[TR] L'eclissi dei quadrimotori: i miei (probabilmente) ultimi 747 e 340 [FINITO]


I-DAVE

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6 Novembre 2005
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a Taiwan, nel cuore e nella mente
Alzi la mano chi sa dire, a memoria, le dieci città più popolose della Corea del Sud. Forse, se siete particolarmente ferrati, potreste conoscere Seoul e Busan. Magari Incheon, che fa tutt'uno con la capitale. Se nominate anche Daegu, vi stringo la mano.

Suwon, una sconosciuta metropoli di 1.2 milioni di anime, è da qualche parte nella top ten, peraltro a soli 35 chilometri da Seoul stessa. Sfido la maggior parte delle persone a metterla su una mappa. Eppure...

Constatato che la valigia è già troppo piena per essere solo all'inizio della vacanza, faccio il check-out, ringrazio la sorridentissima addetta alla reception e trascino il baule fino all'ascensore, e via fino alla fermata della metro, dove so già che mi perderò nei cunicoli alla ricerca di scale mobili e ascensori.

Sotto Seoul Station mi perdo un paio di volte alla ricerca degli armadietti per lasciare la valigia, e per buona sicurezza scatto una mezza dozzina di foto all'area per coadiuvare la mia fallace memoria fotografica nel successivo recupero del bagaglio.

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La costruzione della nuova stazione ad alta velocità non è particolarmente ispirata - un po' di vetro qui, una spruzzata di colonne portanti a vista là, un tetto aggettante a condire - ma è funzionale.

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Poche decine di metri più in là si trova l'originaria stazione imperiale, costruita in stile eclettico e finita negli anni '20. Oggi ospita... qualcosa. Di culturale. Ecco.

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Ispirati dalla high line niuocchese, anche qui hanno costruito un parco lineare su una vecchia strada sopraelevata. Visto che ho una ventina di minuti prima della partenza del treno, faccio un salto veloce.

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L'idea è di renderlo una specie di vivaio per la città, da dove prelevare alberi da trapiantare in altre zone, mano a mano che qui crescono in santa pace. Il parco è lungo circa un chilometro, in buona parte sopraelevato.

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La posizione rialzata offre delle prospettive interessanti.

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L'antico di Seoul è lettaralmente sovrastato dal moderno.

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Le due stazioni. La cappa di smog mi ha per un attimo riportato in val Padana, ed è subito amore.

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Con un po' di fatica, capisco come fare il biglietto alle macchinette automatiche riservate agli stranieri; ci sono dozzine di treni che portano a Suwon, in circa 30 minuti; volendo, c'è anche la linea 1 della metropolitana di Seoul, un mostro di linea da circa 200 km considerando le varie diramazioni, di cui però solo una piccolissima parte è sotterranea e, effettivamente, sotto Seoul. Con la metro, posto che prendiate la direzione giusta, ci vuole circa un'ora.

Preferisco il treno, decisamente comodo e spazioso.

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La stazione di Suwon è un altro pachiderma che include shopping mall, ristoranti e chissà cos'altro. Ma almeno è stato studiato per esserlo, quindi non ha le idiosincrasie e idiozie architettoniche che Grandi Stazioni ha incluso all'interno delle nostre stazioni che sono anche monumenti.

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La stazione non è proprio vicinissima al centro, dove si trova la fortezza di Hwaseong con le relative mura che è la meta della gita. La prima parte della passeggiata non è particolarmente significativa - potrebbe essere il vialone principale di un qualsiasi quartiere residenziale in una qualsiasi parte del mondo.

Catturo giusto questo murale perché mi sembra curioso vederlo proprio fuori da un bagno pubblico - probabilmente un messaggio subliminale sulla sorte che attenderà il pipino di quelli dalla mira non impeccabile. In effetti il bagno era immacolato.

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Come resistere ad un drago (o una carpa?) mentre campanellini e tamburi suonano tutt'intorno.

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Sì, io sono uno di quelli che, quando vede un gatto, diventa tipo deficiente.

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Durante tutta la camminata, c'è il continuo rumore dei jet militari in pattuglia nello spazio aereo sopra di me. La base aerea di Osan è poco più a sud di Suwon. Parlando di cose militari, arrivo alla Hwaseong Haenggung, la dimora temporanea in città quando il re veniva ad adorare gli antenati.

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La fortezza e il palazzo erano concepiti come parte del progetto di trasferire la capitale da Seoul; interamente circondata da spesse mura in pietra (che appunto costituiscono la fortificazione), lontana dagli intrighi di corte di Seoul, avrebbe dovuto permettere al re Jeongjo di portare avanti il suo ambizioso programma di riforme.

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Ovviamente fallì, ma ci lasciò una delle più importanti piazzeforti asiatiche e una delle pochissime che riunì i principi costruittivi delle fortezze europee con quelle asiatiche. Oggi è patrimonio dell'UNESCO.

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Alcuni interni sono stati preservati.

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Non ci sono in giro molte persone. Da qui si può salire lungo le mura, che sono state gravemente danneggiate durante la guerra di Corea. Suwon passò di mano quattro volte prima di rientrare sotto il territorio sud coreano; durante la ricostruzione degli anni '50, alcuni tratti non furono ripristinati per favorire la circolazione veicolare, ma la maggior parte è stata accuratamente restaurata.

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Uno dei pochi esempi di barbacane in Asia.

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Passeggio lungo le mura. Torre e torri.

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Per essere una struttura militare, è riccamente decorata.

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Le mura salgono in mezzo ad un bosco. La passeggiata è corroborante (vale a dire, sui gradini ho sputato l'anima).

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In cima si trova un padiglione e un ottimo punto panoramico per vedere il centro città.

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Per chi suona la campana? Pagando un biglietto, è possibile suonarla.

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Scendo nuovamente e torno verso la stazione, non prima di aver acquistato in un negozietto questa delizia. Un giorno o l'altro scriverò un articolo sulle bevande asiatiche, di cui mi pregio essere un estimatore.

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Lungo il marciapiede vedo questo curioso "safety booth" dentro cui ci si può rinchiudere e chiamare i servizi di emergenza, nonostante il tasso di criminalità sia piuttosto basso.

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Arrivo in stazione appena in tempo per saltare sul primo treno diretto a Seoul, fotocopia di quello dell'andata - mezzora di tragitto confortevole su un treno mezzo vuoto.

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Ho ancora un paio di ore prima di prendere un treno tardo serale per Daegu; e, giusto vicino alla stazione, c'è un'ultima cosa che mi interessa visitare - il Deoksugung Palace, l'ultimo dei cinque costruiti durante la dinastia Joseon.

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Il palazzo si estende su un parco costruito alla maniera occidentale.

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I due palazzi in stile occidentale presenti entro le mura di cinta, di inizio '900, ospitano ora due musei. Uno dei due aveva un passaggio segreto (tutt'ora esistente) che lo collegava all'edificio dell'Emissario Russo.

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È il più piccolo dei cinque grandi palazzi imperiali, ma secondo me più piacevole da visitare per il parco e la minore affluenza.

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Qua e là vi sono alcune opere di arte contemporeanea.

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La mia ultima immagine di Seoul, tolta la stazione, è la porta di Daehanmun, che sarebbe la porta orientale. Solitamente, gli ingressi principali ai palazzi coreani sono in corrispondenza della porta sud; tuttavia, essendo questa prospicente la strada più trafficata, lo divenne per praticità.

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Pur essendo a solo un chilometro di distanza, prendo la metro fino alla stazione, sperando di arrivare agli armadietti portabagagli come la mattina; ovviamente recupero la valigia solo dopo essermi perso un paio di volte nei budelli della stazione.

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Una volta stampato il biglietto dalle macchinette per soli occidentali (mi sento un po' come una bestia in via d'estinazione!), vado a comprare un bento box per il viaggio, e poi al binario ad aspettare il mio KTX, versione in salsa coreana del TGV francese, parte della rete ad alta velocità che collega Seoul alle grandi città del centro e sud del paese.

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Persone in attesa. Riflessi.

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La cabina è comoda, il treno quasi pieno - non dovrebbe stupire sapere che, come in altri paesi, ha praticamente cancellato quasi completamente i voli nazionali. Il treno più veloce impiega circa due ore e mezza per percorrere circa 370km - non la migliore performance dei TGV, ma abbastanza per rendere non competitivo il trasporto aereo.

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Durante il percorso, le inservienti passano un paio di volte con il carrellino dei bento e delle bevande; appurato che mangiare in treno è prassi, tiro fuori orgogliosamente il mio pollo al sesamo e riso al sesamo con il malefico kimchi (non al sesamo) sempre di mezzo.

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La puntualità del treno lascia a desiderare; saremo in ritardo di almeno tre minuti, forse quattro, un po' un'onta e temo che qualcuno possa commettere un suicidio per questo. Speriamo di no.

Arrivo a Dongdaegu, la nuova stazione ad alta velocità costruita per evitare l'inversione dei treni diretti a Busan presso la vecchia stazione; la stazione è comunque a poche fermate di metro dal centro (e dalla vecchia). Non ho bisogno di allontanarmi troppo per trovare il mio alloggio; è nei pressi di una delle uscite nord, in quella che è in realtà l'area dei love-hotel (stiamo parlando di cose assimilabili ai nostrani motel) dove insospettabili megadirettori vanno a passare qualche ora spensierata con la segretaria.

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Pure il mio hotel sembra della stessa risma - stanze a tema, neon in camera, jacuzzi con le bollicine e le lucine colorate, e preservativi omaggio, ma ha ottime recensioni su Booking, la camera è pulita e spaziosa e insonorizzata alla perfezione, sono disponibili un sacco di amenities tra cui lo yukata da camera (mai visto fuori dal Giappone).

