Ho ricevuto tantissime richieste (tre) da parte di moltissime persone (due) per raccontare questa mia disavventura, per cui eccomi qui. Non e' un TR nel senso classico del termine, ho pochissime foto e sono per lo più parole. Spero vi piaccia.
“First of all, we don't fly crap airplanes that are 35 years old.” Queste sono le parole che Akbar Al Baker, CEO e mammasantissima di Qatar Airways, ha usato per definire Delta a una conferenza non troppo tempo fa. Al Baker non mi sta per niente simpatico – ho sentito troppi racconti di prima mano dei suoi comportamenti, e della cultura aziendale di QR – ma, mentre finalmente m’imbarco sul terzo aereo di un viaggi iniziato 15 ore prima e ripenso alla mia avventura, non posso fare a meno di dargli ragione. Non ho volato Delta ma la nuova AA/US e gli aerei non avevano 35 anni, ma poco importa; oggi, per me, Akbar Al Baker ha ragione da vendere.
Tutto inizia con un ritorno al passato. Il mio vecchio team si è smembrato, dopo un anno e mezzo di lavoro a tutta forza premiato nemmeno con un rifiuto, ma con la messa in ghiacciaia del nostro progetto. Il capo ha lasciato l’azienda, io ho cambiato dipartimento, gli altri si trovano alle prese con l’ovvia e amara alternativa alla nostra idea: outsourcing.
Non tutto, però, è perduto. I giorni passati a lavorare dalle 7 alle 7, i viaggi, le presentazioni, i business case hanno cementato un’amicizia che sopravvive alle distanze e alle amarezze. Questo weekend è una rimpatriata, la ricostituzione del gruppo a diciotto mesi dalla nostra sconfitta, e inizia – ovviamente – da Madrid.
Nella vasta flotta di IAG, solo un tipo mi manca: l’A346 IB, un visitatore abbastanza abituale a Londra, se non fosse che – tutte le volte che ho prenotato un posto – mi sono trovato o sul 333 o sul 343. Oggi non è differente: il 346 viene cambiato con un 342 – un 343 con vecchi interni – il giorno prima della partenza, e cosi mi ritrovo su “Conception”, un ferrovecchio con i sedili senza IFE, duri come panche, di quelli in grado di squadrarti il culo in sole due ore e mezza di viaggio, figurarsi su un Madrid-Havana.
Sia come sia, il giorno seguente mi vede riunito con JC, la colonna spagnola del nostro vecchio gruppo. JC conosce l’intero gruppo di tecnici della manutenzione BA, e ci prendiamo un caffe con uno di loro. Il giorno prima i ragazzi hanno faticato fino all’una di notte per sistemare il 763 American per Miami, ripartito vuoto per la base dopo una riparazione alla bell’e meglio. “They’re getting worse than Concorde” è il commento dei ragazzi più stagionati, ed è qualcosa che non si sente tutti i giorni. Concorde era talmente inaffidabile che la prassi era di averne uno sempre in riserva, letteralmente a fianco di quello in partenza. I cambi dell’ultimo minuto erano la norma anziché l’eccezione.
La cancellazione del MIA mi preoccupa un po’. Stiamo volando standby, o non-rev come dicono in America, e una cancellazione causa sempre overbooking sugli altri aerei, specie su quelli della stessa compagnia. E il nostro A330-200, destinazione Charlotte, batte la stessa bandiera del 767 caduto sul fronte floridense. Per fortuna la maggior parte dei viaggiatori è stata riprotetta sui voli Iberia e su quello per New York, per cui riusciamo a salire senza troppi problemi. Purtroppo l’equipaggio si accorge di un problema – manca l’acqua – ed ecco le famigliari polo bordeaux BA che appaiono a bordo. Passa mezz’ora, un po’ di smanettamenti, un Ningún problema, jefe e siamo pronti.
