi invita dentro.
Sono l’unico cliente e ho due poliziotti a prendersi cura di me: il donnino ispeziona il passaporto, poi procede ad accedere al mio telefono con una scatola che collega alla porta dell’iPhone. No spyware, stranamente. Poi è il turno della macchina fotografica. Il monsù, invece, mi interroga usando un’app per tradurre, in maniera blanda. L’umore è rilassato, l’unico problema è spiegare dov’è il Cile: le foto delle vigogne sono rimaste nella camera.
Controllo n.4
Questo è l’anteprima di qualcosa che diventerà molto famigliare: una combo raggi X, metal detector e gate biometrico, che però non sembra funzionare bene coi passaporti. Ce la caviamo in minuti con l’aiuto della poliziotta.
Controllo n.5
Apertura completa dello zaino ed ispezione di ogni suo singolo contenuto. La faccenda discende in cabaret quando devo spiegare le varie medicine. Sono al tavolo, davanti a me ho 3 poliziotti, donnino incluso, più quello dell’app che non riesce a smettere di guardare le vigogne. Pescano l’Imodium e mi chiedono di spiegare a che serve. Mimo ciò che blocca e muoiono tutti dal ridere. Poi è il turno del Gaviscon. Risate omeriche. La faccio breve: ora che finiamo col Dioralyte e l’Aspirina il donnino sta piangendo dal ridere e un altro è sul punto di avere una sincope.
Il passo successivo è la dogana a Uluqqat, 180km più in là. I miei nuovi amici mi presentano un omino, che risulta essere tassista.
Nel suo finto Nissan Vanette ci sono altri tre viaggiatori: due Han e un kirghiso di nome Ulug; 100 yuan e siamo in marcia, non prima dei
Controlli 6 e 7.
L’autostrada è interrotta da una specie di autogrill/casello autostradale, che però è in realtà un checkpoint. X-ray, detector, varco biometrico, non un Camogli in vista e in più tutti i dettagli sono di nuovo scritti a mano su un registro. I poliziotti sono spesso uiguri e non hanno chissà che dimestichezza con cirillico o latino, per cui... sono dolori.
Nel frattempo uno dei due Han dice
Mobbasta, me faccio la Residence dei povery [cit.]
Controllo 8.
La dogana!!! La Cina marcia sull’orario di Pechino, due ore avanti il Kyrgyzstan. Arriviamo allo svincolo per Uluqqat alle 3 meno 10; su internet ho letto che la dogana chiude dalle 13 alle 16 per “pranzo”, e infatti c’è la consueta coda di camion. Parcheggiamo all’ombra di un sovrappasso e aspettiamo. Le tre. Tre e mezza. Quattro. Quattro e un quarto. Quattro e mezza. Niente.
Alle cinque meno venti al nostro si chiude una vena e, spinto da solenni zooteologismi, supera tutti i camion in sosta e arriva davanti al cancello. Due militi arrivano, aprono, entriamo. Il cancello si richiude. La dogana è enorme e ci siamo solo noi.
L’interrogatorio è abbastanza lungo, ma amichevole, e finisce con uno dei doganieri che mi fa
”You number 1 cool guy”. Di ‘sti tempi bisogna trovare i complimenti dove si può. Deciso ciò, andiamo al controllo successivo.
Controllo n. 9
Questo è il vero controllo passaporti, quello che si fa all’aeroporto a Shanghai o Pechino. I miei nuovi amici sono tutti riuniti intorno al capoccia in consolle, un kazako a giudicare dai lineamenti. L’indaffaratura generale mi fa temere uno sdoganamento da drio [cit.] ma, in realtà, volevano attivare i comandi vocali in italiano. Alla fine il documento è stampato e siamo dentro. Finita?
No. C’è ancora tempo per
Controllo n. 10
Ispezione dello zaino. E per, una volta usciti dalla dogana,
Controllo n.11
Ispezione del passaporto in un cabinotto appena fuori dal cancello.
E per gradire, aggiungiamo anche
Controllo n. 12
Dieci metri dopo l’11, trenta dopo la dogana, nuova session di foto e trascrizione dei dati in un registro, il tutto allietato dall’arrivo di 15 camionisti kirghizi che hanno impiegato due giorni a farsi la trafila.
Fatto ciò, il finto-Vanette ci lascia a una stazione di bus e taxi. Entro, non prima di aver passato il
Controllo no. 13
Per mano di due poliziotti armati di fucile, e compro un biglietto per Kashgar. Un brav’uomo si prende a pietà e mi accompagna fino allo spiazzo da cui partono le auto: chiedo in giro e mi indicano una berlina con già su 3 passeggeri, tra cui il fratello minore di Jabba the Hutt, seduto vicino a me. Partiamo e sono solo 95km per Kashgar. Ovviamente non possiamo esimerci dal fare
Controlli n. 14 e 15
Ancora altri finti autogrill, X-ray e metal detector. Per gli indigeni è semplice, uno semplice pass della carta d’identità e via; per me invece ci va la trascrizione sul libraccio, domandine e domandone. Mi chiedono l’hotel e gli dò la stampata in cinese: peccato sian tutti uiguri e non sappiano leggere; va trovato uno studiato. Il tassista mi ricopre di parole che non credo siano complimenti, io rispondo a tono in italiano e tutti trovano la cosa divertente. Jabba inizia a dormirmi sulla spalla.
Alla fine, nove ore dopo la partenza, vengo scaricato alla stazione dei bus di Kashgar. Ho bisogno di lavarmi, di dormire e di alcol. Soprattutto alcol.
Continua!