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Vado a fare un scorta di vettovaglie per i prossimi due giorni e poi mi tuffo a letto dopo aver guardato Masterchef South Korea, affascinato da cose tremende come il polipo danzante...
 

I-DAVE

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6 Novembre 2005
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È sempre un po' difficile far capire perché un posto ci è piaciuto, anche quando non offre molto dal punto di vista turistico; Daegu rientra più o meno in questa categoria, un posto dove sembra sia piacevole vivere pur non essendo un museo a cielo aperto.

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Non pretendo di conoscere una città per averci camminato un giorno, ma l'impressione favorevole che mi ha lasciato... è reale.

Ad esempio: di fronte alla stazione, hanno organizzato un'ampia area con installazioni floreali - probabilmente una cosa temporanea, ma dà un tocco di colore in uno spazio anonimo, anche se pulito e moderno.

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Invece che prendere la metropolitana, decido di camminare fino al centro città. La giornata è piacevole, non fredda (anzi, anche troppo calda per la stagione) e soleggiata. Nonostante il groviglio di grattacieli e palazzoni senza arte che infesta la zona, l'atmosfera non risulta opprimente o disordinata.

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Immancabili i mega centri commerciali che, a differenza nostra, qui sono nel mezzo della vita cittadina e non relegati in qualche suburbo periferico.

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Le strade sono larghe, in molti punti piacevolmente alberate. Il Sincheon, che qui potrebbe sembrare un grosso fiume, è in realtà un canale artificiale pensato per contenere le piene del vero fiume, il Geumho, che scorre nella parte nord. Daegu è in una stretta piana e circondato da colline, quindi il controllo dei fiumi circostanti è stato fondamentale, nei secoli, per evitare catastrofiche alluvioni.

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Il lato occidentale è attrezzato con un parco, mentre a est vi è un'importate via di comunicazione locale che taglia la città da nord a sud. E qualche palazzo...

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Subito dopo il canale, le strade si fanno un po' più strette e i palazzi più bassi.

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Qualcuno deve soffrire molto il caldo :D

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Passo davanti a questa piccola chiesa anglicana dedicata a St Francis assolutamente per caso, non essendo segnata sulla mia mappa. Non ho trovato molte informazioni sulla sua storia, a parte questo sito che non racconta nulla della sua origine.

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Non molto distante, qualcuno con molto senso dell'umorismo ha aperto un locale, il Cafe Rehab.

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Fuori dalla fermata della metro di Jungangno, qualcuno ha ben pensato di piantare dei girasoli. Come cantava Jovanotti, sei un fiore che è cresciuto sull'asfalto e sul cemento.

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Proseguo nella stessa direzione per il Gyeongsang Gamyeong Park, costruito originariamente per contenere i palazzi del governatore della città.

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All'interno del parco si trova anche un piccolo laghetto con il suo padiglione.

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Mi fermo un po' all'ombra; la temperatura è ora decisamente più alta di quella che ci si attenderebbe a novembre. Nell'angolo meridionale del parco si trova il museo di storia moderna, incentrato sulla storia cittadina. Il palazzo fu costruito durante l'epoca coloniale giapponese, ed ospitava la filiale locale della Joseon Siksan Bank.

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La banca fu istituita, sotto controllo giapponese, accorpando le operazioni di diverse banche minori che controllavano sia il settore agricolo, sia quello dei commerci, divenendo, in breve, monopolista nella somministrazione dei prestiti alle piccole imprese commerciali locali.

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Il museo è piccolino e in mezz'oretta lo si visita. Poco distante si trova un secondo museo un po' atipico, il cui argomento è la medicina orientale.

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La maggior parte delle descrizioni è in coreano, trovo però un paio di totem interattivi con cui trovare il proprio fenotipo. A quanto pare io sono un taeeum :D

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Sullo stesso spiazzo si affaccia anche la chiesa presbiterana (chiamata Jeil Church). Il cristianesimo è in fortissima crescita in Corea del Sud, in tutte le sue denominazioni, incluse le sette più o meno segrete che fanno notevole proselitismo. La chiesa è del 1933, in stile neogotico, con la torre campanaria aggiunta nel '37.

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Più antica la Gyesan Cathedral, la cattedrale cattolica di Daegu; costruita nel 1902, è la sede dell'arcidiocesi di Daegu.

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Ma, se parliamo di chiese, quella esattamente di fronte alla cattedrale cattolica, sopra la Cheongna Hill, le batte tutte:

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Anche questa è una chiesa presbiterana, solo che tutte le fonti riportano sia questa, sia la precedente, come la Jeil Church. Ci si arriva percorrendo i 90 gradini che furono uno dei luoghi dove nacque il movimento per l'indipendenza coreana.

Mi ha ricordato più un edificio di Disneyland che una chiesa.

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La collina dove sorge la chiesa è anche il punto d'origine delle attività missionarie cristiane in Corea, e vi si trovano tutt'ora tre case missionarie, ora convertite a musei, all'interno di una piacevole e ben curata area verde.

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Per non farmi mancare un po' di contemporaneità, vedo sulla cartina che il mercato di Seomun è a due passi da qui. In parte coperto e in parte scoperto, è uno dei tre principali mercati in tutta la nazione.

Viste le dimensioni, è possibile trovare un po' di tutto, ma soprattutto tessuti, vestiti e accessori,

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e, ovviamente, cibo, sia già pronto da mangiare che ingredienti da cucinare. Non ho la più pallida idea di cose fosse questa poltiglia.

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Delle specie di panini imbottiti (chissà con cosa) in fase di preparazione.

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Ristorante "Anni Azzurri"

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La parte all'aperto tratta alimentari freschi.

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Una bella spremuta di aglio e zenzero e anche i virus scapperanno lontano da voi. Credo che i coreani siano nel Guinness dei primati per il consumo di aglio.

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Il pesce fresco non ha un grande posto nella tradizione culinaria locale. Cioè, io non ne ho la più pallida idea, ma a giudicare dalla fila interminabile di bancarelle con qualsiasi prodotto ittico essiccato e disidratato, è l'unica cosa a cui posso pensare.

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Il mercato è davvero enorme, portatevi una bussola se il vostro senso dell'orientamento, come il mio, è una ciofeca.

Dopo aver girato tutto il giorno, torno in hotel per un po' di relax e preparare il giorno successivo - il vero motivo per venire in zona è visitare l'antica capitale del regno Silla, Gyeongju.
 

I-DAVE

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6 Novembre 2005
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Non credo potrò mai dimentare quel giorno all'università quando, seduto ascoltando una lezione di didattica della storia, il professore fece aprire gli occhi a buona parte della classe (i rimanenti stavano proprio dormendo...) sulla europacentricità della storia che viene insegnata a scuola. Se da un lato è un fatto comprensibile per come è impostato il programma ministeriale e la generale atmosfera culturale in cui siamo immersi, dall'altro non permette davvero di avere una comprensione più generale del mondo in cui viviamo. Se la globalizzazione è una cosa, la mancanza di strumenti di compresione globali (e la storia ne è uno dei principali... per quanto alla fine non impariamo mai) è un handicap non da poco.

Il pistolotto introduttivo per dire: chi ha mai sentito parlare del Regno di Silla (che non c'entra nulla con Lucio Cornelio Silla, su cui già ho dubbi che metà dei diplomati di scuola superiore sappia dire alcunché)? Ahimè io mai, se non quando ho iniziato a leggere un po' qui e un po' là preparando il viaggio in Corea. Sì, i viaggi li preparo!

Di buon'ora torno alla stazione e prendo un treno locale per Gyeongju.

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La piccola città di Gyeongju, 50 km a est di Daegu, fu la capitale del regno di Silla che, ridendo e scherzando, durò dal 57 a.C. fino al 935 d.C.; oggi è una sonnolenta cittadina di case basse, con un passato più grande del suo futuro, e meta turistica non abbastanza nota al di fuori della Corea.

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Punti bonus per questo prestinaio (sì, va bene, panetteria per voi diversamente milanesi). Propongo un gemellaggio con Verona!

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Ogni regno, i suoi usi: in quello di Silla, i regnanti venivano sepolti in enormi tumuli che fungevano da dimora ultraterrena (non dissimilmente dalle piramidi egiziane). Tutto il territorio di Gyeongju è costellato da tumuli verdeggianti che spuntano dal nulla e sono giunti fino a noi assolutamente intatti, grazie anche al fatto che ci costruirono sopra, preservando tutto ciò che rimase sotto. Gli scavi iniziarono nel 1984.

Basta fare pochi passi al di fuori del cuore della città, e i tumuli spuntano prepotenti. Bonghwangdae è il più grosso di tutto, con oltre 250 metri di circonferenza e 22 di altezza. Scalari i tumuli è assolutamente vietato: si rischiano fino a due anni di carcere.

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Praticamente di fronte si trova un bel parco cintato che contiene altri tumuli, alcuni dei quali scavati e aperti al pubblico.

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Cheongmachong (la tomba del Cavallo Celeste) è visitabile e risale al V secolo. La maggior parte degli oggetti ritrovati qui è custodita all'interno del museo nazionale, che purtroppo non ho avuto tempo di visitare (memo per la prossima volta: pianificare una notte qui invece che a Daegu).

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Colline, cioè, tumuli.

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Alcune tombe sono segnate da un portale d'ingresso, come quella del re Michu.

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Il sole si fa sentire, ma la giornata è spettacolare.

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Non solo tumuli: le tavolette funerarie di tre re Silla sono custodite presso il santuario di Sunghyejeon.

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Guava.

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Il santuario è all'interno di una specie di villaggio tradizionale di Gyochon - in pratica un quartiere di Gyeongju che è costruito con case che seguono le tecniche costruttive tradizionali coreane.