Una volta in aria inizio a guardarmi intorno, prendendo le misure dell’aereo. Le hostess credo non siano più mestruate dalla seconda presidenza Reagan; la pulizia è un po’ approssimativa – la tasca del mio sedile è decorata con un interessante patchwork fatto di chewing gum e carta appiccicata - ; l’IFE e’ di buona qualità ma il touchscreen ha una responsività al tocco tale da meritagli il nomignolo di punch-screen; Dolly Parton figura nella sezione ‘Classical music’. Dicevo appunto delle hostess. Al di là della non più verdissima età, bisogna aggiungere che la simpatia non è il loro forte. Prendi la signora che si sta lavorando il pezzo di corridoio intorno al mio sedile, per esempio. Sul suo grembiule ha appuntato alcune grosse spille, che suppongo non siano di provenienza US Airways, di cui una proclama ‘I LUV my job, don’t make me HATE it’, un’altra sostiene ‘I know and you know that you are the most important person on the plane. But who’s gonna tell all the others?’ e il tocco di grazia ‘Jumpseat therapist’.
Oltre a pattugliare il corridoio, la nostra è anche responsabile per gli annunci, che effettua in inglese e spagnolo da madrelingua. Prendiamo ad esempio l’annuncio fatto dopo una buona quarantina di minuti dal decollo: il volo è tranquillo, niente turbolenze ne’ scossoni, ma il segnale ‘allacciate le cinture’ rimane acceso. Siccome sono un cinico suppongo che sia dovuto più al desiderio degli AAVV di non aver gente tra le balle mentre preparano il pranzo, invece che al desiderio di evitarci gli effetti di una CAT. Qualunque sia la verità rimango seduto, mentre altri iniziano i pellegrinaggi ai bagni; la nostra, sempre vigile, annuncia urbi et orbi “The seatbelts are still on. I am gonna count from three to one and I want everyone seated by the two. You don’t wanna make me go down to one”, con relativa traduzione letterale in spagnolo.
Vabbè, esploriamo il sedile.
La prima nota dolente è il sedile stesso: è molto simile a quello che Alitalia usa sugli A320 di corto, quindi poco profilato, senza un poggiatesta regolabile e rivestito in pelle o simile. Tutto bene se stessimo facendo un Lamezia Terme-Linate, ma su un volo di otto/nove ore un sedile del genere è criminale. Scenderò a Charlotte con la colonna vertebrale reimpostata a forma di “L”. Quanto al legroom, invece, niente da eccepire, molto meglio di certe europee.
Dell’IFE, avevo già detto, buona la scelta dei film e la qualità dell’audio; certo, le scelte musicali sono un po’ dubbie, ma comunque godibili. La rivista di bordo è quella standard di American che, a confrontarla anche solo con quello che producono north of the border in casa Air Canada, sembra messa insieme da Alberto Malesani e con Antonio Razzi come correttore di bozze. A rendere più distopico il tutto sono gli annunci pubblicitari, a metà tra le inserzioni che si possono trovare sull’Eco di Biella e i giornalini parrocchiali. Consigliatissimo a chi ha un forte gusto dell’orrido, ecco giusto due chicche: una pubblicità per veterani interessati a diventare idraulici e il miglior ortopedico d’America. You couldn’t make this stuff up.
Gli annunci mi tengono occupato fino all’arrivo del pranzo, preannunciato da un perentorio “Pasta or chicken?” che mi riempie di aspettative ed eccitazione. A onor del vero, invece, il cibo non è male, o forse sono cinque anni nella perfida Albione (e anni di mensa dalle suore prima ancora) ad avermi fottuto le papille gustative. L’unica cosa un po’ strana è l’insalata fredda di lenticchie, ma non stiamo a sindacare. Da bere ci sono vino, birra (quattro scelte), succhi, superalcolici a pagamento e guai a chiedere un refill di alcol come il tizio seduto davanti a me ha avuto l’ardire di chiedere. Credo che pagherà milioni in terapia.
Il resto del volo passa allegramente guardando film di guerra (US Air ha un arsenale di pellicole che fanno “bum” nell’IFE) finche’ non arriva il momento di riempire la landing card. Come sempre, sbaglio la prima. So che hanno detto, ridetto e ri-ripetuto che non avrebbero dato altre cards, ma il bisogno è supremo: raccolgo il coraggio a due mani e, con la mia miglior faccia da bravo ragazzo e sorrisone accattiva-nonne, provo a chiederne un’altra a LUV, che passa di lì di ritorno dalla raccolta dei vassoi. Un gruppone di landing cards troneggia sul trolley. La domanda alla mia richiesta è: “Were you sleeping when I handed ‘em out the first time, huh?”. Gioco la carta dell’onestà (coopera con le autorità, sempre!) e ammetto l’errore. “This is PRECISELY the reason why we said we weren’t gonna give out more. You folks make mistakes and we run out of cards”. Faccio notare che ne ha almeno una sessantina in bilico sul trolley e, sbuffando, me ne recapita una in spagnolo. Faccio notare che, in spagnolo, so a malapena chiedere una birra. Altro sbuffo degno di un capodoglio, e arriva quella inglese. Per il resto del volo verrò ignorato da LUV, cosa che mi va più che bene; all’atterraggio, salutandola, riceverò solo un roteamento di occhi. Onestamente, se chiedere una landing card basta a mandarla fuori dai gangheri, non oso immaginare cosa potrebbe succedere qualora dovesse andare, che so, alla Motorizzazione civile o all’Agenzia delle Entrate.
Comunque, tra noi e le Forche Caudine dell’immigrazione c’è ancora la colazione che consiste in una specie di piadina-crepe non troppo cotta, con basilico e abbondante spruzzata di conservanti (scadenza aprile 2016) e tortino al cocco che suppongo abbia sostituito il waterboarding come tecnica per estorcere informazioni ai cattivi di Al Qaeda. Ritirato il tutto, siamo a terra e pronti a quest’ennesima permanenza nella Land of the Free.
“First of all, we don't fly crap airplanes that are 35 years old.” Queste sono le parole che Akbar Al Baker, CEO e mammasantissima di Qatar Airways, ha usato per definire Delta a una conferenza non troppo tempo fa. Al Baker non mi sta per niente simpatico – ho sentito troppi racconti di prima mano dei suoi comportamenti, e della cultura aziendale di QR – ma, mentre finalmente m’imbarco sul terzo aereo di un viaggi iniziato 15 ore prima e ripenso alla mia avventura, non posso fare a meno di dargli ragione. Non ho volato Delta ma la nuova AA/US e gli aerei non avevano 35 anni, ma poco importa; oggi, per me, Akbar Al Baker ha ragione da vendere.
Tutto inizia con un ritorno al passato. Il mio vecchio team si è smembrato, dopo un anno e mezzo di lavoro a tutta forza premiato nemmeno con un rifiuto, ma con la messa in ghiacciaia del nostro progetto. Il capo ha lasciato l’azienda, io ho cambiato dipartimento, gli altri si trovano alle prese con l’ovvia e amara alternativa alla nostra idea: outsourcing.
Non tutto, però, è perduto. I giorni passati a lavorare dalle 7 alle 7, i viaggi, le presentazioni, i business case hanno cementato un’amicizia che sopravvive alle distanze e alle amarezze. Questo weekend è una rimpatriata, la ricostituzione del gruppo a diciotto mesi dalla nostra sconfitta, e inizia – ovviamente – da Madrid.
Nella vasta flotta di IAG, solo un tipo mi manca: l’A346 IB, un visitatore abbastanza abituale a Londra, se non fosse che – tutte le volte che ho prenotato un posto – mi sono trovato o sul 333 o sul 343. Oggi non è differente: il 346 viene cambiato con un 342 – un 343 con vecchi interni – il giorno prima della partenza, e cosi mi ritrovo su “Conception”, un ferrovecchio con i sedili senza IFE, duri come panche, di quelli in grado di squadrarti il culo in sole due ore e mezza di viaggio, figurarsi su un Madrid-Havana.