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Immediatamente a est si trova un'estesissima area archeologica, in parte già scavata e dove sono stati trovati ulteriori cumuli, tra cui la tomba di Re Naemul, ora cintati in un grosso parco accessibile e che mostra i segni dell'autunno che avanza.

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Oltre alle tombe, qui venivano probabilmente studiati i principi di geomanzia tanto cari ai sovrani coreani. Un rudimentale osservatorio astronomico (Cheomseongdae) doveva con ogni probabilità sorgere qui; quel che ne rimane è questa torre, costruita intorno al 630 d.C.: alla base, 12 pietre per i mesi, e, a salire, 30 strati a rappresentare ciascuno un giorno dei giorni di un mese, per un totale di 366 pietre.

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Ah, la foto è dritta, confermato dall'orizzonte artificiale della macchina fotografica: è proprio la torre ad essere storta. Un piccolo chiosco vende gelati e bevande proprio qui a fianco. Seguendo la assolata strada si arriva alla fermata del bus per il tempio di Bulguksa, ma proprio di fronte c'è anche lo stagno di Anapji, che ospita il Donggung Palace. Non sapendo bene a che ora tornerò da Bulguksa, preferisco fare subito la deviazione e dare un occhio.

Il palazzo era parte del complesso reale della capitale; del palazzo non rimase praticamente nulla appena pochi secoli dopo la dissoluzione del regno Silla, e lo stagno fagocitò ciò che non venne distrutto (dalle persone o dagli elementi). Tra il 1974 e il 1986 lo stagno venne drenato e ricostruito, e vennero trovati una enorme quantità di reperti che andarono ad arricchire la collezione del museo nazionale (che è poco più a sud).

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Lo stagno venne in seguito riempito nuovamente, una volta che la ricostruzione dei cinque edifici, di cui si trovarono le fondazioni, fu completata. Su un frammento di vaso venne trovata l'iscrizione Wolji (che circa significa "stagno che riflette le luna"), da cui si desunse il vero nome dello stagno.

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La visita non chiede davvero molto tempo, anche facendo il periplo del lago. Mangio un sandwich al volo mentre aspetto il bus 10 verso Bulguksa. Passando la tessera sul lettore, mi rendo conto che è pericolosamente scarica: basta sicuramente per l'andata, ma al ritorno devo fare un top-up.

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Bulguksa è un enorme tempio buddhista, costruito durante il regno Silla, e rappresentò per secoli l'intima congiunzione tra potere politico e religioso che pervadeva la penisola coreana durante l'unità sillana. Il tempio fu raso quasi completamente al suolo durante la prima invasione giapponese del 1593 - ma venne ricostruito nel tempo ed è ora parte del patrimonio UNESCO insieme alla vicina grotta di Seokguram, che ospita una veneratissima statua del Buddha.

Appena oltre l'ingresso vi è un sistema di laghetti e ruscelli su cui si staglia la collina retrostante.

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Appena attraversate la Cheonwangmun, sarete osservati a vista. Comportatevi bene o questi due verranno a prendervi...

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Le due scalinate principali di Cheongungyo e Baegungyo portano al cuore del tempio.

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Moltissimi buddhisti vengono tutt'ora a Bulguksa in pellegrinaggio.

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Le due pagode di pietra fronteggiano la Daeungjeon Hall, ovvero la sala dell'illuminazione, quella principale in ogni tempio buddista.

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Molti dei paramenti sono stati recuperati, nonostante il tempio versasse in condizioni manutentive disastrose ancora all'inizio del '900 (nel senso che era un rudere diroccato).

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Nonostante il gran numero di pellegrini e turisti, che circa si equivalgono, c'è qualche angolo tranquillo.

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Dettagli.

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Torno al parcheggio per attendere il bus 12 che fa la spola ogni ora tra il tempio e Seokguram; oltre ad essere a corto di credito sulla carta dei mezzi, sono pure a corto di contanti. Salgo a bordo sperando di trovare un bancomat alla grotta, o sperando che l'ingresso sia gratuito, altrimenti ci potrebbe essere qualche problema a tornare indietro.

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Brutta notizia: l'ingresso è a pagamento (solo in contanti) e non ci sono bancomat; quella buona è che ho davvero i soldi contati per visitare Seokguram, tornare a piedi a Bulguksa (circa un'oretta di passeggiata su un bel sentiero, tutta discesa) e da lì prendere il bus per Gyeongju. Maledetti souvenir!!

Dall'ingresso alla grotta sono circa 1 chilometro di salita leggera e qualche scalinata. Il tempio fu quasi certamente usato solo dai reali Silla, vista lo spazio limitatissimo e che può ospitare a mala pena una mezza dozzina di persone. All'interno della grotta-tempio è vietatissimo fare foto, e per evitare che la gente toccasse la statua del Buddha hanno dovuto inserire delle protezioni in plexiglas.

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Per ovviare, ecco una foto presa da internet, tratta da qui. La statua, alta tre metri e mezzo, è considerata uno dei più fini esempi di arte buddhista al mondo.

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La statuaria buddhista lascia sempre quella sensazione di pace e tranquillità, serenità - in ciò è molto differente da quella cristiana, sempre sofferente, contrita, dolorosa. Quindi, con la pace nell'animo, mi appropinquo verso Bulguksa; il sentiero è ottimamente tenuto e scorre in mezzo al bosco che è un tripudio di rossi, gialli e bruni attraverso la calda luce del tardo pomeriggio.

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Non c'è anima viva - la maggior parte delle persone torna indietro con il bus, che impiega una manciata di minuti; ed è tardi per salire, visto che il tempio sta per chiudere.

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Arrivo alla fermata del bus 10 appena alcuni minuti prima della partenza, e riesco a prendere al volo uno dei locali verso Daegu, dove prendo un bento come cena mentre rifaccio per l'ennesima volta la valigia.


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vipero

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A me l'est tendenzialmente non piace, ma mi stai facendo voglia di andare in Korea...
 

I-DAVE

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I coreani sono tra le popolazioni con la più alta propensione al volo; per un paese di appena 50 milioni di abitanti (pochi meno che l'Italia) in uno spazio assai ristretto (100.000 km², un terzo della penisola), riescono ad avere due compagnie intercontinentali, un hub da più di 60 milioni di passeggeri annui e altri due aeroporti sopra i 25 milioni; il tutto con il traffico nazionale quasi inesistente (diretto per lo più verso l'isola di Jeju che, per ovvi motivi, non può essere collegata alla rete ad alta velocità).

Questa congiuntura astrale mi viene in aiuto nell'avere, dal vicinissimo aeroporto di Daegu (una manciata di chilometri a est del mio hotel), voli per Osaka, stante che la seconda parte del viaggio prevede di esplorare Kyoto meglio di quanto fatto la volta precedente. In particolare, il boom delle low cost coreane mi fa trovare un comodissimo Daegu-Osaka su motore di ricerca, una soluzione assai più vantaggiosa che dover andare fino a Busan o tornare indietro a Seoul e comprare un costosissimo volo con Asiana, Korean, All Nippon o JAL.

L'aeroporto è minuscolo per i 3.5 milioni di passeggeri annui che serve, anche perché è relegato in un angolino dall'adiancente base aerea dove volano gli F-15 coreani. Purtroppo la metro non arriva al terminal (si ferma un chilometro e mezzo prima...) e, avendo un volo mattutino, preferisco affidarmi ad un taxi anziché un autobus. La colonnina dei taxi è a 200 metri dall'ingresso del mio hotel :p

Sette voli per Jeju occupano buona parte del tabellone partenze della mattina.

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Avendo optato per il roboante Triple Pack, ho il bagaglio in stiva incluso nel biglietto; vado quindi al banco per depositare la valigia. Sono già pronto con tutte le stampate con la prosecuzione del viaggio (ovvero l'uscita dal Giappone), ma non mi viene chiesto nulla. La coda non è lunghissima, forse perché la maggior parte dei passeggeri viaggia solo con bagaglio a mano per il weekend. Ho visto aeroporti più belli, onestamente...

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La mia carta d'imbarco viene marchiata da strani segni esoterici, spiegati a voce in un inglese che ha davvero timidi ricordi della lingua di Scuotilancia. T'Way ora usa il codice IATA che fu della mitica TWA: TW.

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Mi avvio al controllo passaporti; il tagliando d'ingresso che viene rilasciato al controllo passaporti in ingresso al paese, non serve per uscire (c'è pure scritto che, in caso di smarrimento, non occorre richiederne una nuova copia). La procedura è veloce e indolore. Il controllo sicurezza è piuttosto chirurgico ed efficiente: in pratica, in cinque minuti ho completato tutte le procedure e ho un'ora e mezza e passa da passare annoiato nell'area dei gate, che non è proprio Changi.

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Il duty free è abbastanza penoso a meno che non siate dei patiti di creme di bellezza coreane o tè al ginseng. Essendo base militare, ci sono cartelli ovunque di non fare foto e no, non voglio vedere quanto sia reattivo il personale di sicurezza.

Appena chiudono il gate al volo su Tokyo, aprono il nostro - dallo stesso gate: ecco come facciamo mezz'ora di ritardo. Il volo prosegue su Guam dopo la sosta a Osaka, ma non sento nessuno, vicino a me, parlare americano.

In fila, una delle addette passa a controllare carta d'imbarco e passaporto, sveltendo enormemente la procedura d'imbarco.

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Volo: TW 311
Tratta: Daegu International Airport (TAE) >>> Kansai International Airport (KIX)
Aereo: Boeing 737-8AS
Età: 10.6 anni
Reg: HL8069
Posto: 3F
Sched/Actual: 0835-0945 // 0904-1012
Durata volo: 1h 08'
Gate: 2

Erano secoli che non vedevo una tasca portaoggetti in basso, e il sedile si reclina pure! Sembra quasi la vecchia configurazione Ryanair... aspetta, l'aereo era di Ryanair nella sua vita passata: marche EI-EBT.

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Un altro aereo T'Way in attesa dei suoi passeggeri alla sua piazzola.

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Un ormai rarissimo Hawker-Siddeley 748 dell'Aeronautica Sud Coreana.

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Decolliamo controluce, sorvolando la periferia orientale della città, ammirando le innumerevoli schifezze appiccicate sul finestrino.

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La provincia del Gyeongsang è un susseguirsi di aguzze colline. La foschia mattutina che si annidia tra le strette valli non si è ancora diradata.

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Quindici minuti dopo il decollo consegnano lo snack a chi ha prenotato anticipatamente - io l'ho incluso nel famoso triple pack che mi serviva per il bagaglio imbarcato. Mi viene porto un tramezzino insalata-pomodoro-prosciutto-maionese. Diffido sempre dalla maionese in aereo, soprattutto quando è arancione...

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... ma, anche questa volta, niente intossicazione alimentare.

Il volo è piuttosto noioso e, dopo aver compilato la dichiarazione doganale e il modulo d'ingresso, non rimane molto da fare. Passiamo sopra Okayama.

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Sopra la prefettura di Kagawa viriamo di 90° e ci allineiamo alla pista 06L del Kansai International.

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Rulliamo fino al Terminal 1 (quello figo, non quelle delle lowcost). Abbiamo pure il jetbridge! Lo sbarco è veloce; gli assistenti di volo comunicano che devono sbarcare tutti i passeggeri, inclusi quelli in transito per Guam.

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Non ho particolari ricordi dell'immigrazione questa volta - ma ho la vaga memoria di essere passato per alcune macchinette elettroniche, anche se poi lo sticker sul passaporto è come sempre...recupero la mia valigia e vado al transit centre dell'aeroporto disegnato da Renzo Piano, come tutto l'aeroporto, su un'isola artificiale.

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Una coda infinita di turisti cinesi aspetta il proprio turno per ritirare la sua Icoca card, che è l'equivalente del Kansai della Pasmo o della Suica. Tanto sono tutte valide sulle altre reti, con qualche minore eccezione. Mi metto in coda, ma dopo cinque minuti un'addetta giapponese, passando, prende me e altre due coppie di occidentali e ci fa mettere in coda ad uno sportello prioritario XD

Ottenuta la mia meravigliosa Icoca in edizione speciale con le divinità del fulmine e del vento (Raijin e Fujin), e l'abbinato biglietto per il treno espresso Haruka, vado verso la stazione ferroviaria.

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Purtroppo anche questa volta non riesco a prendere il treno post-futuristico steampunk Rapi:t della Nankai Electric Railway.

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Mi consolo, si fa per dire, con un Haruka in livrea speciale Hello Kitty...

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Non sto neppure a commentare la puntualità del treno o la sua pulizia, sarebbe assolutamente ridondante.

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Scendo a Tennoji per prendere la Tanimachi Line fino a Tanimachi Kyuchome, che è a 500 metri dal mio hotel; se non fosse che trovare scale mobili o ascensori è un po' come fare un terno al lotto. Ovviamente sbaglio anche uscita :D

Lascio la valigia in hotel (è comunque troppo presto per il check-in) e vado a fare un salto al castello di Osaka. Il castello (il tenshu propriamente detto, cioè la torre centrale) è stato ricostruito tra il 1995 e il 1997 come replica del castello di epoca Edo dopo che, durante la seconda guerra mondiale, l'arsenale di cui faceva parte venne praticamente raso al suolo.

Riprendo la metro - stessa linea - e scendo a Tanimachi Yonchome dove un coppia di originali grattacieli ospitano il Museo di storia di Osaka e la sala da concerto della NHK, l'emittente nazionale giapponese.

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L'ingresso al castello è praticamente di fronte. La torretta da guardia di Rokuban-yagura si riflette elgantemente nel fossato insieme al resto delle mura.

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La Otemon gate, la porta principale di accesso al castello, è protetta dalla torretta da guardia Sengan-yagura, costruita nel 1620. A parte essere stata disassemblata e ricostruita nel 1961, è originale.

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Compro il mio biglietto per il castello e il suo museo, alloggiato nella struttura principale. Il parco del castello è abbastanza grande da rendere il luogo non troppo affollato, anche se l'affluenza a quest'ora non è delle più alte in ogni caso.

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All'interno del tenshu si trova un museo che spiega in modo abbastanza dettagliato la storia del castello; i piano sono relativamente piccoli, col risultato che, anche senza pienone, si formano code a non finire. Non ho fatto foto - forse c'era qualche divieto, o forse solo troppa gente, non ricordo onestamente. Frammezzati agli spazi espositivi si trovano negozi e caffetterie, rendendo il tutto ancora più caotico. La cosa per cui vale però la pena di continuare a salire è il belvedere in cima, da cui si gode di una vista mozzafiato su Osaka.

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All'interno delle mura del castello si trova anche il piccolo tempio di Hokoku dedicato ai tre grandi unificatori della nazione, tutti e tre del clan dei Toyotomi: Hideyoshi, Hideyori, e Hideyaga. Si dice che i visitatori che pregano qui ricevano buona fortuna e prosperità.

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Torno in hotel per il check-in, una doccia e un po' di riposo visto che sono sveglio dalle 5 del mattino. Per cena, non troppo distante dall'hotel trovo per caso una intera food court alla HiHi Town Uehommachi, di fronte alla stazione omonima. La food court è mezza vuoto, l'ideale per me :D; mi lascio ispirare da un ristorante dove cucinare al tavolo una specie di hot pot. Ordino un po' a caso, essendo tutto in giapponese, ma un po' di Google Translate e un po' una famiglia al tavolo accanto, mi danno una mano - la figlia parla un ottimo inglese e mi spiega come assemblare gli ingredienti nella pentola.

Prima si fa sciogliere un pezzetto di grasso per "oliare" la padella:

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Poi si aggiungono gli ingredienti, partendo da quelli che ci impiegano di più a cuocere. Io ovviamente sbaglio e parto con la carne, che è tagliata in fettine sottilissime, e quindi cuoce in un secondo...

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Poi si aggiunge il brodo di dashi e l'acqua:

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... e infine si mangia:

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Di fatto si ordina il tipo di carne e il brodo; il resto degli ingredienti si prende ai banchi self-service, inclusi i noodles, e si aggiungono man mano. Il posto si chiama Akeno. Barcollo fino all'hotel, dopo aver brindato con un po' di sakè ghiacciato con la famigliola felice del tavolo a fianco.

Continua tra qualche giorno con la parte sul Giappone :)

DaV
 
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Scendo nuovamente e torno verso la stazione, non prima di aver acquistato in un negozietto questa delizia. Un giorno o l'altro scriverò un articolo sulle bevande asiatiche, di cui mi pregio essere un estimatore.
A nome della collettività tutta ti informo che sarebbe meno riprovevole essere un amante delle lotte clandestine tra galli, o di avere un album fotografico di tutti gli edifici IACP costruiti da Ventimiglia a Villa Opicina.
 

vipero

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Cacchiarola, sono già innamorato di Akeno.
Se potessi, per compensare, mi butterei nel primo Wagamama che fosse aperto seduta stante...
 

vipero

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A nome della collettività tutta ti informo che sarebbe meno riprovevole essere un amante delle lotte clandestine tra galli, o di avere un album fotografico di tutti gli edifici IACP costruiti da Ventimiglia a Villa Opicina.
Maddeché!
Non sai quanto l'invidio, io che sbrodolo anche per la DrPepper...
 

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Maddeché!
Non sai quanto l'invidio, io che sbrodolo anche per la DrPepper...
Ma perche' devi volere il diabete? E soprattutto non ti ricordi quei 'succhi di frutta' con colori che persino al Pride definirebbero "chiassosi" che il Nostro ci propinava dalla Malesia?
 

I-DAVE

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a Taiwan, nel cuore e nella mente
Una delle cose che volevo assolutamente inserire all'interno di questo viaggio era una visita a Nara, la prima capitale stabile che il Giappone abbia mai avuto. A parte la quantità quasi sconfinata di tesori nazionali, una caratteristica distintiva della cittadina sono il migliaio di cervi che gironzolano in libertà all'interno del parco che cinge la parte orientale della città, in mezzo alla maggior parte dei templi più importanti.

Neanche a farlo apposta, l'hotel è vicino alla stazione Uehommachi, che è sulla linea per Nara gestita da Kintetsu, il principale operatore ferroviario privato del Giappone; da qui, si arriva a Kintetsu-Nara in circa 35 minuti.

Dalla caotica stazione (dove regnano sovrani i negozi che vendono souvenir e le specialità tipiche della città) si è praticamente di fronte all'ingresso del parco, il Nara Koen (奈良 公園), la cui prima vista sarà, per molti, questa:

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First things first: i biscotti.

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I biscotti non sono ovviamente per me, ma per i voracissimi cervi: appena ne sniffano l'odore, si fiondano contro l'ignaro passante e infilano il tartufo dentro tasche, borse, maniche, alla ricerca di quello che, al tatto, sembra cartone precompresso.

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È una luminosa mattina di metà novembre, con temperature notevolmente più alte di quelle della media del periodo - ah maledetto climate change. Le temperature sono state più alte negli ultimi mesi, e il bosco si crede ancora in tarda estate: il foliage è quasi completamente verde e folto. Certamente bello, ma non scenografico come dovrebbe essere in questa stagione!