Sia come sia, il giorno seguente mi vede riunito con JC, la colonna spagnola del nostro vecchio gruppo. JC conosce l’intero gruppo di tecnici della manutenzione BA, e ci prendiamo un caffe con uno di loro. Il giorno prima i ragazzi hanno faticato fino all’una di notte per sistemare il 763 American per Miami, ripartito vuoto per la base dopo una riparazione alla bell’e meglio. “They’re getting worse than Concorde” è il commento dei ragazzi più stagionati, ed è qualcosa che non si sente tutti i giorni. Concorde era talmente inaffidabile che la prassi era di averne uno sempre in riserva, letteralmente a fianco di quello in partenza. I cambi dell’ultimo minuto erano la norma anziché l’eccezione.
La cancellazione del MIA mi preoccupa un po’. Stiamo volando standby, o non-rev come dicono in America, e una cancellazione causa sempre overbooking sugli altri aerei, specie su quelli della stessa compagnia. E il nostro A330-200, destinazione Charlotte, batte la stessa bandiera del 767 caduto sul fronte floridense. Per fortuna la maggior parte dei viaggiatori è stata riprotetta sui voli Iberia e su quello per New York, per cui riusciamo a salire senza troppi problemi. Purtroppo l’equipaggio si accorge di un problema – manca l’acqua – ed ecco le famigliari polo bordeaux BA che appaiono a bordo. Passa mezz’ora, un po’ di smanettamenti, un Ningún problema, jefe e siamo pronti.
Una volta in aria inizio a guardarmi intorno, prendendo le misure dell’aereo. Le hostess credo non siano più mestruate dalla seconda presidenza Reagan; la pulizia è un po’ approssimativa – la tasca del mio sedile è decorata con un interessante patchwork fatto di chewing gum e carta appiccicata - ; l’IFE e’ di buona qualità ma il touchscreen ha una responsività al tocco tale da meritagli il nomignolo di punch-screen; Dolly Parton figura nella sezione ‘Classical music’. Dicevo appunto delle hostess. Al di là della non più verdissima età, bisogna aggiungere che la simpatia non è il loro forte. Prendi la signora che si sta lavorando il pezzo di corridoio intorno al mio sedile, per esempio. Sul suo grembiule ha appuntato alcune grosse spille, che suppongo non siano di provenienza US Airways, di cui una proclama ‘I LUV my job, don’t make me HATE it’, un’altra sostiene ‘I know and you know that you are the most important person on the plane. But who’s gonna tell all the others?’ e il tocco di grazia ‘Jumpseat therapist’.
Oltre a pattugliare il corridoio, la nostra è anche responsabile per gli annunci, che effettua in inglese e spagnolo da madrelingua. Prendiamo ad esempio l’annuncio fatto dopo una buona quarantina di minuti dal decollo: il volo è tranquillo, niente turbolenze ne’ scossoni, ma il segnale ‘allacciate le cinture’ rimane acceso. Siccome sono un cinico suppongo che sia dovuto più al desiderio degli AAVV di non aver gente tra le balle mentre preparano il pranzo, invece che al desiderio di evitarci gli effetti di una CAT. Qualunque sia la verità rimango seduto, mentre altri iniziano i pellegrinaggi ai bagni; la nostra, sempre vigile, annuncia urbi et orbi “The seatbelts are still on. I am gonna count from three to one and I want everyone seated by the two. You don’t wanna make me go down to one”, con relativa traduzione letterale in spagnolo.
Vabbè, esploriamo il sedile.
La prima nota dolente è il sedile stesso: è molto simile a quello che Alitalia usa sugli A320 di corto, quindi poco profilato, senza un poggiatesta regolabile e rivestito in pelle o simile. Tutto bene se stessimo facendo un Lamezia Terme-Linate, ma su un volo di otto/nove ore un sedile del genere è criminale. Scenderò a Charlotte con la colonna vertebrale reimpostata a forma di “L”. Quanto al legroom, invece, niente da eccepire, molto meglio di certe europee.
Dell’IFE, avevo già detto, buona la scelta dei film e la qualità dell’audio; certo, le scelte musicali sono un po’ dubbie, ma comunque godibili. La rivista di bordo è quella standard di American che, a confrontarla anche solo con quello che producono north of the border in casa Air Canada, sembra messa insieme da Alberto Malesani e con Antonio Razzi come correttore di bozze. A rendere più distopico il tutto sono gli annunci pubblicitari, a metà tra le inserzioni che si possono trovare sull’Eco di Biella e i giornalini parrocchiali. Consigliatissimo a chi ha un forte gusto dell’orrido, ecco giusto due chicche: una pubblicità per veterani interessati a diventare idraulici e il miglior ortopedico d’America. You couldn’t make this stuff up.
Gli annunci mi tengono occupato fino all’arrivo del pranzo, preannunciato da un perentorio “Pasta or chicken?” che mi riempie di aspettative ed eccitazione. A onor del vero, invece, il cibo non è male, o forse sono cinque anni nella perfida Albione (e anni di mensa dalle suore prima ancora) ad avermi fottuto le papille gustative. L’unica cosa un po’ strana è l’insalata fredda di lenticchie, ma non stiamo a sindacare. Da bere ci sono vino, birra (quattro scelte), succhi, superalcolici a pagamento e guai a chiedere un refill di alcol come il tizio seduto davanti a me ha avuto l’ardire di chiedere. Credo che pagherà milioni in terapia.
Il resto del volo passa allegramente guardando film di guerra (US Air ha un arsenale di pellicole che fanno “bum” nell’IFE) finche’ non arriva il momento di riempire la landing card. Come sempre, sbaglio la prima. So che hanno detto, ridetto e ri-ripetuto che non avrebbero dato altre cards, ma il bisogno è supremo: raccolgo il coraggio a due mani e, con la mia miglior faccia da bravo ragazzo e sorrisone accattiva-nonne, provo a chiederne un’altra a LUV, che passa di lì di ritorno dalla raccolta dei vassoi. Un gruppone di landing cards troneggia sul trolley. La domanda alla mia richiesta è: “Were you sleeping when I handed ‘em out the first time, huh?”. Gioco la carta dell’onestà (coopera con le autorità, sempre!) e ammetto l’errore. “This is PRECISELY the reason why we said we weren’t gonna give out more. You folks make mistakes and we run out of cards”. Faccio notare che ne ha almeno una sessantina in bilico sul trolley e, sbuffando, me ne recapita una in spagnolo. Faccio notare che, in spagnolo, so a malapena chiedere una birra. Altro sbuffo degno di un capodoglio, e arriva quella inglese. Per il resto del volo verrò ignorato da LUV, cosa che mi va più che bene; all’atterraggio, salutandola, riceverò solo un roteamento di occhi. Onestamente, se chiedere una landing card basta a mandarla fuori dai gangheri, non oso immaginare cosa potrebbe succedere qualora dovesse andare, che so, alla Motorizzazione civile o all’Agenzia delle Entrate.
Comunque, tra noi e le Forche Caudine dell’immigrazione c’è ancora la colazione che consiste in una specie di piadina-crepe non troppo cotta, con basilico e abbondante spruzzata di conservanti (scadenza aprile 2016) e tortino al cocco che suppongo abbia sostituito il waterboarding come tecnica per estorcere informazioni ai cattivi di Al Qaeda. Ritirato il tutto, siamo a terra e pronti a quest’ennesima permanenza nella Land of the Free.