Ovunque nel parco noterete due cose: la prima sono le migliaia di lanterne in pietra, simbolo dei 3000 templi e santuari shinto legati al tempio Kasuga, che qui ha la sua sede principale. Su ogni lanterna è scolpito il nome del donatore e il nome della divinità cui il donatore si vota.

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L'altra cosa che noterete, non fosse chiaro, sono i cervi. Ogni tanto, troverete insieme lanterne e cervi.

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Molti associano il Giappone all'immagine dei torii, portali che indicano il luogo del passaggio, per gli spiriti e divinità, dal modo ultraterreno a quello terreno. Essendo una caratteristica dei templi shintoisti, intuisco che vicino ce ne sia uno...

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... che è appunto il tempio Kasuga.

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Cosa non si fa per un biscotto.

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L'area principale del tempio è assai affollata, e i cervi non vi si avventurano.

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In compenso, noto un sacco di persone con un libretto in mano, in coda per farselo stampare: il goshuincho (御朱印帳)! Decido di farlo anche io: primo perché è un ricordo, secondo per supportare le attività dei templi, e terzo perché vedere scrivere i caratteri giapponesi a mano, con un pennello, è incredibile. Dato che ci sono anche cartelli in inglese, intuisco che sia possibile mutua comprensione, quindi mi metto in fila, ordino il mio libretto (che è un foglio continuo ripiegato a fisarmonica, tra due copertine rigide variamente decorate), pago e ricevo il mio primo sigillo da un tempio giapponese.

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Subito a fianco, come in tutti i templi giapponesi, è possibile acquistare amuleti di vario genere, tra cui i più famosi sono gli omamori, piccoli rettangolini di stoffa ricamati con varie figure o scritte, benedetti dai monaci del tempio e votati ad una specifica funzione - proteggere dalla sfortuna, aiutare con gli studi, con l'amore, evitare gli incidenti automobilistici...

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Altre scale, altri cervi.

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La natura fa il suo (colorato) corso, avvolgendo le lanterne.

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Immagino quale favore richiedano i devoti:

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La folla va a momenti - qui non c'era nessuno:

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Intermezzo: un cerbiatto.

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Usciti dal santuario Kasuga, si passa a fianco a una piccola collina con alcuni negozi disposti di fronte, prima di entrare nel tempio buddista di Toda-ji, anch'esso parte del patrimonio tutelato dall'UNESCO. Il tempio include decine di edifici, quasi tutti in legno. Templi e muschio, una combinazione assai fotogenica.

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I giapponesi hanno un gusto nello scegliere i luoghi, ed adattarne la natura, che è quasi commovente.

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Il Todaji Nigatsudo è sopraelevato rispetto agli altri edifici e offre un bel panorama. Vista la posizione (è rivolto a ovest) si dovrebbero vedere dei bei tramonti da qui.

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Da qui si prosegue lungo l'Urasando, una strada lastricata che porta verso la Great Buddha Hall, fino a poche decine di anni fa l'edificio in legno più esteso al mondo.

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Si può però anche deviare verso il Todaji Shoro, una torre campanaria con una massiccia campana in bronzo. Da qui una seconda scalinata permette di scendere e ammirare la Great Buddha Hall.

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Qui ora dovreste vedere una foto frontale della Great Buddha Hall, una foto della veneratissima statua del Buddha stesso, e della lanterna ottagonale proprio di fronte (che risale all'ottavo secolo), ma... non le ho: ora, o sono stato tordo e le ho cancellate in un momento di follia, o sono stato ancora più tordo e non le ho proprio scattate. Voglio dire, ottima scusa per tornare, però sono questi i misteri che non mi fanno dormire la notte, al pari dei cerchi nel grano e l'utilità del calcio.

E così, non mi resta che uscire dalla Nandaimon, non prima di aver dato un occhio al piccolo laghetto che ospita il santuario shinto di Itsukushima.

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Torno a Osaka, tempo di rilassarsi un po' e di fare un po' di shopping. E di mangiare. Sono sempre stato affascinato da quei ramen shop che si vedono nei cartoni giapponesi - entri, ordini e pochi minuti dopo hai un piatto di fumanti spaghettoni in una zuppa bollente. Chiedo alla reception, e mi consigliano di andare da Menya Aozora Sennichimaedori, a due passi dall'hotel.

Il posto è piccolo - una vetrina su una trafficata strada principale, ma con un'enorme insegna (Google maps ci viene in soccorso...):

Menya Aozora Sennichimaedori-Osaka.JPG


Nel più puro stile giapponese, si ordina tramite una macchina posta all'ingresso del locale, con un menu in giapponese e qualche indicazione in inglese - ma è facile: si inseriscono le monete, si pigia il bottone del piatto preferito, si raccoglie il biglietto-ricevuta e lo si consegna all'interno allo chef. Il menu ha le figure e i numeri corrispondenti ai bottoni, quindi è un po' più semplice che altrove, dove ci sono solo le scritte...

https://pbs.twimg.com/media/Ec5ghWeUcAUAD6e?format=jpg&name=large


La cucina è a vista, preparano tutti di fronte a voi. Rustico e autentico, con pochi avventori giapponesi impegnati a inghiottire enormi matasse di ramen.

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Infine, arriva:

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Nella foto, i ramen sono già mischiati con i vari ingredienti; non sarà fotogenico, ma assicuro che è delizioso. Il brodo è ricco, saporito, lievemente piccante (ma se riesco a gestirlo io, ce la può fare chiunque) e si sposa fantasticamente con la consistenza dei ramen.

Sono in paradiso (culinario) e, con la pancia decisamente piena e un accenno di sonnolenza, mi ritiro sottocoperta.
 
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vipero

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*sospiro*.... prima o poi riempio una vasca da bagno di ramen e buonanotte ar secchio.

nomi più facili da ricordare a sto giro: la stazione uèohmachiè?
E il distributore di ramen: senticheodori.
 

I-DAVE

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6 Novembre 2005
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a Taiwan, nel cuore e nella mente
Ero già stato a Kyoto e, a parte Arashiyama e il Tenryu-ji, avevo visto davvero poco; per espiare i miei peccati di viaggiatore imperfetto, ho il sommo dovere di rimediare a tale nefandezza e decido di impacchettare il più possibile nei tre giorni di permanenza kyotense. Due e mezzo, in realtà: la mattina tocca muoversi da Osaka, e già solo capire la combo treno/stazione brucia mezza giornata.

Non so come, trovo su Booking un buon hotel (anzi, direi davvero ottimo, a parte le dimensioni della stanza, comunque più grande della media delle altre in cui sia stato in Giappone) in posizione centralissima e ad un prezzo onesto, il (pronti per lo scioglilingua) Shizutetsu Hotel Prezio Kyoto Karasuma Oike; sono a distanza camminabile da parecchie delle cose che voglio vedere, e a duecento metri forse meno dalla stazione della metro di Karasuma Oike. La giornata è inclemente; torna a chiovere, schiove, ride ’o sole cu ll’acqua. Non che ai girasoli freghi qualcosa.

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Sto passeggiando amabilmente e, come da mia abitudine, quando vedo una nandina che sta facendo sfoggio del manto rosso e magari anche delle bacche, provo a trovare un angolo fotografico. A Seoul ne era pieno.

Il proprietario del negozio al cui angolo cresce suddetta nandina, esce a guardare incuriosito cosa stia facendo - sì, sono un po' buffo, diciamolo, tutto affaccendato e incovacciato e con la macchina fotografica in pose strane. Quando, insoddisfatto delle foto (l'angolo migliore era controsole) mi alzo e mi accorgo che sono osservato, cerco di ricomporre il mio aplomb milanese (no, non quello che grida feeeega ogni due minuti) e mi avvicino sorridendo, dicendogli che ne ho una a casa, sicuro al 100% che mi avrebbe risposto un onegaishimasu e poco altro. E invece no! Mi saluta in inglese e mi chiede di dove sono - ahhh, ohhhh anatawa Itariajin desu, subarashii!

Mi spiega che quella pianta di nanten (南天, che in giapponese non sapevo scriversi così, e i cui ideogrammi indicano il sud e il cielo/paradiso, e dal cui nome giapponese deriva quello italiano di nandina) l'ha piantata lui. Mi dice che è tipico piantarle verso il lato dove spira il vento, come protezione dagli spiriti portati dalla brezza. Io gli racconto che i miei genitori mi avevano regalato una pianta di nandina alcuni anni addietro, e casualmente si trova in un angolo del terrazzo esposto al vento. Tutto torna. Sincretismo orientale-occidentale, l'eterno ritorno della casualità, due stranieri che si incontrano e trovano un argomento di conversazione in una pianta che la maggior parte delle pesone neppure conosce. Una foto di repertorio della mia nandina, ormai a fioritura già passata e con le bacche rosse già mature:

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Durante la conversazione do un occhio alla vetrina del negozio. Non vende coltelli e non vende seghe elettriche, quindi ho una discreta chance che non sia un pazzo maniaco; vende, in realtà, timbri. Un negozio intero dedicato ai timbri. Gli chiedo, quasi scherzando, se avesse un timbro con su la nandina. Senza scherzare, mi dice di entrare che avrebbe guardato sul libro maestro.

Non scherzo neanch'io: ha tirato fuori una cosa tipo sei volumi in pelle grossi come mezza scrivania, ognuno con una dozzina di timbri per pagina, il nome e il codice. Timbri ovunque. Sono quasi stupefatto - lo capisce e mi spiega che ogni persona in Giappone ha il suo timbro, o sigillo, che sostituisce la firma sui documenti ufficiali, e pertanto i timbri sono una parte comune della vita di milioni di persone.

Trova un paio di corrispondenze per nanten, e mi porta dal retrobottega i timbri corrispondenti. Non posso esimermi. Avere un timbro mio è sempre stato un po' un pallino, sin da quando la mia insegnante di giapponese apponeva il suo, inchiostro rosso e tutto il resto, sui nostri fogliettini con gli esercizi, in cui inesorabilmente il rosso si estendeva, in veste di grave sottolineatura ad un ideogramma scritto particolarmente male o a una mezza dozzina di errori in una sola riga, al pastrocchio che avevo cercato di scrivere. Ma divago. Eccolo qui, il mio timbro-nandina, col fiore a cinque punte e le bacche:

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La mia mattina non poteva iniziare nel modo migliore. Direzione Gyoen, il giardino nazionale dove si trova il palazzo imperiale. Dove ovviamente non si accede senza aver prenotato la visita, visto che i posti a disposizione il giorno stesso sono una miseria. Poco male, il parco è ugualmente splendido, anche se pure qui l'autunno è in notevole ritardo.

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Nell'angolo sud-occidentale, prossimo all'ingresso da cui entro, si trova il santuario Munakata e, al suo intero, un albero di canfora seicentenario. A saperlo, com'è fatto un albero di canfora, l'avrei pure fotografato. L'assenza di altro essere umano vivente e respirante rende l'esperienza pacificamente mistica: entro in punta di piedi, che ho sempre paura di disturbare la sacralità dei luoghi di culto.

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Di sicuro non è la cosa più importante da vedere in tutta Kyoto, ma già ho in programma un'overdose di blockbuster tale che, dove possibile, preferisco qualcosa di più intimo e... giapponese.

Il parco è umido, ancora carico della pioggia che è scesa al mattino. Le foglie per terra sono umide e, camminandoci sopra, sembra di stare su uno di quei blocchi che ora mettono nei parchi dei bambini: soffici e silenziosi. Passare sulla ghiaia mi fa quasi sentire un elefante in un negozio di porcellane, ma c'è ancora tanto da vedere che non posso rimanere qui per delle ore (o forse dovrei).

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Saluto i gatti gemelli guardiani del santurio, che ovviamente non mi filano di pezza, e percorro il sentiero fino a una delle uscite a nord.

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Ho una missione da compiere: uno dei miei amici taiwanesi, saputo che ero a Kyoto, mi commissiona un omamori dal Semei-Jinja, a quanto pare un tempio che fa amuleti potentissimi. Non è lontano da dove sono, e dato che non è uno templi turistici, sarà sicuramente un'esperienza interessante.

In giro vedo una quantità abnorme di quelle che sembrano statuette a forma di procione: sono dei tanuki, il cane-procione (animale realmente esistente!), divinità dell'estesissimo pantheon nipponico e degno compare del kitsune, la volpe a sette code. Quasi tutti i negozi hanno fuori una statua di tanuki, quindi presumo che porti bene. Caratteristica notevole del tanuki è il dimensionalmente rilevante volume delle gonadi, a volte usate come ombrello, a volte come mezzo di trasporto fluviale. Altro souvenir da aggiungere alla lista :D

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Per arrivare al tempio, si oltrepassa l'Horikawa, che pensavo fosse un canale e invece è un fiume. Nel 2009 il letto è stato stombinato e la riva ricreata per renderla un parco con alberi e panchine; anche il flusso d'acqua è stato ripulito. Ci sarebbe almeno un altro posto al mondo dove dell'acqua nascosta sotto tonnellate di cemento potrebbe essere riportata alla luce...

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Vedo infine quello che cercavo: una lanterna con una stella rossa a cinque punte, simbolo del tempio.

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Sono l'unico turista. Mi sembra un po' di rovinare la sacralità del luogo...

Non sono un esperto di arte buddhista, ma il tempio in sé non mi pare perdibile. Forse è per quello che non è citato come posto da visitare assolutamente (a Kyoto, poi, dove i templi non mancano di certo).

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La fonte che sgorga all'interno del tempio è considerata magica.

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Mi approccio al banchetto e provo a capire cosa devo comprare. Ci sono decine di omamori appesi; con l'aiuto di google translate più o meno capisco a cosa si riferiscano e ne prendo un paio tra quelli che mi sembrano più potenti (!). Se siete curiosi, potete fare un giro sul loro sito e guardare da voi. Accettano ordini online, spedizione solo in Giappone :)

È andata a finire che ne ho comprato uno anche io - non si sa mai e meglio ingraziarsi le divinità orientali che, a vedere i cartoni giapponesi, Lucifero gli fa una pippa. Ho preso quello per studenti e venditori, sarà adatto, non essendo io né l'uno, né l'altro?

Purtroppo, visto il numero di richieste, non mettono più timbri sui Goshuincho; ne hanno di già pronti (scritti a mano, beninteso) che vanno incollati alle pagine. Ne prendo uno lo stesso.

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Dopo un pranzo veloce in uno dei tanti 7-Eleven, proseguo lungo il fiume, verso il castello. Un violento e improvviso acquazzone mi blocca quasi mezz'ora sotto ad un ponte; non sono di fretta ma non ho altro che una felpa leggera addosso, e rimango col pensiero di rimanere sotto un altro acquazzone senza riparo.

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Per lo meno, il castello è vicino; non c'è molta coda all'ingresso visto che è uno degli ultimi ingressi tardo pomeridiani; la luce è già morbida e sembra stia schiarendo un poco. Purtroppo la bigliettaia mi informa che il palazzo di Honmaru è chiuso per restauri - leggo poi sul sito che rimarrà chiuso fino al 2021 per sistemare fondamenta e muri stortati dal terremoto di Kobe del 1995.

Nijo è uno dei monumenti principali di Kyoto; il palazzo imperiale ha visto quattro secoli di storia giapponese, dall'unificazione del paese sotto lo shogunato Tokugawa, alla restaurazione Meiji. Il palazzo serviva a mostrare lo forza e la ricchezza del nuovo Giappone unito, e venne costruito quasi interamente in cipresso giapponese e riccamente decorato in foglia d'oro.

La porta Karamon rappresenta proprio questa ricchezza, essendo posta all'ingresso del palazzo di Ninomaru e all'interno del primo anello di fortificazione.

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La parte più importante della visita si svolge all'interno del palazzo di Ninomaru; è una proprietà delicatissima, interamente in legno, e per entrarsi occorre togliersi le scarpe, che si lasciano all'interno di appositi scompartimenti aperti (ovviamente siamo in Giappone: le vostre costose Nike Air Mag Back to the Future sono al sicuro, nessuno penserà a rubarle).

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L'altra cosa... è che non si possono fare foto all'interno. La giustificazione ufficiale è che "photography is prohibited inside the palace for the protection of the tangible cultural property of the national treasure", che credo sia una supercazzola per dire "passate poi al museum shop e spendete un po' di soldi per le cartoline".

Non posso quindi mostrarvi l'architettura di quello che è l'ultimo superstite della dinastia dei palazzi imperiali fortificati, né gli spettacolari dipinti a muro della scuola di Kano, che sono un tripudio di foglia d'oro, animali feroci e tranquilli paesaggi bucolici.

Vi posso però raccontare di come sia un tuffo nel passato camminare scalzi su tavole di legno centenarie; ti immagini lì un daimyo in attesa di parlamentare con Tokugawa Ieyasu, mentre orecchie indiscrete nascoste nei passaggi segreti origliavano i segreti sussurrati tra la nobilità feudale giapponese.

Il palazzo ha una forma tutta sua, una specie di pezzo di tetris bitorzoluto; le camere si trovavano al centre di ciascun padiglione, con i corridoi tutto attorno. Nelle camere non si entra, ma si ammirano dal corridoio, in silenzio, e in ordine.

Ninomaru-goten Palace MAP
Entrati e usciti in una dimensione fuori dal tempo, mi ritrovo a camminare ancora scalzo sulla ghiaia bagnata fuori dall'ingresso del palazzo, con le mie scarpe in mano, alla ricerca di un appiglio per calzarle; mi sembra quasi innaturale calpestare con delle suole in gomma il terreno che circonda questo posto, ma forse è meglio che mi spicci a tornare del 2019 prima di buscarmi un raffreddore.

Tutt'intorno, si sviluppano i giardini del palazzo.

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Oltre un ponte in pietra si entra nella seconda cinta muraria, dove il palazzo di Honmaru non fa bella mostra di sé; si può però salire su quello che rimane del dongione, bruciato da un fulmine trecento anni fa; la vista non è particolarmente ampia.

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Il tramonto è ormai già iniziato e le guardie invitano a uscire. La foglia d'oro, dal palazzo, rimbalza sulla nuvole.

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Un ultimo sguardo a una delle torri di guardia, una delle due superstiti, guarda benevola la Oshikoji dori; io la vado nella direzione opposta, verso l'hotel.

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Trovo un piccolo ristorantino (mannaggia a me che non mi sono segnato dove fosse...) dove cenare; anche qui, ci si siede al banco. Specialità: spiedini.

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E anche non-spiedini.

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... e sperimento del sakè. Non sono un grande fan, avendolo assaggiato solo poche volte a casa di un collega australiano a Milano, che invece ne è un appassionato (ha vissuto quasi vent'anni a Osaka). Credo di doverne apprezzare il fragrante e leggero aroma di frutti gialli, e il lieve retrogusto alcolico... ma non ci riesco, quindi torno a godermi la mia Kirin alla spina.

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Ancora due giorni di esplorazione mi attendono, quindi pago il conto, saluto e vado sottocoperta.
 

I-DAVE

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6 Novembre 2005
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a Taiwan, nel cuore e nella mente
Novembre non dovrebbe essere una stagione turistica, ma ormai si viaggia tutto l'anno, incuranti del meteo, dei cicli stagionali e dei prezzi. Tranne la Sardegna, quella non la si destagionalizza manco a morire. Divago. Dicevo, ormai si viaggia tutto l'anno e, anche se l'autunno è un ottimo periodo per il Giappone, non mi aspettavo una tale quantità di persone.

Soprattutto la mattina.

La mattina presto.

Ora, mettevi nei miei panni: già faccio fatica ad alzarmi, figuratevi ad alzarmi presto. Ma questa mattina l'ho fatto, conscio di una giornata già piuttosto piena e del rimorso nello starmene a letto invece che a vedere monumenti.

E quindi esco presto.

L'idea è infilare il famoso tempio di Fushimi-Inari nella giornata; potrei andarci subito, facendo un veloce cambio metro-treno, ma decido di prendere il treno alla fermata successiva e passare prima per il mercato di Nishiki; l'idea è pessima già nell'elaborazione: è un mercato di cibo da strada, alle 9 del mattino non è che la mia fame sia particolarmente forte, tantomeno dopo colazione. Però vado lo stesso. E così devono aver pensato altri 10.000 turisti, con americani e cinesi a contendersi la palma del più fastidioso: già il mercato è stretto, se poi ci passano delle orde di Attila...

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Non fate il mio errore: andateci alle sei del mattino. Senza gente, il mercato è splendido, e potete pure fermarvi sia per assaggiare il cibo, che per fare delle foto. Che io non ho fatto, alla ricerca dell'uscita il più velocemente possibile, sotto chilometri e chilometri di tettoie che coprono l'intero mercato.

Per fortuna, ho con me questa chicca: la Fanta Uva con uve shiarudoné (chardonnet) e kaberuné (cabernet), secondo la traslitterazione fonetica giapponese. Eccellente, eccellente nettare divino (giuro che prima o poi mi tolgono la cittadinanza italiana).

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Appena uscito, sono in un modo completamente a parte, estraniato; i miei ricordi sono slavati. Un dedalo di strette vie con case in legno, con poche persone, i ristoranti ancora chiusi: Ponto-cho, il luogo dove le geishe ancora passeggiano per Kyoto. La sera, illuminato dalle lanterne rosse dei ristoranti nascosti dalle porte scorrevoli in legno, l'area lancia dardi fascinosi; con le acque del Kamo che gorgogliano oltre i paraventi in carta di riso (e canna di bambù) e coprono il silenzio degli avventori impegnati nei loro giochi intimi di sguardi e occhiate fugaci, di movimenti studiati e rigidamente regolati da convezioni sociali a noi imperscrutabili; non un posto per le macchine fotografiche.

Di giorno è tutto coperto da un velo di sonnolenza, filtrato dalla luce del sole in faccia che sbiadisce tutto.

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Tra sera e mattina c'è un abisso inquietante. Chissà cosa si cela dietro quelle stuoie abbassate, quali trasgressioni non raccontate dalla sera precedente?

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Esco nuovamente all'aria aperta; non so se fosse giorno e stessi sognando o se fosse notte e stessi vivendo, ma ora è decisamente giorno e sono sveglio. Il Kamo è di fronte a me.

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Supero il fiume e scendo i gradini dell'asettica stazione di Gion-Shijo (ahimè, così truculente e veraci come le stazioni della U-Bahn di Berlino dopo un concerto al Lido, non ce ne sono). Imbarco sul primo treno della Keihan Main Line, direzione Fushimi-Inari.

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La Keihan è una ferrovia privata (non è coperta dal Rail Pass) particolarmente comoda dato che tocca un buon numero di attrazioni.

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Poche fermate dopo sono a destinazione. Già si capisce dal numero di persone alla stazione che sarà un troiaio. Superato un passaggio a livello subito uscito dalla stazione, con il mitico segnale acustico che troverete in qualsiasi anime giapponese, la strada che porta al tempio è piena di bancarelle per i miei acquisti di souvenir kitch (me la cavo con un tori in legno grande come il palmo di una mano e un magnete con torii e kitsune) e per sgranocchiare qualcosa; in particolare uno yakisoba commovente (probabilmente per la quantità di cipolla) e un okonomiyaki le cui foto sono così sfocate che uno potrebbe scambiarle per una digestione rovinosa.

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Già si intravede il tempio e già si intuisce che sarà una scazzottata per salire i gradini e fare una delle famose foto con i torii arancione in fila e senza altre persone di mezzo (spoiler alert: mission accomplished).

Il tempio è il santuario madre dedicato alla dea Inari, la divinità del riso e del raccolto. A Inari è sacra la volpe, la kitsune dalle innumerevoli code; e in tutto il santuario (che si inerpica su una montagna, anch'essa chiamata Inari) vi sono decine di sculture dedicate alla volpe, spesso in pietra ai lati dei torii. Le centinaia di torii sono donazioni di aziende che venerano Inari, che oltre all'agricoltura di occupa anche di commercio, e tutti sanno che è meglio tenersi buoni i protettori. Attraverso i torii passano gli spiriti dal mondo divino a quello terreno, e le kitsune che ne fungono da messaggeri; per lo stesso motivo, la maggior parte dei souvenir con i torii arancioni hanno una volpe dipinta (o incollata) sopra.

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Camminare sul sentiero con la marea di gente intorno è un esercizio zen e abbisogna molta pazienza, anche perché tutti vogliono fare LA foto, cosa che è possibile solo salendo abbastanza in alto da sfaticare chi non vuole fare gli scalini (e sono tanti).

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Trovare il momento giusto (una turista assassina era lì pronta a rovinarmi la foto) mi provoca un piccolo orgasmo fotografico.

Faccio una sosta in un piccolo tempio dove altre statue volspesche adornano un altare. Devo ammettere che in questo frangente mi sono sentito piuttosto mistico.

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Uscendo dal tempio vedo un gatto, e un gatto vede me. Anzi, la genesi di solito è che il gatto ti vede per primo, ma di solito ti ignora. Invece questo gatto mi vede e mi punta. A scelta: o vuole affilare le unghie, o vuole una grattuggiata dietro le orecchie. A differenza di quelli che ritengono i gatti una creatura del dimonio (divinità tutte perdonateli, non sanno cosa dicono), io trasmetto onde gattesche positive e di solito i felini si presentano a me con intenzioni benevole. Ne consegue che il gatto vuole solo una grattata sotto il mento, che, a giudicare dalle fusa, performo particolarmente bene.

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Una turista (credo coreana) trova la scena assai fotogenica, o forse buffa, pensando che io pensassi di essere un gatto. Immortala la scena con una di quelle tremende schifezze istantanee della Polaroid che sono così hipster da trascendere la decenza. Ma mi regala una copia della foto (ne avrà scattate mezza dozzina: con quel che costano quelle pellicole...), e probabilmente ora sarò in un articolo su Mondo Gatto Corea.

Anche la kitsune a guardia del tempio approva e porta in bocca un messaggio delle divinità che dicono: ben fatto.

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Salgo ancora un po', colto da visioni gattesco-mistiche. Arrivo ad un punto panoramico, ma sono controluce nonostante le nuvole, tanto vale giocare un po' con i livelli e rendere l'immagine più drammatica di quanto non sia in realtà.

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Dopo l'ascesa, è il momento della discesa. E così scendo di nuovo nel girone dei turisti, sgomitando per poter uscire.

Torno alla stazione e riprendo il treno/metro verso nord, per la stazione di Kiyomizu-Gojo. È pomeriggio inoltrato, la luce si fa più morbida e all'ombra della collina si sta bene con una felpa addosso. Dal fiume si risale a piedi fino alla collina che ospita il tempio buddhista di Kiyomizu-dera, uno dei più importanti templi giapponesi e parte del patrimonio dell'UNESCO.

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Ad una bancarella acquisto del delizioso mochi ripieno di crema - assolutamente divino. Devo in qualche modo aiutare la mia riserva di zuccheri durante la salita!

Mi attende un altro bagno di folla. La signorina sarà molto contrariata dallo scoprire che la sua foto su Instagram sarà un ingrandimento dei pori del naso.

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La pagoda principale. Purtroppo la main hall era in restauro; visitabile, ma con le impalcature e una coda per entrare che non finiva più. A questo giro passo.

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Koyomisu-dera ha un appeal particolare: la posizione, che guarda tutta la piana di Kyoto. In autunno, col foliage, è ancora più spettacolare... se si riesce ad andare oltre la main hall, proprio sul fianco della collina, in modo da catturare anche il bosco circostante. Io, come si può ben vedere, non l'ho fatto...

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La folla mi sta irritando; la prossima volta vengo durante una pandemia! Si scende dal tempio percorrendo alcune belle stradine tradizionali con edifici (negozi...) in legno, come la Sanneizaka. La mia voglia di souvenir qui può essere soddisfatta al massimo: troverete tutto quello che avrete sempre desiderato e pure quello che non sapevate avreste desiderato.

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Una cosa in particolare troverete qui: lo shop dello Studio Ghibli, quello del maestro Miyazaki, quelli che hanno creato capolavori come Il Castello Errante di Howl, Il mio vicino Totoro, Spirited Away, Princess Mononoke... se non sapete di cosa sto parlando, fareste meglio ad acculturarvi al più presto.

Anche questo è Giappone! Tra un tripudio di pupazzi di Totoro e Nerini della Polvere nascosti tra gli scaffali, evito di dire cos'ho preso per me (a parte la padella con il fondo sagomato a forma di Calcifer, così, quando faccio i pancake, rimangono a forma di demone di fuoco...), ma trovo anche un bellissimo bavaglino per un'amica che aspetta una bimba e che è una grande fan di Totoro.

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Ok volete vedere la padella (vi assicuro fa proprio come nell'animazione, quando rompo le uova):

PANCAKES PAN CALCIFER - HOWL'S MOVING CASTLE - Château Ephémère


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La mia carta di credito chiede pietà e urla vendetta per il mese successivo. Quanto sarò rimasto dentro a rimestare tra gli scaffali? Esco e ormai il crepuscolo è in fase avanzata. Incrocio un risciò, e la fantasia inizia a volare nuovamente verso una Kyoto misteriosa ed elusiva, impenetrabile.

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Eleganti signore in kimono si affrettano per le strade lastricate con i loro tipici passi veloci e corti, gli zori assolutamente silenziosi sotto kimono i cui colori si perdono nel buio.

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È il cuore del quartiere di Gion, che le geishe e le loro maido chiamano casa, un susseguirsi di templi centenari, piccole tea house, porte in legno e quel silenzioso frusciare di kimoni (questi sì originali).

Arrivo al tempio di Yasaka, e sembra che due ragazze si mettano in posa apposta davanti alla porta principale.

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Un palco è adornato con lanterne sponsorizzate dalle aziende del precedente Gion-matsuri, una processione che si tiene annualmente dall'869, quando la popolazione di Kyoto costruì una pagoda portatile per onorare gli spiriti che si ritenne causarono una devastante epidemia.

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Il tempio è vasto e, tolta la porta principale, molto tranquillo.

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Un braciere, di nome e di fatto (かがり火) al parco Maruyama di Gion. È un ristorante hot-pot.

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Continuo la mia passeggiata ormai notturna. Le ombre si allungano alla luce dei lampioni - duecenti anni fa, probabilmente a candela, se c'erano del tutto. Un bicicletta scorrazza suonando il campanello - gli ultimi ritardatari si affrettano a rincasare, che adesso il fresco serale si fa sentire.

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Il mio stomaco brontola, ma resisto ancora un poco; più vicino all'hotel, che da qui dista circa mezz'ora a piedi, ho visto un posto che volevo provare. E così sia - come al solito ordino un po' a caso indicando con le dita quello che penso di volere. E così mi ritrovo con una ciotola di ciccionissimi udon in brodo, insieme a una omelette arrotolata, e un quintale di tempura.

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vipero

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Mo' te tocca cambia' nick: non puoi non essere Nando (eventualmente A-Nando!)

(scusa, è tutta colpa dell'invidia)
 
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Sono andato a Nara nell'ormai lontano 2011, e sono durato pochissimo. Al terzo cerbiatto (che stava attraversando la strada sulle strisce!) un'immagine s'e' inchiodata nella mia mente, un'immagine fortissima, potentissima.

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Sono dovuto scappare per evitare il misfatto e possibili anni di gabbio.
 

I-DAVE

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a Taiwan, nel cuore e nella mente
Nel mio ultimo giorno a Kyoto ho voglia di passeggiare ed esplorare la città a est del fiume Kamo. Come mia abitudine, esco dall'hotel che non è sicuramente particolarmente presto.

A Higashiyama, lo Shirakawa, un piccolo fiume immissario del Kamo, crea una zona particolarmente pittoresca, grazie alle case in legno e all'abbondare di salici.

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La giornata è piacevolmente soleggiata e passeggiare all'ombra dei salici rinfranca, in qualche modo, lo spirito.

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Seguo lo Shirakawa fino al santuario shintoista di Heian. Il santuario non è particolarmente antico, ma è molto significativo per gli abitanti di Kyoto, in quanto è dedicato a due imperatori legatissimi alla città: Kammu, che volle costruire una nuova capitale per l'impero nipponico (Heian, appunto, che poi venne rinominata in Kyoto); e Komei, che fu l'ultimo imperatore a regnare a Kyoto nel 1895.

Il santuario è anticipato da un enorme torii, uno dei più grandi di tutto il Giappone.

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Il santuario è una destinazione turistica importante e molti bus di linea fermano qui. Su alcuni bus è importante ricordare che la porta centrale è specifica per carrozzelle, passeggini e orsi.

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Il tempio segue le forme classiche dei palazzi imperiali del medioevo giapponese. Da visitare ci sarebbero i giardini, ma questa mattina sono chiusi per un evento privato; in primavera è uno dei posti migliori per osservare i ciliegi in fiore.

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Mi faccio firmare il libretto dei templi ed esco, andando verso est con l'idea di fare un (bel) pezzo del Philosopher's Walk. Mi incammino lungo la Reisen-dori, con di fronte a me le colline che coprono il fianco orientale della città. Nonostante siano normali strade urbane con traffico automobilistico, si vedono davvero poche auto, e si sente solo qualche sparuta cicala, una delle ultime prima dell'inverno o anche dell'autunno, che è visibilmente in ritardo.

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Prima di iniziare la camminata dei filosofo, faccio una piccola deviazione a sud per il superbo Eikan-do Zenrin-ji, famoso per lo splendido giardino giapponese che, in autunno, si tinge del rosso acceso degli aceri che ospita.

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Gli interni del tempio, interamente in legno, sono visitabili; si può anche lasciare il proprio goshuincho all'ingresso, dove verrà preparato e timbrato e lasciato in attesa del ritiro all'uscita della visita. La cosa che mi piace sempre, di questi templi, è la necessità di dover entrare senza scarpe: il contatto col legno, caldo quando al sole, freddo all'ombra, e l'assenza di rumori di calpestio, portano sempre in un'atmosfera così remota per noi occidentali. Purtroppo non è possibile fare foto all'interno, ma se capitate in zona, raccomando vivamente la visita.

Esco rilassato come dopo un massaggio shatsu. Torno sui miei passi verso il cammino del filosofo e continuo la mia passeggiata senza pensieri. Vedo una macchinetta un po' diversa rispetto alle solite... vende gelati! Solo in Giappone.

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La giornata è piacevolmente tiepida, quindi perché no?

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Quasi tutto il percorso è costeggiato da un piccolo corso d'acqua, parte del canale che percorre i 20 chilometri fino al lago Biwa e sede della prima centrale idroelettrica del Giappone, inaugurata durante l'epoca Meiji. Alberi di ciliegio cingono la camminata e il canale da ambo i lati.

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Lungo il percorso vi sono decine di piccoli locali, ristorantini, negozi e cafè. Mi fermo in uno che ha un menu scritto anche in inglese su una lavagna, all'esterno, e ordino degli yakisoba, purtroppo non ho fatto foto.

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Entro in uno bellissimo negozio, Suzuki Shofudo, che vende prodotti in carta, dai goshuincho agli album da disegno, dai diari ai barattoli da tè, fino alla carta per rivestimenti, oltre ad un piccolo assortimento di prodotti da cancelleria. Hanno delle cartoline meravigliose. Comprerei mezzo negozio...

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Alcune piccole statue vestite (forse dei Jizo?).

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All'estremità nord della camminata, si trova il Ginkaku-ji, il Tempio d'Argento, patrimonio dell'UNESCO.

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Qui si può ammirare uno dei più celebri giardini zen giapponesi.

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Seguendo il percorso all'interno del tempio, si sale lievemente fino ad un piccolo belvere che mostra il tempio dall'alto e la zona orientale di Kyoto.

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Anche qui è possibile farsi timbrare il goshuincho.

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Uscito dal tempio, percorro l'ultimo tratto del sentiero del filosofo - il cielo si è un po' rannuvolato.

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Alla fine del percorso, mi addentro nel quartiere che costeggia lo Yoshidayama, una piccola collinetta. Non è un quartiere turistico, ma prettamente residenziale. Io lo trovo delizioso, forse perché posto in lieve pendenza, o forse perché così tipicamente giapponese.

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Un torii bianco annuncia un tempio. È quello di Munetada, che nel 1814 fondò una nuova setta shinto dopo che, meditando davanti al sole nascente il solstizio d'inverno, venne curato da tutti i suoi dolori e problemi fisici.

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Mi fermo in un negozietto, attratto dall'odore dolce di crema... mochi freschi!

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Una piccola edicola, con tanto di mini-cascata, al termine di una strada.

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Poco oltre incrocio una grossa strada, dove c'è un altro piccolo tempio, l'Otatsu-Inari Jinja. Non è menzionato in nessuna guida, ma la cosa bella del vagare a caso è anche immergersi nei quartieri e nei loro piccoli tesori, punti di riferimento per la vita di comunità.

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Torno verso il Kamo e attraverso uno dei suoi ponti.

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Coppie parlano sulle panchine, persone passeggiano e un gruppo di studenti nell'uniforme scolastica tornano a casa da lezione. Un altro giorno sta per finire.

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Oltrepasso il fiume e torno nel centro di Kyoto, verso il mio hotel; devo ancora preparare la valigia, cosa che potrebbe rivelarsi più complicato di quanto mi aspetti visto che compro cose compulsivamente, cosa aggravata dal passare davanti ad un Daiso :(

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Per sistemare tutto impiego quasi due ore e, visto che non ho voglia di vagare alla ricerca di un posto dove mangiare, vado al supermercato più vicino e prendo qualcosa di pronto - se capitate a Kyoto e siete in centro, fate un salto da Daikokuya perché hanno un assortimento molto più vasto dei 7-Eleven o dei Family Mart.

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Continua verso il fine settimana con Nagoya e dintorni e il volo di rientro.

DaV
 

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26 Aprile 2012
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Aggiungo un altro commento per non sembrare troppo bestia.

La parentesi di Kyoto e' splendida, Dave. Adoro quella citta', ci sono stato due volte e ci tornerei dopodomani per una terza. Anzi, domani. C'e' qualcosa che la rende epica.